“Ti Bramo” di Mariska Karto

Io ti amo non l’ho mai detto a nessuno. Lo diceva anche Sibilla Aleramo che, se proprio, lo si può dire da giovani a un gattino. Mi pare un’espressione troppo preimpostata per esprimere quella cosa lì, l’intuito, la dedizione… Credo che ci fai più bella figura a dirlo che a farlo, del resto. Io lo dimostro pure male, nella fattispecie – sono positiva asintomatica.

Questo per introdurre il tema di quest’opera. Bramare è un sentimento più infuocato dell’amore: è desiderio, è istinto. Ma non ha a che fare solo con il corpo. Ha più a che fare con i cinque sensi. Nel Medioevo, bramon indicava l’urlo di chi desidera ardentemente. Br-amare è Amare + Br-ividi sulla schiena.

Mariska Karto è un’artista nata nel 1971 nel Suriname, da genitori indonesiani e africani – anche se è cresciuta in Olanda. La sua tecnica è quella della fotografia ritoccata tramite la pittura, con un leggero sentimento iperrealista.

Rappresenta un mondo antico, impolverato, però vivo da morire. L’ambientazione cronologica è quella barocca del Seicento, un secolo denso di contraddizioni e di peccato nascosto sotto i pesanti tappeti della Santa Morale. In particolare, la Karto sceglie di narrare le sue storie dentro a dei boudoirs, i salottini dove le signore si riposavano, si imbellettavano o conversavano. Bouder, in francese, significa tenere il broncio.

Nella sua artistica troviamo molte citazioni ai maestri del passato: le Veneri di Tiziano, l’irruenza dell’oscurità di Caravaggio, le Odalische di Ingres e la raffinatezza di Klimt.

Per l’artista è la pelle, l’incarnato di porcellana, ad essere protagonista. Secondo lei nella pelle c’è qualcosa di misterioso che racconta una storia. Del resto, è di quello che ci innamoriamo, di emozioni a pelle.

L’opera si fa narratrice dei segreti a nudo di brave ragazze, dee senza aura, pure – bianchissime e rossissime – ma macchiate dalle loro emozioni scure. Malinconia, morte, amore, sacrificio.

Quando è tutto troppo, quando le emozioni straripano dove va a finire la nostra anima? Qui, nel fumoso mondo di Mariska Karto. Ti (br)amo ma non te lo dico.

When everything is made to be broken / I just want you to know who I am

Goo Goo Dolls “Iris”

Miss Raincoat

Imbersago

Una Gita Fuori Porta

Dalla finestra davanti alla mia scrivania si vede l’Adamello con le cime innevate, sembrano così vicine ma si trovano già in un’altra provincia rispetto a me… Come l’estate, no? Fino l’altro ieri ci stavamo ancora lamentando del caldo e delle cimici cinesi e adesso risparmiamo le parole allacciando il piumino fin sotto al mento. A questo proposito mi è tornata in mente quella torrida mattina della scorsa alta stagione estiva, quando ho varcato i confini della Valtellina per le volte della Brianza lecchese. 

Imbersago è un paese non tanto grande in provincia di Lecco, sulle colline delle prealpi e bagnato dal fiume Adda (fa, appunto, parte del Parco Adda Nord)

Santuario della Madonna del Bosco

Il primo nucleo del luogo sacro (situato a 1 km dal centro comunale, strada in salita – dotato di numerosi parcheggi gratuiti) nasce nel 1632 e viene detto scurolo, ossia è una piccola cappella entro la quale, attraverso delle statuine, sono narrati i miracoli alla base del culto di questo tempietto.

Erano anni difficili, di guerra, di carestia e di peste, quando nei boschi sopra il borgo di Imbersago cominciarono a verificarsi dei fatti strani, alcuni paesani li chiamarono miracoli. Precisamente alla Sorgente del Lupo, nel 1616, in prossimità di tre grandi castagni, a tre pastorelli apparve la figura di una grande signora, incorniciata da una luce e da una musica celestiale; questo luogo, perciò, diventò presto famoso come Madonna del Riccio, poiché, per quanto fosse il 9 maggio, alla fine della visione uno dei bambini, Pietro, trovò un riccio pieno di castagne mature. Qualche anno dopo, in questa zona infestata dalla ferocia dei branchi, un lupo affamato riesce ad agguantare il neonato figlio di una famiglia di contadini. Solo le preghiere della madre alla Madonna del Riccio riuscirono a salvare il piccolo.

