1*01 – Non sufficit Orbis

“Non sufficit orbis” (dal latino: “il mondo non è sufficiente”) è il leggendario epitaffio di Alessandro Magno, poi ripreso da Filippo I Asburgo come motto per vantare la vastità dell’espansione del dominio spagnolo e per legittimarsi come il degno e unico erede del conquistatore macedone.

Milano è spagnola da due anni prima che io venissi al Mondo il primo giorno di primavera, di predisposizione temprato alla Guerra. In realtà, piantare la bandiera sulla terra bruciata degli Sforza finora ci ha portato più spese che guadagni, ma mio padre è convinto che sia la chiave d’Italia. Mi chiamano Filippo il Prudente, per distinguermi dall’altro, da mio nonno Filippo, quello Bello, che piaceva molto alle donne e fece impazzire mia nonna, Giovanna, tanto che dovettero affidare mio padre a una zia che lo crebbe in terra asburgica. Il mio bisnonno, Massimiliano d’Asburgo, sosteneva che dove Marte non riesce, allora ci pensa Venere. Se non hai i soldi per dichiarare guerra a un Paese, allora vacci a letto.

Milano, la terra puttana, se la sono chiavata tutti e, in qualche modo, mio padre ha avuto mira. Perché non anche la Spagna? Infondo, per quattro talleri avrebbe spalancato le sue gambe verso l’Austria e, per questo, non ci avremmo fatto caso se in Valtellina avessero svalicato quei buoni a nulla, gli zotici svizzeri, i sobillatori delle Tre Leghe. Sapevamo che presto avrebbero cominciato a bisticciare e si sarebbero scannati tra di loro, così da non lasciare a noi il lavoro sporco.

Ma io, questo Filippo, che i castelli tedeschi e le principesse bionde non li ha mai frequentati, non si fa distrarre dai vizi del bel mondo. Questo Filippo è un cielo quasi senza nuvole, riflesso nei suoi occhi azzurri ghiacciati.

Filippo irradia il suo potere da un palazzo che ha rubato il posto a una fortezza musulmana, in bilico su una ripida scarpata che lo fa apparire invisibile dal centro di Madrid, ma che è la prima costruzione che il viandante vede entrando nelle mura dal Ponte di Segovia. Ha vissuto e assorbito varie epoche, tutte le quali hanno visto i Trastamara protagonisti; agli italiani e ai francesi le irregolarità della sua facciata appaiono brutte, ma il Real Alcazar è fatto dell’essenza della Spagna: l’argilla rossa del fiume e il granito opaco delle creste frastagliate delle mesetas.

Per me non esiste transizione, solo linee nette, lo squarcio tra presente e passato deve vedersi a occhio nudo e non intendo governare su un popolo non devoto. Non mi piacciono le persone che raccontano storie. Chi racconta bugie agli altri racconta bugie a sé stesso. Dicono che noi Cattolici ostentiamo la nostra Fede con troppo sfarzo, ebbene perché ci si dovrebbe nascondere a bisbigliare? Personalmente, detesto fare tutte quelle cose che implicano doversi nascondere. Ecco perché amo la guerra, perché è l’unico modo per fare la pace. Causa sofferenza? Non è divertente come fare l’amore al buio? Se preghi l’Onnipotente ti salverà. Dio è Verità, Dio è infinita Bontà, Dio è Luce. Non ti chiede nulla in cambio e non posso pensare che la Spagna, la mia terra, bruci all’Inferno perché ha infranto il sesto comandamento. Le menzogne degli eretici sono zoppe e l’Inquisizione corre più in fretta. Dio comprende, Dio tollera – ma, Filippo, è solo un umile figlio di Dio. E un figlio non tradisce il padre. Filippo appicca il fuoco.

La Valtellina, dopo il Concilio di Trento, è diventata l’imbarazzante culla delle serpi. Ci fuggono quelli che si contraddicono, che sputano nel piatto dove hanno mangiato, che rinnegano le loro madri per non farsi uccidere. Li chiamano gli esuli religionis causa e sono abili raccontatori di palle che amano giocare a nascondino. Ma non sanno che chi conta fino a dieci ha il privilegio di non dover correre prima e sprecare fiato.

La pioggia si mischia all’acqua del fiume e scorre fino agli speroni delle coste smeraldo con lo sguardo sospinto lontano fino alle Americhe; così, il sangue rovente dei Trastamara è fatto di lacrime salate e dolci malinconie che si rincorrono fino alla baia di Ria de Muros y Noya, dove si fondono con i vortici mortali dell’Oceano. Anche l’oro, al suo contatto, diventa liquido.

“Da quale parte stai, Filippo?” sono soliti chiedermi e io non trovo nessun’altra risposta a parte “Sto da quella giusta”. I Trastamara, la mia famiglia, il sangue che pulsa a ritmo nelle mie vene, viene da al di là del fiume Tamaris. Tamara nelle Sacre Scritture era la bella figlia del Re David. Il suo fratellastro si era inevitabilmente innamorato di lei e, come succede a chi non domina la temperatura del cuore, la violenta, la dissacra, la conquista e poi la odia. Come tutte le Terre conquistate senza Fede, lei entra in uno stato di lutto perpetuo. Così, il fratello della sciagurata si sente in dovere di andare a ripescare l’onore di Tamara e, in occasione della festa della tosatura delle pecore, fa ubriacare l’usurpatore e lo uccide. Dopo il sesto comandamento, non fornicare, viene il settimo: non rubare.

Al nono anno di lutto di Manuela, la piccola Manuelita che mi aveva dato il mio amatissimo figlio, mio padre mi comunicò che aveva trovato quella giusta, Maria Tudor, figlia di Enrico d’Inghilterra: era arrivato il momento di estendere la locura fino ad oltre la Manica.

“Ha undici anni in più di me!” sbottai. Non ero uno che cercava moglie o amanti, però un minimo di decenza me l’aspettavo, anche in vista di eredi sani di mente. Mio padre rise beffardo, aveva ereditato la pazzia da sua madre, quella indecente che ti spinge a non vergognarti di quello che vuoi, tanto lo vuoi lo stesso anche se non lo dici ad alta voce, quindi tanto vale urlarlo. “Tu hai un unico capriccio, figlio mio. Non ti piace giocare, non ti piace bere e non ti piace fottere. A te interessa solo il Cattolicesimo!”. Lo guardai incredulo. Stava bestemmiando. La Spagna era dei Trastamara perché Dio proteggeva noi e le nostre genti cattoliche. Una sola miccia avrebbe bruciato tutta la paglia nei fienili, io ci stavo mettendo tutta la mia linfa vitale per proteggere i miei sudditi che parlavano mille lingue e che pregavano un solo Dio. “Vuole restaurare il Cattolicesimo in Inghilterra ora che quel bandolero di suo padre è morto…” me la descrisse e si mise a sedere sulla poltrona davanti al camino, voltandomi le spalle – aveva già deciso.

Io, che ero cresciuto con un padre tanto presente che aveva già pianificato anche il mio funerale, ero così diverso da quella donna che sarebbe diventata la mia seconda moglie. Caterina, la sorella di mia nonna Giovanna, era andata in sposa ad Arturo Tudor, ma rimanendo presto vedova le avevano fatto sposare il fratello sballato, Enrico. Ai Trastamara piaceva questo tipo di matrimoni folli, ne erano pieni gli annali e così nacque Maria, anche se Enrico pretendeva il maschio… Quando incontrò Anna Bolena fece carte false, si inventò una sua religione per ottenere il divorzio, allontanare Maria da sua madre e, nondimeno, dichiararla illegittima.

Prima di sposarla non l’avevo mai vista e non avevo mai incontrato nemmeno una donna così bionda, così pallida, come un’improbabile porcellana blu. Era pia, ma in un modo crudele, sanguinario. Se, come aveva detto mio padre, per me la Fede era un gioco-forza, per lei era ripicca cruda. Lei ne aveva sete.

