Non sufficit Orbis – La Terra non basta
“Non sufficit orbis” (dal latino: “il mondo non è sufficiente”) è il leggendario epitaffio di Alessandro Magno, poi ripreso da Filippo I Asburgo come motto per vantare la vastità dell’espansione del dominio spagnolo e per legittimarsi come il degno e unico erede del conquistatore macedone.
Milano è spagnola da due anni prima che io venissi al Mondo il primo giorno di primavera, di predisposizione temprato alla Guerra. In realtà, piantare la bandiera sulla terra bruciata degli Sforza finora ci ha portato più spese che guadagni, ma mio padre è convinto che sia la chiave d’Italia. Mi chiamano Filippo il Prudente, per distinguermi dall’altro, da mio nonno Filippo, quello Bello, che piaceva molto alle donne e fece impazzire mia nonna, Giovanna, tanto che dovettero affidare mio padre a una zia che lo crebbe in terra asburgica. Il mio bisnonno, Massimiliano d’Asburgo, sosteneva che dove Marte non riesce, allora ci pensa Venere. Se non hai i soldi per dichiarare guerra a un Paese, allora vacci a letto.
Milano, la terra puttana, se la sono chiavata tutti e, in qualche modo, mio padre ha avuto mira. Perché non anche la Spagna? Infondo, per quattro talleri avrebbe spalancato le sue gambe verso l’Austria e, per questo, non ci avremmo fatto caso se in Valtellina avessero svalicato quei buoni a nulla, gli zotici svizzeri, i sobillatori delle Tre Leghe. Sapevamo che presto avrebbero cominciato a bisticciare e si sarebbero scannati tra di loro, così da non lasciare a noi il lavoro sporco.
Ma io, questo Filippo, che i castelli tedeschi e le principesse bionde non li ha mai frequentati, non si fa distrarre dai vizi del bel mondo. Questo Filippo è un cielo quasi senza nuvole, riflesso nei suoi occhi azzurri ghiacciati.
Filippo irradia il suo potere da un palazzo che ha rubato il posto a una fortezza musulmana, in bilico su una ripida scarpata che lo fa apparire invisibile dal centro di Madrid, ma che è la prima costruzione che il viandante vede entrando nelle mura dal Ponte di Segovia. Ha vissuto e assorbito varie epoche, tutte le quali hanno visto i Trastamara protagonisti; agli italiani e ai francesi le irregolarità della sua facciata appaiono brutte, ma il Real Alcazar è fatto dell’essenza della Spagna: l’argilla rossa del fiume e il granito opaco delle creste frastagliate delle mesetas.
Per me non esiste transizione, solo linee nette, lo squarcio tra presente e passato deve vedersi a occhio nudo e non intendo governare su un popolo non devoto. Non mi piacciono le persone che raccontano storie. Chi racconta bugie agli altri racconta bugie a sé stesso. Dicono che noi Cattolici ostentiamo la nostra Fede con troppo sfarzo, ebbene perché ci si dovrebbe nascondere a bisbigliare? Personalmente, detesto fare tutte quelle cose che implicano doversi nascondere. Ecco perché amo la guerra, perché è l’unico modo per fare la pace. Causa sofferenza? Non è divertente come fare l’amore al buio? Se preghi l’Onnipotente ti salverà. Dio è Verità, Dio è infinita Bontà, Dio è Luce. Non ti chiede nulla in cambio e non posso pensare che la Spagna, la mia terra, bruci all’Inferno perché ha infranto il sesto comandamento. Le menzogne degli eretici sono zoppe e l’Inquisizione corre più in fretta. Dio comprende, Dio tollera – ma, Filippo, è solo un umile figlio di Dio. E un figlio non tradisce il padre. Filippo appicca il fuoco.
La Valtellina, dopo il Concilio di Trento, è diventata l’imbarazzante culla delle serpi. Ci fuggono quelli che si contraddicono, che sputano nel piatto dove hanno mangiato, che rinnegano le loro madri per non farsi uccidere. Li chiamano gli esuli religionis causa e sono abili raccontatori di palle che amano giocare a nascondino. Ma non sanno che chi conta fino a dieci ha il privilegio di non dover correre prima e sprecare fiato.
La pioggia si mischia all’acqua del fiume e scorre fino agli speroni delle coste smeraldo con lo sguardo sospinto lontano fino alle Americhe; così, il sangue rovente dei Trastamara è fatto di lacrime salate e dolci malinconie che si rincorrono fino alla baia di Ria de Muros y Noya, dove si fondono con i vortici mortali dell’Oceano. Anche l’oro, al suo contatto, diventa liquido.