La chiesa vera e propria, invece, fu costruita durante la metà del Seicento sul progetto di Carlo Buzzi, che già era famoso e, quindi, richiedeva un compenso abbastanza notevole. Nel 1677 si arrivò a vedere le forme che anche oggi possiamo ammirare: una pianta ottagonale completamente arricchita da stucchi preziosi. Lo svettante campanile con la statua di Maria in bronzo sulla sommità, invece, è del 1888.

L’elemento di spicco del complesso è la scalinata che sale al santuario, alla quale sono stati concessi 300 giorni d’indulgenza, per ogni gradino percorso recitando il Rosario. In cima alla scalinata, nel 1962, è stata posta l’enorme statua bronzea di Papa Roncalli (Giovanni XXIII) – la quale misura 4 metri e pesa 30 quintali. Il pontefice era solito venire qui in pellegrinaggio, in quanto il suo paese natale, Sotto il Monte (BG), dista da Imbersago meno di 15 km. 

Traghetto di Leonardo – Ecomuseo Adda

Scendendo verso il centro comunale fino al fiume Adda (850 metri dal Municipio – dotato di parcheggi; traghettare costa poco meno di 1 € * 5 auto e 100 persone) , raggiungiamo il porticciolo con questa antica e originale imbarcazione attribuita a Leonardo da Vinci, in quanto studiò a lungo questo progetto durante il suo periodo milanese – questo è l’unico esemplare al mondo funzionante e collega Imbersago (LC) a Villa d’Adda (BG).  Anche il già citato papa Roncalli era solito utilizzare questo traghetto, tant’è che è ricordato su una lapide. Chi non volesse effettuare la traversata, comunque, può continuare la passeggiata sulla sponda lecchese, dialogando (ahahah) con la fauna locale: cigni, germani reali, folaghe e anche libellule aesna questi sono quelli che ho riconosciuto io!!!

Ora tenterò di spiegare il funzionamento dell’ingegneria leonardesca. Vi premetto che ho osservato il traghetto per 30 minuti con la brochure in mano per capirlo!!! Allora… Il traghetto è attaccato a un cavo d’acciaio che va da una sponda all’altra. Siccome il mezzo trae forza dalla corrente dell’acqua, non ha bisogno di un motore. Un solo manovratore agisce su un timone che serve per orientare l’imbarcazione e utilizza un bastone di ferro per dare la spinta iniziale al cavo che unisce le sponde. Quando il traghetto raggiunge la posizione obliqua, è solo la corrente che permette il suo movimento. Ditemi che avete capito! *A scanso di equivoci, vi metto anche il video*

Che strana giornata è stata quella!!! Il giorno dopo mi sarebbe scoppiato in mano l’universo (in senso positivo,eh) e io nemmeno lo sapevo… Per questo è diventata memorabile 🙂

❤ Miss Raincoat

Gisèta di Via Margna 1×02

[Come molti di voi già sanno, ho dato al mondo la Ricerca sulla Gisèta di Via Margna. Davvero, non pensavo che così tante persone, non solo morbegnesi, fossero tanto affezionate a un posticino così poco conosciuto e così tanto piccolo. Grazie mille ancora per tutti i complimenti post-presentazione, non solo sulla ricerca stessa (che in effetti ha dissepolto una storiella mooolto interessante e intrigante), ma anche sul mio modo di pormi come guida. Non sapete quanto possa fare piacere sapere di aver preso la strada giusta, specie per chi fa un mestiere come il mio!!! Per quanto riguarda la ricerca vera e propria la potete già consultare presso la Biblioteca di Morbegno. Quelli che vorranno leggere o conservare (o utilizzare per i tavoli traballanti), il libro-guida dovranno aspettare qualche mese (ma sicuramente prima della fine dell’anno, mi hanno fatto sapere…). Da quanto ne so, sarà un volume della serie “Conosci Morbegno”.Nel frattempo, per i curiosi, ne pubblicherò un brevissssssimo riassunto di quattro episodi qui sul mio blog]

La Gisèta dei Pasquini”