Mi fermavo poco in Inghilterra e ci tornavo raramente. In quelle poche occasioni, Maria ed io ci parlavamo poco e, non sapendo uno la lingua dell’altra, avevamo ripiegato sul Latino, la lingua Santa. E il resto delle cose meno sacre le facevamo in rigoroso silenzio. Non è che non mi piacesse, mi faceva paura. Con lei era come marciare contro un nemico che sai già che ti farà a pezzi, perciò firmi la pace a tavolino.

“Filippo” mi chiamò una volta. Stavo per andarmene. Ero in Inghilterra da una settimana, ma non l’avevo ancora vista. Avevo fatto spallucce, infondo la Regina delle sue terre era lei. “Don Carlos?” mi domandò. Lei qualche parola in spagnolo l’aveva imparata, infondo era più simile al Latino della sua lingua senza vocali. “Vale! Well!”. In qualcosa, grazie alla conquiste di Giulio Cesare, qualche parola si assomigliava. Carlo, mio figlio, aveva già cominciato a dare segni di quella malattia che io chiamavo la febbre dei Trastamara.

Mi invitò a cena con lei. Era raro che lei cenasse e fu la prima e ultima volta che consumai un pasto con lei.

Un po’ a gesti e un po’ mischiando gli idiomi di mezza Europa, tutto il mondo che noi avevamo ai nostri piedi, mi raccontò la sua storia.

“Quando uccisero Anna io risi davanti alla sua morte. La Regina era mia madre, lei la troia con la corona che andava a letto con mio padre”. Capii che a Maria era mancata una cosa che tutti i figli dovrebbero avere per poterlo restituire: l’amore dei propri genitori. Annuii. Non volevo finire la cena con un coltello piantato nella giugulare. Quella donna aveva avuto in eredità, oltre al sangue caldo dei Trastamara, la mancanza di pudore dei Tudor e aveva il cuore pieno di polvere da sparo. “Anche al popolo non piaceva, era un’usurpatrice” si giustificò. “Non riusciva a partorire maschi perché era stata vittima di un sortilegio. Poi, mio padre smise di considerarla la sua principessa sul pisello – rise, le piacevano quei giochi di parole sporche – e lei lo tradì anche con la servitù”. Il finale della storia lo conoscevo anche io. Enrico la fece decapitare e ne ebbe pietà, benché al nord per tradimento al Re, si finiva al rogo. L’ho già detto, Enrico si sentiva più in alto di Dio. Maria diventò Regina perché il popolo la volle al suo posto. Aveva già trentasette anni, non aveva nessuna preparazione politica e non si fidava di nessuno tranne di mio padre che gli ha fatto sposare me. “Io non sono cattiva” si discolpò senza cercare approvazione e io non l’avrei mai e poi mai contraddetta, così come facevo con Carlos se non volevo che avesse una delle sue crisi isteriche. “Mio padre si è risposato con Jane, la dama di compagnia di mamma ed è nata Elisabetta. Il popolo mi ha chiesto di condannarla a morte, così da non avere rivali e io l’ho risparmiata”. Le sorrisi tiepido. “Nel suo oroscopo c’è già scritto che sarà la Regina Vergine, regnerà sull’Inghilterra e non conoscerà mai i piaceri della carne” mi svelò l’arcano dietro alla sua magnanimità.

Non mi piaceva, ma mi faceva sentire cattolicissimo. Si lasciò prendere lì su quel tavolo troppo grande per sole due persone. Con la servitù nascosta dietro le pareti perché se ci avessero visto sarebbero bruciati vivi all’inferno. Andai via dopo qualche ora, non ci salutammo nemmeno. Ci pensai molto a quello che era successo nei giorni successivi. Mi causava ostinata libidine, ma il ricordo non riusciva a cancellare dalla mia mente che tutto quello che faceva quella donna fosse mosso dall’odio, che è figlio di amore malato.

Dopo qualche mese tornai in Inghilterra. Mia moglie mi accolse come un cagnolino quando vede tornare il padrone e gli fa le feste. Mi chiesi dove nascondeva il pugnale. Si toccò la pancia. Era un gesto inequivocabile. Mi tornò alla mente come era potuto succedere. No, non così. Così, Dio mi avrebbe punito.

Poi, i mesi passarono e da quella pancia gonfia non uscivano bambini. “Està loca” mi palesò l’ennesima mammana iberica dalla quale la feci visitare. Non capivo. Mi spiegò che se una donna non riesce ad avere figli e lo desidera molto, la sua mente e il suo corpo le fanno credere che lo sia. “Che devo fare?” domandai io, che di solito sulle strategie andavo forte. “Nulla, sua Maestà, solo fare finta di non sapere” mi si spiegò con la superiorità pratica di chi è avvezzo alla vita fuori dalle mura del castello. Feci come facevo di solito, me ne andai senza salutare. Lei sapeva che se facevo in quel modo, prima o poi sarei ritornato. Non ero un marito disattento, mi sinceravo con la sua dama che ogni giorno ricevesse una rosa rosa e una blu per quella nuova vita che non sarebbe mai venuta al mondo. Era troppo vecchia. Ma questo non osavano dirglielo nemmeno gli inglesi, se no li avrebbe messi su una pira come eretici.

Morì qualche mese dopo. Un male incurabile le aveva infestato le sue parti materne, quelle che le impedivano di creare la vita. Forse era da lì che le partiva l’odio, forse era lì che si era insidiato il male che le aveva fatto suo padre e che nessun altro uomo entrando dentro di lei poteva guarire.

Non piansi una lacrima per la sua morte. La sua anima era già dannata prima che io la conoscessi. E la mia purezza, davanti al suo peccato, diventò ancora più candida.

Aveva ragione mio padre, Carlo V: quella donna mi serviva. A Filippo Trastamara, quello che non piange sul talamo tinto di nero, il Mondo calza stretto.

Quando morì Maria, inevitabilmente, mi tornò in mente Manuela.

Mi chiamarono poco prima che spirasse, era ancora nel letto da puerpera, nel gineceo dentro il quale non era permesso agli uomini di assistere al momento in cui una donna chiama fuori una vita. Il dottore mi fece sapere che se avessi voluto salutarla, quello era il momento giusto.

“Un maschio?” mi chiese o affermò e non avevo potuto domandarle nient’altro, perché quella fu l’ultima aria che uscì dalla sua bocca. Carlos piangeva, è così che si entra nel Mondo dei mortali.

Così, capii che solo io lo potevo proteggere perché se da Manuela avrebbe ereditato la capacità di dare senza aspettarsi nulla in cambio, dal mio lignaggio avrebbe avuto la facoltà di sperperarla senza il senso della misura – se non sei prudente si prendono tutto e lasciano solo la carcassa da far spolpare ai corvi.

Manuela ed io avevamo la stessa età, eravamo cresciuti pressoché insieme da cugini, anzi, come fratello e sorella, e i nostri genitori ci avevano fatti unire per fare in modo che il Portogallo diventasse parte della Spagna ed evitare – così la chiamavano – una crisi di dinastia. Questo era un infausto destino che toccava solo ai cavalli di razza e ai nobili e si fece un gran fracasso per non far sembrare al popolo che i D’Aviz non avessero più soldi per trainare le carrozze.

Ma un po’ perché eravamo davvero ancora dei bambini vestiti d’oro e di damaschi e un po’ perché io di carattere sono sempre stato un po’ schivo, reticente verso ciò che è corrotto nella natura umana, non ci riusciva di passare più del tempo insieme che non fosse impacciato; noi che avevamo giocato insieme per tutta l’infanzia, non riuscivamo a incontrarci nella vita degli adulti.