“Da quale parte stai, Filippo?” sono soliti chiedermi e io non trovo nessun’altra risposta a parte “Sto da quella giusta”. I Trastamara, la mia famiglia, il sangue che pulsa a ritmo nelle mie vene, viene da al di là del fiume Tamaris. Tamara nelle Sacre Scritture era la bella figlia del Re David. Il suo fratellastro si era inevitabilmente innamorato di lei e, come succede a chi non domina la temperatura del cuore, la violenta, la dissacra, la conquista e poi la odia. Come tutte le Terre conquistate senza Fede, lei entra in uno stato di lutto perpetuo. Così, il fratello della sciagurata si sente in dovere di andare a ripescare l’onore di Tamara e, in occasione della festa della tosatura delle pecore, fa ubriacare l’usurpatore e lo uccide. Dopo il sesto comandamento, non fornicare, viene il settimo: non rubare.
Al nono anno di lutto di Manuela, la piccola Manuelita che mi aveva dato il mio amatissimo figlio, mio padre mi comunicò che aveva trovato quella giusta, Maria Tudor, figlia di Enrico d’Inghilterra: era arrivato il momento di estendere la locura fino ad oltre la Manica.
“Ha undici anni in più di me!” sbottai. Non ero uno che cercava moglie o amanti, però un minimo di decenza me l’aspettavo, anche in vista di eredi sani di mente. Mio padre rise beffardo, aveva ereditato la pazzia da sua madre, quella indecente che ti spinge a non vergognarti di quello che vuoi, tanto lo vuoi lo stesso anche se non lo dici ad alta voce, quindi tanto vale urlarlo. “Tu hai un unico capriccio, figlio mio. Non ti piace giocare, non ti piace bere e non ti piace fottere. A te interessa solo il Cattolicesimo!”. Lo guardai incredulo. Stava bestemmiando. La Spagna era dei Trastamara perché Dio proteggeva noi e le nostre genti cattoliche. Una sola miccia avrebbe bruciato tutta la paglia nei fienili, io ci stavo mettendo tutta la mia linfa vitale per proteggere i miei sudditi che parlavano mille lingue e che pregavano un solo Dio. “Vuole restaurare il Cattolicesimo in Inghilterra ora che quel bandolero di suo padre è morto…” me la descrisse e si mise a sedere sulla poltrona davanti al camino, voltandomi le spalle – aveva già deciso.
Io, che ero cresciuto con un padre tanto presente che aveva già pianificato anche il mio funerale, ero così diverso da quella donna che sarebbe diventata la mia seconda moglie. Caterina, la sorella di mia nonna Giovanna, era andata in sposa ad Arturo Tudor, ma rimanendo presto vedova le avevano fatto sposare il fratello sballato, Enrico. Ai Trastamara piaceva questo tipo di matrimoni folli, ne erano pieni gli annali e così nacque Maria, anche se Enrico pretendeva il maschio… Quando incontrò Anna Bolena fece carte false, si inventò una sua religione per ottenere il divorzio, allontanare Maria da sua madre e, nondimeno, dichiararla illegittima.
Prima di sposarla non l’avevo mai vista e non avevo mai incontrato nemmeno una donna così bionda, così pallida, come un’improbabile porcellana blu. Era pia, ma in un modo crudele, sanguinario. Se, come aveva detto mio padre, per me la Fede era un gioco-forza, per lei era ripicca cruda. Lei ne aveva sete.
Mi fermavo poco in Inghilterra e ci tornavo raramente. In quelle poche occasioni, Maria ed io ci parlavamo poco e, non sapendo uno la lingua dell’altra, avevamo ripiegato sul Latino, la lingua Santa. E il resto delle cose meno sacre le facevamo in rigoroso silenzio. Non è che non mi piacesse, mi faceva paura. Con lei era come marciare contro un nemico che sai già che ti farà a pezzi, perciò firmi la pace a tavolino.
“Filippo” mi chiamò una volta. Stavo per andarmene. Ero in Inghilterra da una settimana, ma non l’avevo ancora vista. Avevo fatto spallucce, infondo la Regina delle sue terre era lei. “Don Carlos?” mi domandò. Lei qualche parola in spagnolo l’aveva imparata, infondo era più simile al Latino della sua lingua senza vocali. “Vale! Well!”. In qualcosa, grazie alla conquiste di Giulio Cesare, qualche parola si assomigliava. Carlo, mio figlio, aveva già cominciato a dare segni di quella malattia che io chiamavo la febbre dei Trastamara.