La Gisèta nasce nel Seicento:un secolo non solo triste e tormentato, ma anche pieno di contraddizioni. Esso si apre funesto nel 1600 con una scossa di terremoto e la superstizione sfocia nel cosiddetto Processo dei Bruchi (infestavano Morbegno – esiliati sui monti di Talamona). Nel 1620 la Valtellina entra a far parte della Storia: la ritroviamo sui libri di scuola per il cosiddetto Sacro Macello. I governatori delle Tre Leghe Grigie avevano inasprito non solo le tasse, ma anche il divario tra Riformati e Cattolici, in modo da distaccare la Valle dall’area “italiana”, così, fomentati dal Duca di Feria (governatore spagnolo cattolico di Milano) nel corso di una notte i Cattolici valtellinesi trucidano centinaia di valtellinesi Riformati (tanti erano passati dall’altra sponda per motivi di lavoro o di matrimonio) in un qualcosa a metà tra la guerra civile e l’attentato terroristico. Il Sacro Macello si inserisce nella Guerra dei Trent’Anni, durante la quale la “Spagna” (+Cattolici) e la “Francia” (+Riformati) si litigano l’egemonia sull’Europa con la scusa della religione: sappiamo, infatti, che dopo essere stata sconfitta dalla Francia, la Spagna restituisce la Valle ai Grigioni: a niente era valsa la guerra, solo a portare peste (terribile nel 1630) e carestia.

C’è da dire che alcuni si arricchirono durante la guerra. Le truppe andavano rifocillate (a spese dei Comuni) e i mercanti potevano fare la cresta. Al fine della nostra narrazione è bene sapere che tra Fusine e Colorina la truppa francese, oltre a “insegnare le buone maniere alle fanciulle” (Manzoni) consumava, a spese del decano di Fusine che si riforniva a Berbenno (per 700 soldati e 30 cavalli) – in una giornata: 1 vacca per la truppa, 1 castrato di pecora per gli ufficiali, 1 litro di vino a persona, 150 grammi di sale, se possibile anche pane, formaggio, burro e castagne.

Quando, nel 1639, tornarono i Grigioni in Valle, Morbegno fu più lungimirante rispetto agli altri Valtellinesi e cominciò una pacifica e rassegnata convivenza con gli svizzeri. Infatti, la ripresa della seconda metà del Seicento di Morbegno è notabile. Coloro che si erano arricchiti durante la guerra comprano terreni a prezzi stracciati, coloro che erano rimasti cattolici (e non si erano convertiti anche solo per convenienza) ornano chiese e costruiscono cappelle, i nobili si sporcano le mani con i mestieri dei borghesi come mercanti e notai (insomma, quei lavori che lucravano su chi non sapeva leggere o fare i conti). Insomma, la Morbegno della metà del Seicento, quando nasce la Gisèta, è una Morbegno nuova e vivace, seppure memore di un periodo orribile.

La mia ricerca è partita dall’iscrizione sia esterna sia in controfacciata che ci dà due informazioni: quando – 1665 e chi – Pasquini. La Confraternita dei Luigini, sita dall’Ottocento in questa chiesina, si è tramandata che i Pasquini erano una famiglia ricca che non ebbe eredi (li ebbe, ma non consoni) e che lasciò la chiesa a un prete che celebrò quì la sua prima messa (è la messa di consacrazione). Inoltre, senza fondamenta, per decenni si è creduto che i Pasquini fossero della famiglia Pasqualini di Aicurzio, imparentata con i Malacrida di Caspano.

I Pasquin sono, invece, un ramo della famiglia Mezzera. Questa famiglia borghese è originaria di Bellano/Dervio, dove si era arricchita con il commercio di pane e con il possedimento di forni (prestiné) e che si sposta, a inizio Seicento, anche a Morbegno e a Chiavenna. Il primo ad arrivare a Morbegno fu Carlo Mezzera detto di Bellano, che si sposa con una nobile degli Schenardi di Morbegno. Tramite l’incrocio di documenti notarili (in quegli anni i registri sono frammentari, sono secoli difficili) ho desunto la sua prole maschile sana (le femmine non sono quasi mai citate).

Carlo Mezzera era un giudice, lo ritroviamo spesso protagonista nelle carte dei processi di faide di famiglie spaccate in due per motivi di religione.