Ci vollero quasi due anni per prendere la dimestichezza, non senza i i rimproveri di mio suocero o i caldi consigli di mio padre che, in sostanza, dicevano la stessa cosa: “Filippo, sei il Re e al re è richiesto che ingravidi la Regina!”. Ma io ci trovavo qualcosa di vizioso, di sbagliato, di disumano – anche se fu interpretato dagli altri, da quelli che si sentivano veri uomini impavidi, come la giustificazione di tutto ciò che io avrei fatto nella mia alcova da lì in poi. “Re Filippo è troppo freddo con le donne!”. Manuela sapeva che non le volevo mancare di rispetto perché era la mia Regina e Manuela non era la più sprovveduta tra le cortigiane. Come spesso succede nelle questioni amorose, fu lei – da donna – a prendere in mano la questione. Si dice prendere il toro per le corna, in questi casi.

Manuela era bellissima, nessun uomo avrebbe dovuto rifiutarla. Aveva i colori dell’estate, i capelli color grano, le labbra di ciliegia e gli occhi turchesi come i fiumi quasi in secca. Non le piaceva vedermi accigliato, diceva che l’umore lugubre mi faceva venire la patina agli occhi come succede all’argento non lucidato.

“Filippo, lo so che è perché non sono incinta…” mi disse irrompendo nel silenzio a cena, mentre giocherellavo inappetente con le molliche di una pagnotta. Era una moglie alla quale non sfuggivano le briciole. “Già! E come potresti?” chiesi con una retorica beffarda. Io ero un marito taccagno di sentimento, che non faceva trapelare nessuna voglia e si aspettava che lei deducesse i suoi appetiti dai digiuni intermittenti. Eravamo piccoli, inesperti, però lo sapevamo che cosa non ci rendeva marito e moglie. Lei si mise a ridere, anche se da questo dipendeva la sorte di un regno. “Tu non hai mai…?” mi domandò senza finire in turpiloquio. Sembravamo solo due adolescenti che si scambiano confidenze, come quando eravamo solo cugini e alle cose del mondo ci pensavano i nostri genitori. “Non con te!” mi pavoneggiai mentendo. Avevo solo visto due servi farlo nelle scuderie. Mi era piaciuto guardarli, ma non mi era mai venuto l’impulso di farlo in prima persona. “E tu?” le chiesi, anche se la risposta di una donna a questa domanda era legata al suo onore, alla sua integrità come moglie. Scosse la testa e distolse lo sguardo imbarazzata, perché non aveva la minima idea di come porre ammenda ai nostri grattacapi.

Lei non mentiva su niente. La prima volta che andai nelle sue stanza private, le lenzuola si tinsero dello stesso rosso del quale le sue labbra erano naturalmente colorate senza la cocciniglia che usavano le sue dame di compagnia. Avevamo deciso così: ci sarei andato tre volte la settimana e l’avevamo preso come un compito per scolaretti. Il primo mese fu difficile, quasi forzato, il secondo soltanto un po’ strano, come aprire un ombrello se non piove, il terzo non vedevo l’ora di varcare la porta e trovarla pronta per me. Aveva ragione mio padre, ciò che Dio unisce non può essere separato e, con un po’ di pratica, i nostri corpi cominciarono a conoscersi.

Ci imbarazzava vedere le nudità dei nostri corpi e spegnevamo tutte le candele, ma erano nostre le mani che ci toccavano facendoci perdere il respiro e la ragione. Quando mi confessavo, ero pronto a dire tutto ciò che mi faceva tremare quando stavo con lei e altrettanto pronto a chiedere scusa perché lo stavo facendo con mia cugina e non con una a caso. Eppure, Dio ascoltò le nostre preghiere unite a quelle che Manuela faceva incessantemente a San Tiago, Giacomo – protettore di quelli che se ne vanno e al quale lei era devotissima.

Rimase incinta. Facemmo finta di essere contenti di dover smettere di accoppiarci come conigli per qualche tempo. Il suo corpo da esile bambina si gonfiò sul ventre, tanto che lei ci metteva sopra due mani come se stesse portando un’anfora piena d’acqua. Se lo teneva stretto, lo custodiva, e sapevo che i nostri figli me l’avrebbero sempre portata via un po’, ma non sapevo che la sorte avrebbe voluto che fossi io a credere che mio figlio fosse l’unica ragione per cui io mi butterei tra le fiamme come un condannato per blasfemia. Non potendo più consumare con la grazia dall’Altissimo, mi recavo nelle sue stanze soltanto per mettere la mano sulla sua pancia e sentire scalciare la creatura. Facevo allontanare tutta la servitù perché solo io, da re, potevo proteggere la dinastia. Diventando padre, sono anche diventato uomo.

Non piansi al suo funerale. Mi recriminavano anche questo. Filippo è un re senza emozioni, sa solo fare la guerra.In una delle nostre notti insieme decisi di rimanere a dormire con lei. Era come tenere una statua crisoelefantina pulsante di vita sotto le tue dita. Era come sentire che era mia e non ho più voluto che su una donna gravasse quella mia idea di possesso, poiché apparteniamo solo a Dio e non ne siamo che un suo disegno. Cominciò a cantarmi una canzone in portoghese, sulle caravelle di Cristoforo Colombo. La canzone sciorinava che la Nina, la Pinta e la Santa Maria rappresentano la moglie perfetta: un po’ bambina, un’ po’ lasciva e un po’ santa.

E ancora adesso, nella mia non-ricerca di una moglie, è quello che mi spinge a crederne una più valida di un’altra. Non piansi al suo funerale, è vero – ma mi si creò come una caria nel cuore, un piccolo buco destinato a dolere poco per sempre. Eppure penso che, da viva, solo Manuela avrebbe potuto continuare il filo elastico della linea ereditaria dei Trastamara, solo che io non l’ho tenuta stretta abbastanza e quell’elastico si è trasformato in una frusta contro di lei. In qualche modo, l’ho uccisa io mettendogli in seno il seme di un figlio con gli occhi uno diverso dall’altro: uno verde come gli smeraldi che avrei dovuto regalarle solo per essere mia moglie, l’altro azzurro come le colpe che mi girano dietro le orbite quando penso con gli occhi fissi verso l’Eterno. Un giorno la rivedrò e non penso mi perdonerà. E, se a ogni peccato corrisponde un castigo, questo sarà il mio.

Miss Raincoat
© 2024 Patrizia Rondinelli – Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Le ricostruzioni dinastiche e storiche dei Trastamara &Co., per quanto romanzate, sono pressoché veritiere.

Valtella in Love

Valtellina, terra di confine. Il mio valico preferito è il Giogo di Santa Maria (in romancio Pass da Umbrail), posto a 2500 metri d’altitudine tra Grigioni (sopra la località di Santa Maria in Val Monastero) e la Val Fraele, in Alta Valtellina, verso Bormio. Oggi è un passo quasi prettamente turistico, chiuso d’inverno, usato come un accesso secondario allo Stelvio, ma che rimane altamente panoramico. Un tempo, serviva come crocevia commerciale. Le bestie da tiro, appunto con i gioghi, affrontavano la durissima strada per trasportare sale, grano e vino.

Bianca Maria Sforza e Massimiliano d’Asburgo

Bianca Maria, ventenne, era figlia di Galeazzo, ucciso da avversari politici siccome, probabilmente, tanto simpatico non era. Nemmeno suo fratello, Ludovico detto il Moro, era da meno. Di fatto, dimenticandosi di avere particolari scrupoli, promise in sposa la nipote orfana a vari rampolli presenti sulla Penisola finché non ebbe la botta di fortuna per saldare l’alleanza con gli Asburgo d’Austria.

Fu un matrimonio prestigioso quanto infelice.