Mi invitò a cena con lei. Era raro che lei cenasse e fu la prima e ultima volta che consumai un pasto con lei.
Un po’ a gesti e un po’ mischiando gli idiomi di mezza Europa, tutto il mondo che noi avevamo ai nostri piedi, mi raccontò la sua storia.
“Quando uccisero Anna io risi davanti alla sua morte. La Regina era mia madre, lei la troia con la corona che andava a letto con mio padre”. Capii che a Maria era mancata una cosa che tutti i figli dovrebbero avere per poterlo restituire: l’amore dei propri genitori. Annuii. Non volevo finire la cena con un coltello piantato nella giugulare. Quella donna aveva avuto in eredità, oltre al sangue caldo dei Trastamara, la mancanza di pudore dei Tudor e aveva il cuore pieno di polvere da sparo. “Anche al popolo non piaceva, era un’usurpatrice” si giustificò. “Non riusciva a partorire maschi perché era stata vittima di un sortilegio. Poi, mio padre smise di considerarla la sua principessa sul pisello – rise, le piacevano quei giochi di parole sporche – e lei lo tradì anche con la servitù”. Il finale della storia lo conoscevo anche io. Enrico la fece decapitare e ne ebbe pietà, benché al nord per tradimento al Re, si finiva al rogo. L’ho già detto, Enrico si sentiva più in alto di Dio. Maria diventò Regina perché il popolo la volle al suo posto. Aveva già trentasette anni, non aveva nessuna preparazione politica e non si fidava di nessuno tranne di mio padre che gli ha fatto sposare me. “Io non sono cattiva” si discolpò senza cercare approvazione e io non l’avrei mai e poi mai contraddetta, così come facevo con Carlos se non volevo che avesse una delle sue crisi isteriche. “Mio padre si è risposato con Jane, la dama di compagnia di mamma ed è nata Elisabetta. Il popolo mi ha chiesto di condannarla a morte, così da non avere rivali e io l’ho risparmiata”. Le sorrisi tiepido. “Nel suo oroscopo c’è già scritto che sarà la Regina Vergine, regnerà sull’Inghilterra e non conoscerà mai i piaceri della carne” mi svelò l’arcano dietro alla sua magnanimità.
Non mi piaceva, ma mi faceva sentire cattolicissimo. Si lasciò prendere lì su quel tavolo troppo grande per sole due persone. Con la servitù nascosta dietro le pareti perché se ci avessero visto sarebbero bruciati vivi all’inferno. Andai via dopo qualche ora, non ci salutammo nemmeno. Ci pensai molto a quello che era successo nei giorni successivi. Mi causava ostinata libidine, ma il ricordo non riusciva a cancellare dalla mia mente che tutto quello che faceva quella donna fosse mosso dall’odio, che è figlio di amore malato.
Dopo qualche mese tornai in Inghilterra. Mia moglie mi accolse come un cagnolino quando vede tornare il padrone e gli fa le feste. Mi chiesi dove nascondeva il pugnale. Si toccò la pancia. Era un gesto inequivocabile. Mi tornò alla mente come era potuto succedere. No, non così. Così, Dio mi avrebbe punito.
Poi, i mesi passarono e da quella pancia gonfia non uscivano bambini. “Està loca” mi palesò l’ennesima mammana iberica dalla quale la feci visitare. Non capivo. Mi spiegò che se una donna non riesce ad avere figli e lo desidera molto, la sua mente e il suo corpo le fanno credere che lo sia. “Che devo fare?” domandai io, che di solito sulle strategie andavo forte. “Nulla, sua Maestà, solo fare finta di non sapere” mi si spiegò con la superiorità pratica di chi è avvezzo alla vita fuori dalle mura del castello. Feci come facevo di solito, me ne andai senza salutare. Lei sapeva che se facevo in quel modo, prima o poi sarei ritornato. Non ero un marito disattento, mi sinceravo con la sua dama che ogni giorno ricevesse una rosa rosa e una blu per quella nuova vita che non sarebbe mai venuta al mondo. Era troppo vecchia. Ma questo non osavano dirglielo nemmeno gli inglesi, se no li avrebbe messi su una pira come eretici.