  • Il primogenito, nonché possessore della bottega di pane aMorbegno, è Nicolò Mezzera, morto di peste e senza eredi consoni nel 1639 (lo troviamo negli ex voto della Madonna delle Grazie a Sacco; la famiglia di sua madre era molto legata a questa Madonna molto venerata durante il periodo della Peste Manzoniana);
  • La bottega passa a Giovanni Pietro Mezzera detto il Pasquino. Lui sposa una nobile degli Acquistapace di Morbegno (la madre e la suocera erano due sorelle Schenardi) che muore di parto nel 1632, partorendo Giovanna, unica erede e malata di epilessia;
  • Don Giovanni Antonio Mezzera organista e sacerdote alla Collegiata di Sondrio;
  • Giacomo Mezzera detto il Pasquino di Dusone (Berbenno) fornitore delle truppe di Fusine e sposato con una Bassi, della famosa famiglia di notai;
  • L’ultimogenito Battista Mezzera (ha più o meno l’età di Giovanna) diventa notaio, sposa una Vicedomini dei notai di Traona e lì vi risiederà.

 

Quindi, i Mezzera erano borghesi che si erano allacciati con la nobiltà locale. Inoltre, i mestieri sia di notaio sia di prestiné garantivano di essere ricchi quanto i nobili. L’appellativo Pasquin deriva dall’agnello pasquale (lo troviamo anche nel sottarco del presbiterio, non si sa se è per questo!), simbolo della Corporazione dei Fornai e Panettieri. Sul portale della chiesa, comunque, lo stemma che spicca è quello Acquistapace della moglie nobile e più ricca (con i gigli, la spada e, ovviamente, la corona). La particolarità della facciata, eppure, rimane nelle statue sulla sommità (non sono ne angeli ne simmetriche): sono Giovanna bambina orfana e Giovanna adulta vestita da monaca (porta le spighe – il “denaro” dei Mezzera Pasquin).

La casa di Gio. Pietro era in Via Margna, al limitare del Pozzo Modrone, dove c’erano le botteghe artigiane, tra le quali la sua di famiglia. Il padre Carlo risiedeva nella zona di San Pietro; gli Schenardi in Via San Marco e gli Acquistapace in Via Cotta. Il legame famigliare tra Schenardi e Acquistapace lo ritroviamo nella pala d’altare degli Angeli Custodi in Via San Marco, culto radicato nella famiglia Acquistapace discendente da Gerola (nell’angolo in baso a sinistra c’è lo stesso stemma che troviamo sul portale). Inoltre, la moglie di Gio. Pietro lascia in dote le due statuine che rappresentano S. Michele Arcangelo e Angelo Custode (mensoline ai lati), che un tempo erano festeggiati ambo i due il 29 settembre; lascia anche la miracolosa statuina della Madonna messa a in teca d’altare. Gli Acquistapace erano importanti membri della Confraternita di S. Maria delle Grazie di Sacco, la cui statua trafugata nel 1927 fu importante nell’ex voto durante la peste del 1630. La statuina quattrocentesca della Gisèta è creduta gemella (ossia ricavata dallo stesso tronco) di quella di Sacco e presenta forti analogie anche con quella omonima di Gerola Alta.

Concludiamo la sezione storica antica con la protagonista della Gisèta: Giovanna Mezzera fu Gio. Pietro Mezzera detto il Pasquino. Nel 1664 apre a Morbegno il Monastero della Presentazione, Giovanna ha già 32 anni e suo padre scrive il suo testamento. Non si era risposato perché non voleva perdere l’eredità e lo status sociale della moglie. Con il testamento, lascia i suoi terreni a Morbegno, la bottega e la casa a Giovanna nominando come tutore il fratello, il notaio Battista; l’eredità della moglie (terreni a Regoledo – in loc. S.Maria e sotto Sacco – e corredo nuziale tra cui le statuine già citate) diventa un beneficio legato all’altare di una chiesa che fa costruire per ricordare la moglie e la sciagurata figlia: questo beneficio fu assegnato alla famiglia della moglie, gli Schenardi. Giovanna viene costretta nel Monastero perché nessuno la voleva con sé: oltre ad avere l’epilessia (ai tempi curata con vischio, fegato di avvoltoio, sangue e ossa umani) aveva anche la mano destra paralizzata. Di fatto, Giovanna era una mentecatta con una malattia da peccatrice (anche se la sua famiglia faceva parte della Confraternita del Santissimo Sacramento di Morbegno), perciò non poteva diventare una suora e alla sua famiglia andava benissimo che lei rimanesse in Convento nascosta a pregare, in cambio delle cure delle suore. Il rappresentante giuridico del Monastero, inoltre, era il notaio Francesco Schenardi (suo padre era fratello delle nonne di Giovanna), l’avido notaio che si ripulisce tasche e coscienza ristrutturando l’Angelo Custode. In più, la cospicua donazione che Battista fa al Monastero chiude il capitolo: Giovanna muore chiusa in convento nel 1698. Oltre a pagare la retta di ammissione come tutte le suore,infatti,  lo zio notaio dona dei terreni per avere uno sconto sulla retta (10 terreni a Morbegno appartenuti a Gio. Pietro). Ovviamente, questi soldi vengono pagati con l’eredità di papà Gio. Pietro in mano a Giovanna, ma gestita dallo zio.