Massimiliano, al momento del fidanzamento, aveva trentaquattro anni ed era vedovo da una decina di anni. La prima moglie, da lui amatissima e mai dimenticata, era morta accidentalmente cadendo da cavallo durante una parata di caccia. Bianca Maria era molto più bella, bionda con la pelle diafana, però non giudiziosa come Maria di Borgogna, la buon’anima. Eppure, si decise a sposarla perché gli metteva in mano l’Italia Settentrionale, dominio degli Sforza di Milano.

Bianca Maria sposò Massimiliano a Milano, per procura, nel luglio 1493. Fu l’evento più fastoso della Lombardia sforzesca. Durante i primi giorni del rigidissimo dicembre dello stesso anno, da Milano partì il corteo nuziale che avrebbe accompagnato la moglie a casa del marito, ossia ad Innsbruck in Austria, passando da Como, Bellagio, Morbegno e Bormio. Il motivo per il quale si affrontò il viaggio al freddo è perché zio Ludovico si era preso un po’ di tempo in più per racimolare la dote, trasportata da ben ventiquattro mule. In realtà, questa non fu che una prima piccola rata dell’esosa somma del “prezzo dello sposo”. Il resto, fu chiesto ai sudditi tramite tasse. Chiaramente, anche la Valtellina faceva parte di questi contribuenti e, inoltre, fu proprio la Valtellina a dover pagare strade, insegne, ponti e tutto il necessario per una buona accoglienza del corteo. Gli sposi si incontrarono la prima volta sulla salita verso il Giogo di Santa Maria, dove Bianca Maria fu accompagnata da una folla di bormini festanti verso il suo destino.

Probabilmente, tra il seguito del corteo c’era anche Leonardo Da Vinci, al servizio del Moro, che descrisse i Bagni di Bormio con le terme antichissime, gli ermellini (e il loro selvaticume) e le montagne valtellinesi (terribili e sempre piene di neve). Il nostro paesaggio, probabilmente, lo lasciò attonito e quasi impaurito.

Bianca Maria visse lontana da casa in terra straniera e all’ombra della prima moglie. Massimiliano la escluse completamente dalla vita politica perché non la considerava all’altezza. Soffriva e, pian piano, il disagio si trasformò in malattia mentale. Preferì spostarsi qua e là per i castelli tirolesi piuttosto che stabilirsi a Innsbruck al fianco del marito, anche se era sempre sorvegliata da amici fidati di suo zio Ludovico. La sua insofferenza la portò a soffrire di anoressia nervosa. Infatti, non riuscì a mettere al mondo figli, sebbene adottò quelli di suo zio quando venne incarcerato dai francesi. Morì praticamente consumata il giorno di San Silvestro del 1510, aveva 38 anni.

*Machine Gun Kelly*

I don’t do fake love / But I’ll take some from you tonight/ I know I’ve got to / But I might just miss the flight/ I can’t stay forever / Let’s play pretend / And treat this night like it’ll happen again / You’ll be my bloody Valentine tonight”

Miss Raincoat

Valtella in Love

Don Antonio Malacrida

Oggi vi spiegherò perché il personaggio più figo della saga dei Malacrida di Morbegno è il don Antonio. Quindi l’amore è tra me e lui 😀

Partiamo dalla sua nascita. Lui era figlio di Ascanio I (1680 – 1757) e Annamaria Peregalli. Ascanio è l’uomo che inizia lo scheletro dell’edificio del Palazzo ma, per via della numerosa prole, dovette “trà giù la cunta” – come si dice tra le nostre valli – ossia, abbandonare l’opera – che sappiamo fu portata egregiamente a termine dallo sforzo economico del figlio Giampietro, che la volle al passo con la moda settecentesca. Ascanio era sicuramente affascinante dentro (come l’Eroe Coronato nel Salone degli Stucchi) perché era una sorta di criminologo; tuttavia, il suo aspetto fisico lo ritraeva cicciottello e con il naso adunco. Fu sua moglie, bionda con gli occhi azzurri, a portare in dote la bellezza. La poveretta mise al mondo ben ventiquattro figli e morì nel 1731 mettendo al mondo Antonio, il più piccolo e il più bello. Da vedovo, Ascanio, che già era uomo prudente, diventò ansioso per la vita dei figli – dei quali solo pochi giunsero all’età adulta tutti generosamente miopi.

Il nostro bell’Antonio nasce il 27 maggio 1731 sotto il segno dei Gemelli (il fratello Giampietro era nato nel 1714!!!). Avrebbe tanto desiderato una carriera militare e non voleva finire come la sorella Francesca, diventata suora di clausura sotto il nome di Marianna Giuseppa due anni prima che lui nascesse. Eppure, suo padre, che con lui cresciuto senza mamma era ancora più apprensivo, aveva già pensato a una carriera ecclesiastica, che sarebbe sicuramente anche costata di meno per la famiglia. Così, dopo gli studi a Modena dove si laurea in Teologia e si appassiona anche al canto gregoriano, celebra la sua prima messa all’età di 25 anni, probabilmente presso la Gisèta di Morbegno (altro mio pezzo di cuore) – motivo per il quale, poi, il beneficio Mezzera di quella cappella passerà nelle mani dei Malacrida.

A questo punto, don Antonio pensa di poter levare le tende. Suo padre, però, impiega gli ultimi due anni della sua vita a convincerlo a restare a Morbegno. Fonda un canonicato soltanto per lui, in modo che abbia una buona rendita vitalizia, lo inserisce nei partecipanti attivi della fabbrica del San Giovanni di Morbegno (che terminerà nel 1780) e lo fa inserire come confessore delle monache di clausura al Convento della Presentazione (per la gioia delle suore, ohibò!).

Dovete immaginarlo così l’ Antonio: sano, alto, muscoloso, abile nelle conversazioni, un ottimo fantino e un esperto di botanica (il suo fiore preferito era il garofano). Non ci sembra strano capire perché, molto spesso, era chiamato a celebrare le messe solenni. Insomma, troppo bello per essere incline alla vita clericale.

Nel 1794 ottiene il giubilato per mantenere i privilegi concessi a Morbegno (ossia il denaro) pur risiedendo a Milano, in contrada Santa Prassede. Nella city vivrà più come un gentiluomo che come un prete e non si farà mancare nemmeno i festeggiamenti per l’incoronazione di Napoleone.

Torna a Morbegno solo nel 1805, prossimo alla morte, per farsi assistere dal nipote Ascanio II, che nominerà suo unico erede. Muore nel 1808 e i suoi funerali saranno i più sontuosi del secolo.

“Le Tre Grazie” di C. Ligari – 1761
Saloncello della Musica // Palazzo Malacrida (Morbegno)

Da “Uccelli di Rovo”

“L’uccello con la spina nel petto segue una legge immutabile; è spinto da non sa cosa a trafiggersi, e muore cantando. Nell’attimo stesso in cui la spina lo penetra, non ha consapevolezza della morte imminente; si limita a cantare e a cantare, finché non rimane più vita per emettere una sola altra nota. Ma noi, quando affondiamo le spine nel nostro petto, sappiamo. E lo facciamo ugualmente. Lo facciamo ugualmente”

Miss Raincoat

Valtella in Love

La Bona Lombarda

Bona Lombardi, è una donna davvero esistita, ma è la sua storia d’amore ad averla resa leggenda. Era una pastorella originaria di loc. Campione di Sacco (odierno comune di Cosio Valtellino) che sposò Pietro Brunoro (nobile della famiglia dei Sanvitale di Fontanellato in provincia di Parma), amico di Francesco Sforza e suo capitano di ventura. La storia la dipinge come una fedele compagna che combatteva al fianco del marito aiutandolo anche nelle decisioni strategiche.