Morì qualche mese dopo. Un male incurabile le aveva infestato le sue parti materne, quelle che le impedivano di creare la vita. Forse era da lì che le partiva l’odio, forse era lì che si era insidiato il male che le aveva fatto suo padre e che nessun altro uomo entrando dentro di lei poteva guarire.
Non piansi una lacrima per la sua morte. La sua anima era già dannata prima che io la conoscessi. E la mia purezza, davanti al suo peccato, diventò ancora più candida.
Aveva ragione mio padre, Carlo V: quella donna mi serviva. A Filippo Trastamara, quello che non piange sul talamo tinto di nero, il Mondo calza stretto.
Quando morì Maria, inevitabilmente, mi tornò in mente Manuela.
Mi chiamarono poco prima che spirasse, era ancora nel letto da puerpera, nel gineceo dentro il quale non era permesso agli uomini di assistere al momento in cui una donna chiama fuori una vita. Il dottore mi fece sapere che se avessi voluto salutarla, quello era il momento giusto.
“Un maschio?” mi chiese o affermò e non avevo potuto domandarle nient’altro, perché quella fu l’ultima aria che uscì dalla sua bocca. Carlos piangeva, è così che si entra nel Mondo dei mortali.
Così, capii che solo io lo potevo proteggere perché se da Manuela avrebbe ereditato la capacità di dare senza aspettarsi nulla in cambio, dal mio lignaggio avrebbe avuto la facoltà di sperperarla senza il senso della misura – se non sei prudente si prendono tutto e lasciano solo la carcassa da far spolpare ai corvi.
Manuela ed io avevamo la stessa età, eravamo cresciuti pressoché insieme da cugini, anzi, come fratello e sorella, e i nostri genitori ci avevano fatti unire per fare in modo che il Portogallo diventasse parte della Spagna ed evitare – così la chiamavano – una crisi di dinastia. Questo era un infausto destino che toccava solo ai cavalli di razza e ai nobili e si fece un gran fracasso per non far sembrare al popolo che i D’Aviz non avessero più soldi per trainare le carrozze.
Ma un po’ perché eravamo davvero ancora dei bambini vestiti d’oro e di damaschi e un po’ perché io di carattere sono sempre stato un po’ schivo, reticente verso ciò che è corrotto nella natura umana, non ci riusciva di passare più del tempo insieme che non fosse impacciato; noi che avevamo giocato insieme per tutta l’infanzia, non riuscivamo a incontrarci nella vita degli adulti.
Ci vollero quasi due anni per prendere la dimestichezza, non senza i i rimproveri di mio suocero o i caldi consigli di mio padre che, in sostanza, dicevano la stessa cosa: “Filippo, sei il Re e al re è richiesto che ingravidi la Regina!”. Ma io ci trovavo qualcosa di vizioso, di sbagliato, di disumano – anche se fu interpretato dagli altri, da quelli che si sentivano veri uomini impavidi, come la giustificazione di tutto ciò che io avrei fatto nella mia alcova da lì in poi. “Re Filippo è troppo freddo con le donne!”. Manuela sapeva che non le volevo mancare di rispetto perché era la mia Regina e Manuela non era la più sprovveduta tra le cortigiane. Come spesso succede nelle questioni amorose, fu lei – da donna – a prendere in mano la questione. Si dice prendere il toro per le corna, in questi casi.
Manuela era bellissima, nessun uomo avrebbe dovuto rifiutarla. Aveva i colori dell’estate, i capelli color grano, le labbra di ciliegia e gli occhi turchesi come i fiumi quasi in secca. Non le piaceva vedermi accigliato, diceva che l’umore lugubre mi faceva venire la patina agli occhi come succede all’argento non lucidato.
“Filippo, lo so che è perché non sono incinta…” mi disse irrompendo nel silenzio a cena, mentre giocherellavo inappetente con le molliche di una pagnotta. Era una moglie alla quale non sfuggivano le briciole. “Già! E come potresti?” chiesi con una retorica beffarda. Io ero un marito taccagno di sentimento, che non faceva trapelare nessuna voglia e si aspettava che lei deducesse i suoi appetiti dai digiuni intermittenti. Eravamo piccoli, inesperti, però lo sapevamo che cosa non ci rendeva marito e moglie. Lei si mise a ridere, anche se da questo dipendeva la sorte di un regno. “Tu non hai mai…?” mi domandò senza finire in turpiloquio. Sembravamo solo due adolescenti che si scambiano confidenze, come quando eravamo solo cugini e alle cose del mondo ci pensavano i nostri genitori. “Non con te!” mi pavoneggiai mentendo. Avevo solo visto due servi farlo nelle scuderie. Mi era piaciuto guardarli, ma non mi era mai venuto l’impulso di farlo in prima persona. “E tu?” le chiesi, anche se la risposta di una donna a questa domanda era legata al suo onore, alla sua integrità come moglie. Scosse la testa e distolse lo sguardo imbarazzata, perché non aveva la minima idea di come porre ammenda ai nostri grattacapi.