Possiamo, quindi, definire la Gisèta, più che una cappella privata, il finto mausoleo voluto da un papà borghese in punto di morte.

[continua…]

❤ Miss Raincoat

Gisèta di Via Margna 1×01

Come molti di voi già sanno, ho dato al mondo la Ricerca sulla Gisèta di Via Margna. Davvero, non pensavo che così tante persone, non solo morbegnesi, fossero tanto affezionate a un posticino così poco conosciuto e così tanto piccolo.
Grazie mille ancora per tutti i complimenti post-presentazione, non solo sulla ricerca stessa (che in effetti ha dissepolto una storiella mooolto interessante e intrigante), ma anche sul mio modo di pormi come guida. Non sapete quanto possa fare piacere sapere di aver preso la strada giusta, specie per chi fa un mestiere come il mio!!!

Per quanto riguarda la ricerca vera e propria la potete già consultare presso la Biblioteca di Morbegno.
Quelli che vorranno leggere o conservare (o utilizzare per i tavoli traballanti), il libro-guida dovranno aspettare qualche mese (ma sicuramente prima della fine dell’anno, mi hanno fatto sapere…). Da quanto ne so, sarà un volume della serie “Conosci Morbegno”.
Nel frattempo, per i curiosi, ne pubblicherò un brevissssssimo riassunto di quattro episodi qui sul mio blog.

“C’era una volta Morbegno…”

La storia della Gisèta è ambientata nel Seicento, un secolo di pace forzata, rassegnazione e superstizione. Infatti, è in questo secolo che i Morbegnesi assistono al Processo contro i Bruchi che, sebbene stessero davvero infestando la cittadina, non avevano nessuna colpa per essere, addirittura, esiliati sui monti del paese limitrofo di Talamona. D’altronde, è anche lo stesso secolo che si apre funesto con una scossa di terremoto ben percepita a Morbegno.

Storicamente, l’epoca è ricordata per ciò che successe nel luglio 1620, il cosiddetto Sacro Macello, la strage perpetrata da un gruppo di Cattolici valtellinesi ai danni di circa 600 Riformati. Il luttuoso episodio è inseribile nel contesto della Guerra dei Trent’Anni (1618-1639), il conflitto tra quello che allora erano Francia e Spagna, per accaparrarsi l’egemonia del continente europeo. In verità, il casus belli fu la discriminanza di pensiero tra Cattolici e Protestanti, ma ben presto gli scontri divennero proprio politici e si tradussero in una catastrofe, per via delle soventi devastazioni sia di villaggi sia di campagne, saccheggi (dato che vari eserciti erano composti da soldati mercenari), carestie, uccisioni di massa ed epidemie micidiali.

Del resto, anche la Valtellina, in pochi anni, si vide dapprima stanza dell’esercito spagnolo e poi quello francese, ottenendo come tornaconto soltanto il batterio della peste, della quale ricordiamo spiacevolmente l’ondata del 1630, che dimezzò drasticamente la popolazione nel sondriese. A Morbegno, gli abitanti, per scampare all’infezione, vissero a lungo segregati nelle cantine delle abitazioni o si trasferirono nelle baite di montagna. Tuttavia, il sacrificio non valse a nulla, dacché nel 1639, all’indomani del Capitolato di Milano, la Valtellina fu riconsegnata in mano alle Tre Leghe Grigie, che la Corona spagnola si era riproposta di scacciare, in nome del Cattolicesimo.