Anche il papà di Bona, Gabrio, era un soldato mercenario ed aveva conosciuto sua madre, Pellegrina, una figlia di un mercante in Germania. I due fuggirono per amore a Sacco, dove lo zio paterno faceva il prete. Bona rimase orfana da bambina e fu appunto lo zio prete ad allevarla.

Quando Brunoro la vede per la prima volta, Bona ha quindici anni. Era il 1432 e Venezia e Milano si stavano contendendo la Valtellina (il 19 novembre di quell’anno, dopo la Battaglia di Delebio, i veneziani sono costretti ad arretrare). Brunoro, per conto del Ducato di Milano, si trasferisce a Morbegno per governare e presidiare la zona attorno alla Val Gerola.

Un giorno, mentre si dilettava con il suo hobby della caccia, si trovava in località San Carlo e, tra gli alberi, vede Bona che pascola il gregge insieme alle sue amiche. Da quel giorno tornò lì tutti i pomeriggi e, presto, la loro amicizia si trasformò in amore. Bona lasciò il paesello per seguire Brunoro nella difficile vita di battaglia.

Bona, spesso, si travestiva anche da uomo per non abbandonare mai il suo compagno (non erano sposati). Lo stipendio di suo marito, del resto, dipendeva dall’esisto delle battaglie e dal saccheggio delle città offese. Il soldato di ventura non prometteva fedeltà a nessuno, combatteva solo per il denaro e per il migliore offerente. Brunoro, di fatto, tradì il suo amico milanese Francesco Sforza per andare a combattere con i napoletani D’Aragona.

Francesco fu amareggiato da questo cambio di bandiera e si vendicò con un inganno: fece credere ad Alfonso d’Aragona che, in realtà, Brunoro faceva il doppio gioco e lo voleva uccidere. Brunoro finì in carcere in Spagna per dieci anni. Se Bona non avesse girato in lungo e in largo le corti di tutta Europa, Brunoro sarebbe marcito in catene.

Dopo la liberazione, Brunoro sposò Bona, in modo che diventasse sua moglie legittima (avevano anche già due figli e una figlia). Poi, ritornarono alla riscossa dalla parte di Venezia. Brunoro venne catturato e, allora, Bona scense in campo a guidare la fanteria al suo posto. Bona partecipò anche a un torneo organizzato dal Doge a Venezia, in cui i soldati dovevano espugnare un finto castello di legno e solo lei riuscì nell’impresa.

I due morirono in Grecia, sempre al servizio della Serenissima. Brunoro perì in battaglia sull’Isola di Eubea – Bona si spense due anni dopo, nel 1468 a Modone, nel Peloponneso.

Si vocifera che a San Carlo, appunto all’imbocco della Val Gerola, durante le sere d’estate si aggiri il Ciarìn de San Carlu, appunto una fiammella che non è altro che l’anima di Bona che viene a visitare i luoghi che hanno visto nascere il suo amore.

Miss Raincoat

Giovanni Guler von Weineck (storico grigione)

lo seguiva sempre a cavallo e a piedi, per monti e per valli, per mare e per terra, con ammirevole docilità e fedeltà, né mai l’abbandonò

un video di G. Ruffoni che ci porta da Morbegno alla località oggi chiamata Bona Lombarda

Andrea Lanzani a Morbegno

La committenza di don Giambattista Castelli di Sannazzaro

Per quanto riguarda l’Arte Religiosa, l’arciprete di Morbegno fu un mecenate equiparabile solo a Giampietro Malacrida e, non a caso, la Collegiata di Morbegno, da lui fortemente voluta, è considerata una pinacoteca del Settecento Valtellinese.

Proveniente da una delle più antiche e nobili famiglie morbegnesi (il Palazzo Castelli di Sannazzaro è sede del Municipio), prima di dedicarsi alla carriera ecclesiastica aveva conseguito una laurea in utroque iure (ossia in Legge) e viaggiato molto, specie in Austria. A Milano, era un canonico molto stimato, tant’è che aveva intrecciato numerose relazioni sociali sia nel mondo della cultura, sia nel mondo della politica. Rientra a Morbegno, la città natale, per rivestire la carica di arciprete e, appunto, sarà lui a dare impulso alla fabbrica del nuovo San Giovanni.

Vari dipinti che rivestono la chiesa provengono, infatti, dalla sua collezione privata; come per tanti nobili del suo tempo, amava comprarsi opere d’arte. Conosceva personalmente tutta la famiglia Ligari e il ciclo “maledetto” (dal furto del 1995) delle tele ovali “delle Sibille e dei Profeti” fu un suo capriccio che commissionò a Pietro. E fu lo stesso Castelli di Sannazzaro a chiedere allo stesso Pietro di accontentarsi di metà del compenso per la decorazione del presbiterio, in modo da lasciare una gloriosa opera di beneficenza sotto gli occhi di Dio. Ben diverso il temperamento del figlio Cesare, il quale lascerà la committenza al Palazzo Malacrida a metà perché non voleva essere pagato come un imbianchino.

Giambattista Castelli di Sannazzaro muore a Morbegno nel 1696. Il cantiere del San Giovanni, iniziato nel 1680, si protrarrà fino al 1780.

Andrea Lanzani (Milano, 1641 -1713)

Questa personalità artistica si fa portavoce della transizione dell’arte milanese dal Manierismo (sulla lezione di Leonardo) al Barocco. Ne deriva un’arte monumentale che, al contempo, provoca un’intensa partecipazione emotiva ed empatica.

Il Lanzani proveniva dall’Accademia Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo (cugino di San Carlo) per mettere la Cultura al servizio della Gloria di Dio. In parole povere, era la fucina dell’Arte della Controriforma che utilizzava l’immagine artistica come propaganda in antitesi alla Riforma: censurare il peccato e spettacolarizzare la santità per veicolare il messaggio che “se ti penti, sei ancora in tempo…”.

Don Castelli di Sannazzaro aveva in collezione vari pezzi dell’Accademia e, probabilmente, conosceva bene anche il Borromeo. Per la Cappella di San Giuseppe presso il San Giovanni, nonché la cappella di famiglia, sceglie e dona una tela del suo pittore preferito, Andrea Lanzani.

Nel 1674, il Lanzani si trasferirà da Milano a Roma dove entrerà in contatto con Carlo Maratta, un maestro che, a sua volta, aveva conciliato il Manierismo con il Barocco eludendo gli eccessi retorici: un’arte che va subito al dunque, severa e magniloquente. Il Lanzani porta questa innovazione a Milano. Si può dire che fu il modello per l’arte di due pittori valtellinesi del Primo Settecento, Pietro Ligari e Giacomo Parravicini detto il Gianolo.

“La Morte di San Giuseppe”

La tela che il Castelli di Sannazzaro regala alla cappella di famiglia, la Cappella di San Giuseppe, è firmata da Andrea Lanzani e datata 1679 sul manico del martello ai piedi del letto. In realtà, non la vide mai al suo posto perché la cappella sarà ultimata nel 1715. Lo stesso, lascerà un’altra opera del Lanzani alla Chiesa di Campovico, frazione retica di Morbegno (“Immacolata” del 1684).

Dai Vangeli Apocrifi, apprendiamo che San Giuseppe muore a 111 anni, sereno e circondato dall’amore. Era stato quell’uomo che, dal basso della sua umanità, aveva accettato il disegno divino e, perciò, gli fu concessa la grazia di una morte lieve.

Il Lanzani dipinge un Gesù che regge tra le sue mani la testa del padre putativo (“che si è comportato come tale”) e guarda verso l’alto, verso il Padre e glielo affida capovolgendo il ruolo genitoriale; gli Angelo che vanno incontro all’anima di San Giuseppe; Maria (la moglie) e Maria (la sorella) al capezzale. Il punto di fuga alto ci permette di cogliere bene tutta la scena, particolari compresi. Sparsi per terra ci sono i vari attrezzi dell’attività di falegname di Giuseppe.