Lei non mentiva su niente. La prima volta che andai nelle sue stanza private, le lenzuola si tinsero dello stesso rosso del quale le sue labbra erano naturalmente colorate senza la cocciniglia che usavano le sue dame di compagnia. Avevamo deciso così: ci sarei andato tre volte la settimana e l’avevamo preso come un compito per scolaretti. Il primo mese fu difficile, quasi forzato, il secondo soltanto un po’ strano, come aprire un ombrello se non piove, il terzo non vedevo l’ora di varcare la porta e trovarla pronta per me. Aveva ragione mio padre, ciò che Dio unisce non può essere separato e, con un po’ di pratica, i nostri corpi cominciarono a conoscersi.
Ci imbarazzava vedere le nudità dei nostri corpi e spegnevamo tutte le candele, ma erano nostre le mani che ci toccavano facendoci perdere il respiro e la ragione. Quando mi confessavo, ero pronto a dire tutto ciò che mi faceva tremare quando stavo con lei e altrettanto pronto a chiedere scusa perché lo stavo facendo con mia cugina e non con una a caso. Eppure, Dio ascoltò le nostre preghiere unite a quelle che Manuela faceva incessantemente a San Tiago, Giacomo – protettore di quelli che se ne vanno e al quale lei era devotissima.
Rimase incinta. Facemmo finta di essere contenti di dover smettere di accoppiarci come conigli per qualche tempo. Il suo corpo da esile bambina si gonfiò sul ventre, tanto che lei ci metteva sopra due mani come se stesse portando un’anfora piena d’acqua. Se lo teneva stretto, lo custodiva, e sapevo che i nostri figli me l’avrebbero sempre portata via un po’, ma non sapevo che la sorte avrebbe voluto che fossi io a credere che mio figlio fosse l’unica ragione per cui io mi butterei tra le fiamme come un condannato per blasfemia. Non potendo più consumare con la grazia dall’Altissimo, mi recavo nelle sue stanze soltanto per mettere la mano sulla sua pancia e sentire scalciare la creatura. Facevo allontanare tutta la servitù perché solo io, da re, potevo proteggere la dinastia. Diventando padre, sono anche diventato uomo.
Non piansi al suo funerale. Mi recriminavano anche questo. Filippo è un re senza emozioni, sa solo fare la guerra.In una delle nostre notti insieme decisi di rimanere a dormire con lei. Era come tenere una statua crisoelefantina pulsante di vita sotto le tue dita. Era come sentire che era mia e non ho più voluto che su una donna gravasse quella mia idea di possesso, poiché apparteniamo solo a Dio e non ne siamo che un suo disegno. Cominciò a cantarmi una canzone in portoghese, sulle caravelle di Cristoforo Colombo. La canzone sciorinava che la Nina, la Pinta e la Santa Maria rappresentano la moglie perfetta: un po’ bambina, un’ po’ lasciva e un po’ santa.
E ancora adesso, nella mia non-ricerca di una moglie, è quello che mi spinge a crederne una più valida di un’altra. Non piansi al suo funerale, è vero – ma mi si creò come una caria nel cuore, un piccolo buco destinato a dolere poco per sempre. Eppure penso che, da viva, solo Manuela avrebbe potuto continuare il filo elastico della linea ereditaria dei Trastamara, solo che io non l’ho tenuta stretta abbastanza e quell’elastico si è trasformato in una frusta contro di lei. In qualche modo, l’ho uccisa io mettendogli in seno il seme di un figlio con gli occhi uno diverso dall’altro: uno verde come gli smeraldi che avrei dovuto regalarle solo per essere mia moglie, l’altro azzurro come le colpe che mi girano dietro le orbite quando penso con gli occhi fissi verso l’Eterno. Un giorno la rivedrò e non penso mi perdonerà. E, se a ogni peccato corrisponde un castigo, questo sarà il mio.
❤ Miss Raincoat
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Quelli tra palco e realtà
Le ricostruzioni dinastiche e storiche dei Trastamara &Co., per quanto romanzate, sono pressoché veritiere.