Dopo la strage, i Grigioni si erano ritirati in Svizzera e la Valtellina, presso il Forte di Fuèntes , fu presidiata dall’esercito spagnolo, all’inizio con lo scopo di appoggiare i Cattolici e, presto, per portare la Valle sotto il dominio asburgico. Tra il 1624 e il 1631, intanto, l’esercito francese, ai comandi del Duca di Rohan, condusse una Campagna per scacciare gli avversari spagnoli e restituire la sovranità alle Tre Leghe Grigie. Nel 1635, di fatto, la Spagna venne sconfitta, ma non provò ad opporre resistenza in nome della religione, siccome non aveva affatto a cuore la questione valtellinese, bensì la sua strategica funzione di crocevia. Il Capitolato del 1639 fu una pace studiata a tavolino con la quale, senza rancore, la Spagna rese la Valtellina ai Grigioni; grazie al Papa, alleato della Spagna, si ottenne che, a Sud delle Alpi, fosse tollerato solo il Cattolicesimo, ossia che, salvo i funzionari, nessun Riformato potesse dimorare in Valtellina per più di tre mesi.

I potenti signori svizzeri, soprannominati Bündner Wirren (dal tedesco,”Torbidi Grigioni”) stavano già inginocchiando i Valtellinesi tramite tasse e pretesti religiosi, sin dal Cinquecento, al fine di ottenere un terreno florido per l’agricoltura e conosciuto da secoli per i terrazzamenti coltivati a vigneto: la guerra fu soltanto l’apoteosi di un periodo di estrema tensione. La Valtellina, con le Contee di Bormio e Chiavenna, interessava alla Spagna, per raggiungere i suoi territori d’oltralpe, senza passare dalla Repubblica di Venezia, alleata con la Francia. Ovviamente, la Spagna approfittò del nervosismo che già albergava in Valle. Da Coira, sopraggiunse l’imposizione di consegnare almeno una chiesa per paese ai predicatori evangelici, la quale dottrina non prevedeva la rappresentazione di Dio e i Santi, considerata idolatria (mentre, per i Cattolici, la rappresentazione del divino era parte dell’educazione religiosa) e, soprattutto, fu ristretta la facoltà di essere meta di visite pastorali (l’unico che ci riuscì fu il morbegnese vescovo Feliciano Ninguarda) e di avere più di un certo numero di conventi (i Grigioni volevano radere al suolo quello di Sant’Antonio a Morbegno). Queste decisioni, furono molto più che poco democratiche, se si pensa che l’identità valtellinese, pur concedendo che parte della popolazione fosse costituita da convertiti oppure “immigrati” grigionesi, restava in maggioranza cattolica. L’attrito si fece sempre più palpabile, quando, infine, fu torturato ed ucciso il beato Nicolò Rusca, che seppure davvero avesse fomentatol’odio verso i Riformati, era già anziano. L’idea dell’attentato del 1620 nasce all’indomani di questa  morte, voluto benchè molti Evangelici fossero valtellinesi così come coloro che li trucidarono. Il burattinaio della cruenta rivolta fu, chiaramente, il Duca di Ferìa, che da Milano rappresentava il governo spagnolo.

Nel 1636, dopo i tumulti del Sacro Macello e la vittoria a Morbegno, tra i territori di Fusìne e Colorina, si poteva vedere accampata la truppa francese (gli alleati dei Grigioni) di Monsieur de Melun, dell’esercito del duca di Rohan, nella dimensione di circa 700 soldati e 30 cavalli. I decani di Fusìne e di Colorina, a loro malgrado, si dovettero impegnare a fornire vitto e alloggio al drappello, benchè fossero Cattolici. Inutile dire che, oltretutto, i paesi dovettero anche subire arroganze, soprusi, il contagio della peste da dei militari che, più che altro, come scrisse il Manzoni insegnarono le buone maniere alle fanciulle. È documentato che il reggimento in solo una giornata consumava una vacca per la truppa, un castrato di pecora per gli ufficiali, un boccale di vino a persona (un litro circa), mezza libbra di sale (150 grammi) e, se fosse stato possibile, anche pane, formaggio, burro e castagne. — Cit. Da una ricevuta, datata 6 dicembre 1636, la quale prova che il decano di Fusìne deve a Giacomo Pasquino, di Dusone a Berbenno, una somma di denaro per la spesa di vitto)