L’opera esprime tensione e intensità nei volti che, con il loro dolore trattenuto, coinvolgono nel lutto lo spettatore. La composizione, comunque, sulla lezione del Maratta, non perde grazia poiché pulita e geometrica. Di fatto, anche con i colori luminosi già quasi proiettati nel Settecento, la scena è leggera e intima. La falcata di luce diagonale, molto meno violenta dello stile caravaggesco, illumina l’episodio di sacralità.

Anche a livello artistico c’è un transito: questa tela è antesignana di una Rivoluzione Artistica. La gioventù artistica lombarda era stufa della formalità di un’arte castigata e bigia; voleva il colore, la luce e l’aria. I motivi ricorrenti del Settecento italiano saranno, appunto, il colore vibrante, il volo e la prospettiva squarciata verso cieli infiniti.

Quelle di Morbegno, per il Lanzani, sono esempi della sua artistica giovanile. Pochi anni dopo si trasferirà a Vienna, da dove la sua carriera decollerà a livello europeo.

*il reliquiario in cera contiene le ossa
del Beato Andrea Grego da Peschiera

Miss Raincoat

Cronache dal Bancone

Come sono passata dallo Spritz al Negroni

Primo di giugno. Ergo, si può tornare a varcare la porta dei bar e dei ristoranti. Ma non si può dire che quest’anno la giacca di pelle non sia servita a nulla.

Comunque, veniamo al dunque. Ebbene sì, dopo l’amore giovanile per il Mojito, la lunga storia con lo Spritz è arrivato quello giusto. Il Negroni.

Motivo? Bah, improvvisamente lo Spritz mi è sembrato un po’ stucchevole….

Un po’ di storia

L’aperitivo è un rito inventato in Italia, precisamente a Torino, dove, a fine Settecento, si stimolava l’appetito prima di cena con un drink e degli stuzzichini. Quindi, è una parola intraducibile in altre lingue. Si beveva il vermouth, poi commercializzato e battezzato da Martini. Oggi si beve un po’ di tutto in questa fase oraria, lager e ipa tra le birre, vini spumanti o secchi di vario colore, cocktail più o meno amari o aciduli. E non permettetevi nemmeno di dire “apericena” (che è l’equivalente enogastronomico dello “scopamico”, ma come diavolo parlate???) . Mia nonna ripeteva sempre “se non mangi muori”, quindi…

Lo Spritz nasce in quel clima un po’ da spogliatoio delle truppe austriache di stanza nel Lombardo-Veneto che, non abituate all’alta gradazione dei vini locali (tipo il Friulano già Tokaij), tendevano a fare una cosa che in tedesco si dice “spritzen”, ossia allungarlo con l’acqua frizzante. L’invenzione del cocktail, però, si colloca dopo il 1919, anno di nascita dell’Aperol a Padova. Lo Spritz, aperitivo arancione per eccellenza, ha pochi ingredienti: prosecco, selz, Aperol e mezza fetta di arancia. Il suo bicchiere d’origine era il tumbler basso (detto old fashioned), ma dal 2015 fa più fico usare lo stelo. Dato che Aperol viene commercializzato da Campari (che invece parla milanese), per chi lo preferisce rosso si fa uno strappo alla regola.

La differenza tra Aperol e Campari? In realtà, sono tutti e due la parte amara (bitter) del cocktail. La ricette di entrambi sono segretissime come quella della Coca Cola e della Bresaola. Quella dell’Aperol prevede l’infusione in alcool di arancia, rabarbaro e altre erbe e radici (11% VOL). Il Campari, invece, prevede sempre l’infusione in alcool di chinotto, cascarilla (una pianta tropicale pure antidiarrioca), erbe amaricanti varie + cocciniglia come colorante (25% VOL). Quindi, la scelta rimane sostanzialmente sulla cromia o sulla geografia, se non fosse che il Campari è un pelino più amaro e sicuramente più forte.

Ed ecco che, passando per Milano e per il Campari, arriviamo al Negroni. Proprio a Milano, nel bar Gaspare Campari, era stato inventato l’Americano, un cocktail a base di Campari, vermouth rosso e seltz – appunto amato dai turisti statunitensi e da James Bond. Nel 1920, il conte Camillo Negroni, chiese al suo barista di fiducia di Firenze di sostituire il seltz con il gin, in memoria di un suo viaggio sesso-droga-rock’n’roll a Londra. Nasce così il mio nuovo cocktail preferito, un mix di gin, Campari e vermouth rosso con mezza fetta di arancia. Si beve rigorosamente on the rocks (con giù il ghiaccio), in un tumbler basso e senza cannuccia (poi qualcuno mi spiegherà a cosa servono due cannucce nei cocktails…). Esiste anche il Negroni Sbagliato, che sostituisce il gin con lo spumante brut.

La conclusione

Mi sono buttata sull’alcool? Ma no. C’è da dire che il vermouth e il gin sono due elementi affascinanti da capire.

Il gin si ottiene da una fermentazione di cereali o patate per distillazione, alla quale viene aggiunta in macerazione una miscela di erbe o radici o spezie, tra le quali il ginepro.

Il vermouth, vino aromatizzato nato a Torino, prende il nome dal lemma tedesco con il quale si indica l’artemisia (anche se il vermouth può essere anche aromatizzato con l’assenzio). Oltre a questo aroma, che deve essere presente per legge, si può avere il sentore di, per esempio, camomilla, garofano, sambuco, zafferano, anice, vaniglia, melograno, etc…

Per quanto riguarda il gin ne ho scovato uno molto vicino alla mia valle, che è il Gin Rivo prodotto con erbe e fiori dei prati sul Lago di Como da Magi Spirits a Cermenate (CO). Il suo sapore è molto balsamico, sfuma in un finale lungo di melissa, timo e frutti di sottobosco

Per quanto riguarda il vermouth, al di là del tradizionale Punt e Mes reso celebre da Giovanni Agnelli, punterei su un Bérto Rosso da Travail. La distilleria è la Quaglia di Asti, sulle colline dei grandi vini ottenuti dalle uve moscato. Il colore rosso carico non tradisce le aspettative: sa di agrumi, di spezie e il suo sapore è molto persistente.

@ Liberty – Sondrio

Miss Raincoat

(!) Bevi responsabile. Se guidi non bere. Mangia, prega, ama. Troppo fa male anche il pancotto. E tutte le cose che ti direbbe anche Mammà.

Milano – Museo della Scienza e della Tecnica

A Milano c’eravamo già stati con Mr.Raincoat.

Ci siamo stati a fare un giro in centro (per vedere l’Albero di Natale by Swarowski e altri strani gadgets – vedi gioco da veri machi ) o un giro romantico ma sicuro (grazie alla Control)

Quest’anno vorrei riproporvela in una veste più culturale. L’avrò già detto un miliardo di volte che il mio museo meneghino preferito è quello di Brera, anche se, nella misura di dover portare qualcuno a  visitare un museo della mia regione, sceglierei sicuramente il Museo della Scienza e Della Tecnica di Milano.

Noi ci siamo andati in treno arrivando in Stazione Centrale alle 9.45. Da lì abbiamo raggiunto la fermata Duomo con la metro (M3 – linea gialla). Si può anche subito raggiungere il Museo (dotato di parcheggio a pagamento) ma volevamo farci un selfie con guglie e piccioni violenti.

Da Piazza Duomo a Sant’Ambrogio ci sono 1,5 km (circa 20 minuti a piedi) e ci si può fermare a Piazza Affari per un altro selfie con gesto annesso. Dato si è nei paraggi, consiglio di visitare la Basilica di Sant’Ambrogio (quando ci entri senti di essere in un luogo antico,tranquillo, in un’altra dimensione…provare per credere!!!). Il Museo è a 5 minuti (400 mt.), perciò la nostra pausa pranzo è stata inserita dopo il romanico della basilica (la toilette e l’area snack la trovate nel Museo, comunque – io ho mangiato una cosetta che mi aveva ingolosito nel tragitto approfittando dell’area “relax” nel museo, zona contrassegnata con M0).