Comunque, durante la seconda metà del Seicento (specie dopo il 1639), Morbegno si riprende straordinariamente. Mentre la maggior parte dei paesi della Valtellina erano ancora in astio con i dominatori grigioni, i più lungimiranti Morbegnesi, cercarono di accettare la triste realtà stringendo alleanze economiche, in modo da beneficiare della beffa. Grazie, appunto, al fiorente commercio di una cittadina già aperta verso la Serenissima, mediante la Via Priula costruita a fine Quattrocento, poterono essere costruiti chiese e palazzi. Addirittura, il mestiere dei mercanti era diventato talmente vantaggioso da far sì che molti nobili decisero di sporcarsi le mani di un denaro guadagnato alla maniera dei borghesi (allo stesso modo, il mestiere del notaio e del giudice p.e.). Le famiglie che diedero impulso alla “riconquista” di Morbegno furono i Vicedomini, i Malacrida e i Parravicini, dei quali alcuni rami, soprattutto per convenienza, si erano uniti alla causa della Riforma insieme ai Grigioni; però, coloro che rimasero coerenti nella professione di fede, abbellirono chiese e cappelle con onerosi lasciti e benefici, spesso anche sotto forma di preziose opere d’arte. Eppure, è proprio a cavallo tra Seicento e Settecento che i Grigioni acquistano varie proprietà nella Valtellina, da poco ritornata sotto il loro controllo. Erano dei terreni che, dopo i saccheggi, non erano più ricchi di coltivazioni e fu una conseguenza ovvia che tutti coloro che durante la guerra si erano arricchiti investirono il loro denaro, comprandoli a prezzo stracciato. Come contravvenivano agli accordi del Capitolato di Milano? Spesso, affittavano a livello i possedimenti a coltivatori locali, concedendoli in godimento a determinate condizioni di vantaggio; altre volte, costruendo anche sontuosi palazzi residenziali, contestavano la legge contraendo matrimoni con donne con cittadinanza valtellinese. È stimato che un quinto di campi, vigne e alpeggi, a quel tempo, fossero di proprietà grigionese.

Don Giovanni Tuana  ci racconta molto dettagliatamente la Valtellina di metà Seicento nel suo “De Rebus Vallistellinae”. In particolare, descrive una Morbegno popolata di circa 300 famiglie, tra le quali molte nobili o forestiere. Qui si teneva un mercato settimanale e si potevano trovare botteghe di ogni arte e sorte. La Chiesa di Sant’Antonio risultava essere molto frequentata, sia per messe o preghiere molto frequenti, ma anche per la musica. Nella piazza antistante, oltre al mercato, si tenevano mostre e giostre, perciò era un luogo dove si potevano fare piacevoli passeggiate. Verso il fiume Adda, Morbegno aveva una zona campestre fertile e con allevamenti bovini. Nella frazione di Campovico, esposta al sole, abbondavano vigne e vi era un torchio, in loc. Cerido, dove si produceva un vino assai prezioso; la frazione Arzo, invece, ricca di castagneti, era anche il luogo dove si facevano pascolare mucche e capre, che, ovviamente, in estate si trasferivano in Val Gerola, indiscusso regno di quel formaggio eccellentissimo che poteva gareggiare con il Parmigiano citato dal Tuana.

[continua…]

❤ Miss Raincoat

 

[Save the Date] Presentazione de “La Gisèta di Via Margna”

26 maggio 2018 – h. 17,30 – @Biblioteca “E. Vanoni” di Morbegno

Ci siamo, domani presenterò quello che ho impastato negli ultimi quattro anni. 

In realtà ho combinato anche altro, è vero. Però, questo è il mio primo lavoro a portare la mia firma e, soprattutto, è qualcosa che resterà scritto. Noi guide si parla e si parla, ma non si sa mai quanto rimane nelle vostre menti sguaiate di turisti…

E nelle ultime settimane, per fare bella figura, ho studiato in quella maniera in cui lo faceva il Leopardi.

Il Capo A. ha voluto definirla una visita guidata virtuale, perché fa moda. In realtà, sarà una semplice chiacchierata per appuntare i momenti salienti di una ricerca che, sia a livello lavorativo sia a livello professionale, mi è stata accanto nella salute, nella malattia, nella buona e nella cattiva sorte. Quattro anni fa ero una ragazzina. Come diceva Elias Canetti, si viene al mondo con la Cacciata dal Paradiso, forse. Diventare adulti significa che non ti senti più al centro di tutto e, capendolo, non solo sono diventata una guida migliore, ma mi sono accettata anche nel mio contortume, nella mia antipatia scelta e nelle mie umane imperfezioni. Allora, ho deciso di presentare il mio lavoro, quello volutamente su un monumento minore di Morbegno e sconosciuto ai più, nella Biblioteca in cui è nata e cresciuta l’idea e la stesura…per dimostrare anche che la dimensionalità della chiesetta va ben oltre alle sue piccole misure fisiche. In questo ci assomigliamo, ovviamente.