Quindi, dopo essermi incipriata il naso ho visitato il Museo. Il costo del biglietto è 10 €; per chi ha meno di 26 anni o più di 65 anni 7,50 € + rientra nei musei del bonus cultura.

La struttura è un edificio monumentale a due piani. Gli highlights sono il forno stassano per laproduzione di acciaio, la dinamo di Edison, il continuus properzi per laminare il piombo e tutta la sezione sull’Alfa Romeo al secondo piano.

All’esterno dell’edificio monumentale troviamo altri padiglioni dedicati ai treni, con varie locomotive e all’ingegneria aeronavale (quest’ultimacon due piani separati per navi e velivoli). Nelle Cavallerizze ci sono spesso mostre temporanee.

Uscendo dal Museo, c’è subito la fermata della metro Olona che ci riporta in Stazione Centrale (M2 – linea verde)

** in questo post abbiamo anche parlato del biglietto Io Viaggio in Lombardia.

Dato che abbiamo parlato di selfies, vogliamo ricordare al gentile pubblico turistico di non abusare del bastone!!! Più baci meno selfies!!!

❤ Miss Raincoat

Ti Amo/Ma Quanto Mi Costi?

Danimarca: patria di Sirene e Musei Statali gratuiti (sempre, non solo la prima domenica del mese). Ma perché in Italia non si può? Perché nella Terra in cui è stata inventata l’Arte non è un diritto sacrosanto passare del tempo nei Musei? La risposta è quasi semplice: il nostro Partimonio è ampio, prezioso e l’introito per manutenzione/mantenimento/tasse viene in buona parte dal costo (spesso altino) dei biglietti. E quanto sono visitabili, raggiungibili ed accessibili sul serio i 10 Musei Italiani più gettonati nel 2017?

[l’ordine è in base alle entrate; il costo indicato è del biglietto intero – Per me, vince la Pinacoteca di Brera, sia quel che sia!!!]

  1. Palazzo Ducale a Venezia    il percorso nelle stanze del Palazzo del Doge, comprese le prigioni, costa 20€. L’edificio si trova in posizione centralissima, in Piazza San Marco.
  2. Galleria degli Uffizi a Firenze  la collezione di questo museo è molto ampia e spazia tra tutta la Storia dell’Arte dell’Occidente. Il costo di 20€ scende a 12€ da novembre a febbraio. La struttura è ben collegata alla Stazione “Santa Maria Novella” e vi dista 20 minuti a piedi.
  3. Museo Nazionale del Bargello a Firenze  la gipsoteca rinascimentale ha un costo di 9€ e può essere raggiunta dalla Stazione “Santa Maria Novella” molto facilmente tramite mezzi pubblici o in 15 minuti di camminata.
  4. Galleria dell’Accademia a Firenze  il museo celebre per il David di Michelangelo costa 8€ e può essere raggiunto dalla Stazione molto facilmente tramite mezzi pubblici o in 10 minuti di camminata.
  5. Museo Egizio a Torino la più grande raccolta di materiale sulla Cultura Egizia, dopo Il Cairo, costa 15€. Dalla Stazione “Porta Nuova” dista 10 minuti a piedi.
  6. Galleria Borghese a Roma la raccolta della celebre famiglia papale è molto ampia e poco riassumibile; una delle opere più conosciute è la Paolina Borghese di Canova. Il costo di 15€ va sommato al fatto che, dalla Stazione “Termini” la corsa di pullman – che dura 20 minuti – viene effettuata ogni 5 minuti ca.
  7. Acquario a Genova  il museo acquatico più grande e ricco di specie d’Europa costa 26€. Il costo è ammortizzato dalla posizione: la fermata di metro che ci porta alla Stazione Ferroviaria è a pochi passi – lo spostamento in metro dura 15 minuti.
  8. Museo Archeologico Nazionale a Napoli la collezione che illustra l’Epoca Romana costa 12€ ed è molto vicino alla fermata della metro che ci porta alla Stazione Ferroviaria – lo spostamento in metro dura 20 minuti.
  9. Scuderie del Quirinale a Roma  uno tra i palazzi più politici dell’Italia è anche un meraviglioso edificio che ospita varie mostre temporanee. Il costo è di 15€ e la sua posizione è raggiungibile in 20 minuti di pullman dalla Stazione “Termini” o a piedi circa nello stesso tempo.
  10. Pinacoteca di Brera a Milano  la raccolta del capoluogo lombardo include capolavori come Il Bacio di Hayez, Cena in Emmaus di Caravaggio, Lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, la Pala Montefeltro di Piero Della Francesca, il Cristo Morto di Mantegna… Il suo costo è di 10€. Si trova a pochi passi dalla fermata della metro che lo collega alla Stazione Ferroviaria – lo spostamento in metro dura 15 minuti ca.

 

E questa pubblicità della SIP? Ve la ricordate? “Mi ami? Ma quanto mi ami?”

❤ Miss Raincoat

Falling in Love in…

Il mio film preferito con i miei attori preferiti (e con tema natalizio, neanche a farlo apposta), recita che l’Amore non va in Vacanza: tanto vale portarsi in vacanza anche la persona con la quale fai/vorresti fare l’amore, quindi!!!

Ma quando sei  anche una Guida lo sai che, seduta a un tavolo pre-natalizio, ti perverrà nell’aere il suono fatidico di una domanda idiota… 

Alcuni esempi pratici: 1- Ti hanno mai perso i bagagli all’Aeroporto? 2- Quali saranno le località top del 2018 (trovate i trend di Google del 2017 qui) ? 3- Hai mai fatto snorkeling assistendo all’Aurora Boreale? 4- Mi organizzi un viaggio a …, dopo ti pago da bere! – e poi si smaterializzano 5- Quando lavori hai un kit speciale oltre a microfono+bandierina? 6- Ti sei identificata nella nuova pubblicità Golia Active Plus ? — Ecco, a queste, se n’è aggiunta un’altra, quantomeno bizzarra e nemmeno posta da un umano dotato di bisturi…

“Qual è la malattia più frequente per i turisti?”

Va beh, lo sanno tutti che è il cagotto. Ma non mi pareva il caso di dirlo in una situazione conviviale, perciò ho annunciato l’altra vincitrice della top ten: le malattie sessualmente trasmissibili. Perché, si sa, il turista è un umanoide lascivo e sguaiato. Da qui mi cade il gelo attorno al tavolo. E lo sapete perché? Perché quasi a inizio 2018, mentre si parla di global goals e google trends sviolinati, ci sono ancora personcine simpatiche che si oppongono, soprattutto per pigrizia credo, all’uso del preservativo (quanto all’utilizzo, Youtube avrà sicuramente una sfilza di tutorial!!!). Per i Superman che ancora sostengono che stanno scomodi, qualche anno fa, per l’annuale campagna di sensibilizzazione, era stato lanciato uno spot esilarante in cui un’adolescente prendeva in giro questi peracottari infilando metà braccio in un profilattico standard e il dito medio nel serbatoio. Così, giusto per dire, che a tavola potete esagerare con le frottole, ma poi nel letto fate i seri (qualunque sesso, abitudine o tendenza abbiate) !!!

[qui un elenco delle  MTS, a fini didascalici; a fini medici rimando sempre a un umano dotato di Laurea in Medicina ]

Sulla falsa riga, la Control ha lanciato un’edizione limitata, “Falling in Love in…”, dedicata ai viaggi, alle città d’arte europee e, ovviamente, al sesso sicuro.

L’azienda ha selezionato le capitali in cui è più probabile innamorarsi (Roma, Milano, Porto, Lisbona, Madrid e Barcellona) e ha creato un’edizione limitata che ha catturato la mia attenzione. Tra le cose, per questioni di lavoro, ho aderito alla Giornata di Prevenzione dell HIV (1°dicembre) e ho avuto in dono Falling in Love in Milano.

A Milano c’eravamo già stati qui.

All’interno della confezione ci sono 6 preservativi (che per un weekend corto, in linea di massima potrebbero bastare, neh!!!) e una piccola mappa che indica i 5 luoghi più romantici della città – costo di listino ca. 8€. A Milano sono stati nominati vincitori il Ponte delle Sirenette nel Parco del Sempione, il Planetario nei Giardini di Porta Venezia, Villa Invernizzi con fenicotteri annessi, l’hipsterissima Balera dell’Ortica (a Lambrate) per mangiare e ballare il lissssio e Piazza Affari, poco distante da Piazza Duomo, con la statua L.O.V.E. (che però è un dito medio in marmo di Carrara).

Potrebbe essere un bel regalo di Natale: 6 preservativi e un weekend fuori!!!

**Fate l’Amore, non fatevi i Selfie!**

❤ Miss Raincoat

Back to the City: Milano

[Citazione] Milano non piace quasi a nessuno di quelli che ci vivono. Non amano il ritmo che li spinge sempre di corsa. Hanno problemi di stomaco per i panini alla piastra e i piattini di verdura. Non sopportano la puzza di piscio dei sottopassaggi, l’odore del vomito dei tossici, il lastricato di preservativi nelle viuzze, la moquette di cacche di cane. Sognano il verde e trovano solo qualche albero morente e i parchi strapieni di polizia pronta a dirti che non sta bene sedersi sulla poca erba a farti i cavoli tuoi. Sono disorientati dalla mancanza di punti di ritrovo, dalle poche piazze senza panchine, dagli stili architettonici accrocchiati, dalle case a forma di cubo, di ananas, di pigna, di finto rococò e finto gotico. Non capiscono che Milano non è una città, ma un grumo di lava che ha subito tutte le Furie. Che è sterile, come il deserto, e per starci bisogna essere attrezzati. Che non è adatta ai dilettanti. Per questo la amo. (Sandrone Dazieri)

Come arrivare a Milano e non perdersi?

Io viaggio Ovunque in Lombardia è un biglietto cumulativo che permette di usufruire di tutti i trasporti pubblici. Il giornaliero costa 16,00 € , va obliterato alla prima stazione dell’itinerario e vale fino alla mezzanotte. Anche se non può essere acquistato online, non ha scadenza e, quindi,  può essere comprato in tutte le stazioni lombarde sia con anticipo sia in ritardissimo (infatti, si può anche obliterare manualmente scrivendo stazione, data e ora in un apposito spazio prestampato sul biglietto). Se il vostro dubbio è come ovviare il problema dei tornelli automatici della Metro o simili, niente paura, perché basta passare in quelli concepiti per i disabili, ossia quelli con il simbolo della carrozzina. Per non sbagliare treno nelle Stazioni un po’ più grandi di quelle di provincia, invece,  badate sempre di controllare sul tabellone sia il Gate (contrassegnato con lettera) sia il binario (contrassegnato con numero)

Schema Metro Milano – (Stazione centrale – Duomo è la Gialla/Comasina)

Si risparmia davvero con IO VIAGGIO?

Io devo fare una tratta in treno di 1h  e 49min fino in Stazione Centrale e utilizzare la Metro per andare in Centro. A/R in treno mi costerebbe 9,20 € x2 + 2 biglietti urbani ATM 1,50 €  minimo x2 (considerando che 1 biglietto = 1 entrata in metro) – vado a risparmiare 6 euro ca. se utilizzo una sola volta la metro. Bisogna un po’ farsi i calcoli, perciò.

Una passeggiata intorno al Duomo

A Milano c’è davvero molto da fare e da vedere, che un post unico ovviamente non basterebbe. La Stazione Centrale stessa è un monumento. La Pinacoteca di Brera, il Castello Sforzesco, il Teatro della Scala, San Satiro, Sant’Ambrogio, Santa Giustina ad Affori (che ho recentemente scoperto), il Museo della Scienza e della Tecnica …. [potremmo andare avanti delle ore]

Per chi non è mai stato a Milano, per chi ci ritorna dopo secoli, per chi ne sente la nostalgia, per chi pensa che Milan l’è semper Milan, la Piazza Duomo, però, è sempre la meta di pellegrinaggio più simbolica.

Scendendo dalla Metro, ci si trova di fronte alle guglie del simbolo di Milano, il Duomo dedicato a S.Maria Nascente. La caratteristica distintiva dell’edificio, oltre alla sapiente fusione di Gotico e di Romanico Lombardo, è la straordinaria abbondanza di sculture dell’esterno (busti, giganti, mostri e, infine, le guglie di coronamento). La celebre Madonnina segna il punto più alto della chiesa, 4,16 metri.Attraverso l’ascensore contenuto nel contrafforte est del braccio nord del transetto si può accedere alle terrazze del Duomo, dalle quali si gode una straordinaria vista sul fitto ricamo di guglie e sulla città. Ovviamente, essendo un monumento importante, consideriamo che, all’entrata, verremo sottoposti a un controllino d’ordinanza!

Sito Ufficiale

Alla destra del Duomo, troviamo lo store Mondadori, celebre per le presentazioni/firma copia, ma anche il paradiso per i mangialibri + amanti delle cianfrusaglie da cartoleria.

Più Info

A sinistra del Duomo troviamo la Galleria Vittorio Emanuele (** in foto).  Considerata, per l’eleganza e per la presenza di negozi di lusso, il salotto di Milano. Viene considerata anche l’archetipo dell’Architettura del Ferro e delle Gallerie Commerciali ottocentesche.

Storia e Arte

Sempre proseguendo lungo il lato sinistro dell Duomo troviamo le Terrazze Aperol [nel mezzo l’H&M] e la Rinascente.

Le Terrazze Aperol trovano spazio nella sede storica del Caffè Motta, nato nel 1928. Per tre generazioni di milanesi il Caffè Motta ha rappresentato  di ritrovo, per la borghesi, intellettuali, studenti ed artisti . In questo momento è la location più cool per il rito dell’aperitivo con lo Spritz.

Sito Ufficiale

La Rinascente è il primo negozio italiano di abiti già confezionati, sorto a Milano, imitando Parigi, nel 1889.

Sito Ufficiale

A tal proposito, ho visto la borsa di Monet  firmata Louis Vuitton della quale mi sono innamorata (che costa solo 2100 euro)! 

Dove mangiare bene per una cifra non esosa in centro?

(Niente McDo il giorno dopo la palestra! Comunque, troviamo il FastFood davanti al Duomo e alle Palme!)

Replay Si trova in Piazzetta Pattari, parallela a Corso Vittorio Emanuele, tra Piazza Duomo e Piazza San Babila. È un locale carino e tranquillo, che permette stare in relax mentre fuori regna il caos (è molto frequentato ma l’attenzione per i clienti è encomiabile). Il locale ha anche un arredamento che mi è piaciuto molto, specie le lampade con i limoni!!! Si può mangiare sia all’aperto sia all’interno, tempo permettendo. I prezzi sono adeguati al centro di Milano –  sui 20/30 euro una portata, dolce, caffé, bibite varie e coperto (3€). Le specialità sono la carne, la pizza cotta a forno a legna e… il ricco carrello dei dolci. (Grazie a chi ci ha consigliato questo posto da non-giargiana!!!)

 

 

sota a ti se viv la vita, se sta mai coi man in man/canten tucc “lontan de Napoli se moeur”/ma po’ i vegnen chi a Milan

❤ Miss Raincoat