Poi, ho sempre pensato, che esistono dei monumenti che vanno visitati in solitaria, per il bene dell’animo. E la Gisèta è uno di questi.

Dovrei ringraziare tutti i colleghi e i capi supremi che mi hanno supportata e indirizzata. Gli archivisti che mi hanno aperto porte e faldoni impolverati. I fans della Gisèta, definibili Ultrà. Gli amici e parenti che mi hanno ascoltata farneticare strane cose. Chi mi ha augurato buona fortuna o giustiziato lupi in questo ultimo mese preparatorio. Eppure, devo assolutamente fare un nome: il falegname Mario Monti, che è stato custode, marito, narratore della Gisèta e mio guru per tutto il tempo che ho potuto frequentarlo. ❤

La ricerca mi piace: sono soddisfatta. Parla di secoli di intrighi, di monacazioni forzate, di Confraternite, di soldi indebiti, di arte e del fatto che gli artisti sono condannati a essere grandi seduttori. Potrei raccontare chissà quale ragionamento intellettuale per contestualizzare il sommario, ma in realtà risulta da un’innocente curiosità che mi è sfuggita di mano. Volevo solo scrivere un articolo, qualche battuta per integrare una mia visita guidata…

Mi chiedevo quale motivazione avesse portato David Beghé, il pittore che ci ha lasciato quel meraviglioso ciclo di affreschi all’interno della chiesa (ligure di nascita e milanese d’adozione scolastica) a lasciare il suo unico esempio valtellinese proprio a Morbegno, nella provincia della provincia. Ho scavato nella memoria della committenza, la Confraternita dei Luigini, che ha sede nella Gisèta dal 1818, e ho scoperto che la piccola chiesa odierna include il nucleo della Gisèta dei Pasquin, consacrata nel 1665, poco dopo la fine delle Guerre di Valtellina (con il ritorno dei dominatori delle Tre Leghe Grigie), all’indomani di un periodo di contraddizioni, eserciti mercenari, carestia e di una violenta ondata di peste.

Quindi, incrocio le dita.

Non potrei essere più felice di adesso, comunque. Sto facendo il lavoro che potevo soltanto sognare dieci anni fa.

❤ Patrizia (togliamo la maschera per oggi e indossiamo le lentiggini)

“Giuditta ed Oloferne” di Caravaggio

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, è uno dei più famosi pittori del Seicento, nonché il mio artista preferito. Non solo perché si è guadagnato la nomea del bello e maledetto, ma – soprattutto – per il modo in cui i suoi colori squarciano le sue tele con violenza raccontando, però, un’interiorità sensibile e profonda. 

In questa scena d’ispirazione biblica, ci viene presentata Giuditta mentre uccide il condottiero assiro Oloferne, per salvare il suo popolo, quello ebraico, dalla dominazione straniera.

La drammaticità dell’episodio è sottolineata dal tipico stile caravaggesco: fondo scuro, luce radente che rivela le smorfie d’espressione e una linea-guida diagonale e molto dinamica. I colori che emergono sono il rosso (drappo e sangue) e il bianco della camiciola (se da un lato simboleggia la purezza, dall’altro fu aggiunta per via della censura: sotto vi era un realistico seno sudato).

Anche se la giovane sta decapitando l’uomo con una scimitarra, il messaggio non è quello della lotta tra i sessi o l’approfittarsi della debolezza della femmina (come nello stesso soggetto per Artemisia Gentileschi, che tramite l’arte denunciò il suo stupro). La serva che regge la cesta dove verrà conservato il trofeo è volutamente vecchia e brutta per sottolineare la bellezza della ragazza che, pur sempre, è inorridita e turbata dalla violenza alla quale è costretta.

Quello della Giuditta del Caravaggio è il sacrificio enorme che deve fare un eroe. Giuditta utilizza la sua sensualità di donna per attrarre il nemico e neutralizzarlo, così come il David aveva utilizzato la sua intelligenza per sconfiggere la forza bruta di Golia. Eppure, entrambi furono degli assassini.

Ho sempre creduto che la libertà sia un grande paradosso. Dove inizia? Dove finisce? E perché per averla bisogna sempre rinunciare a qualcosa? Perché per rendere la res pubblica si deve sgozzare il re?

❤ Miss Raincoat

**1559, Palazzo Barberini (Roma)