11*01 – El cante jondo

Garcia Lorca definì il cante jondo “profondo e penetrante”. Si tratta dello stile più primitivo e gitano della parte vocalica del flamenco. In traduzione, si è citato il Ligabue di “Balliamo sul Mondo”. Il fandango è, difatti, una danza seicentesca andalusa, con una melodia più semplice rispetto al jondo.

Maddalena e Gabriele stavano consumando in silenzio la loro prima colazione. Entrambi erano poco propensi alle lodi del mattino, perciò preferivano non dover articolare pensieri troppo profondi almeno prima della terza preghiera se, addirittura, ciò si fosse dovuto tradurre in parole. Quella mattina Maddalena stava facendo persino fatica a controllare i movimenti delle sue mani ancora intorpidite dal sonno e l’operazione di tagliare il pane sopra il quale spalmare la marmellata di lamponi sul burro fresco le risultava troppo complicata. “Questo maledetto pane, dov’è Elvira!?” sbottò. “Dammi qui, faccio io. Non c’è bisogno della servitù!” si offrì di aiutarla Gabriele che con il pane e la servitù ci sapeva fare più di lei. “Hai un pessimo rapporto tu con le lame, si sa!” fece una battuta per raddrizzare la sua luna storta.

“Gli uomini impugnano coltelli per sete di sangue, per sentirsi eroi. Credi che io ti abbia sposato perché ti ammiro? Perché vai in giro a farti ammazzare? Perché… Oh, perché il Duca è un cattivone che si è preso la tua Riviera?”. Gabriele la guardò incredulo, non si aspettava tale giaculatoria a quell’ora. “Gabriele, sei soltanto uno che sgozza le persone per soldi. Non te ne frega nulla, non hai ideali. Uccidi a sangue freddo non perché sei coraggioso, ma perché uccidere non ti eccita!”.

Gabriele perse la pazienza e, per lo scatto di collera, le posate gli caddero rumorosamente nel piatto.

“Va bene, ti faccio schifo. Maddalena, me ne farò una ragione. Ti ricordo che ci siamo dovuti sposare perché così ha deciso tuo padre. Ma chiedo venia se non ti sei potuta scegliere un valoroso cavaliere che ti getta a terra ogni volta che, ubriaco, cerca di ingravidarti come una giovenca fino alla morte. Scusa, scusa davvero!”. Si pulì le mani stizzito perché gli erano diventate appiccicose di marmellata – non una bella mossa per uno che maneggia pugnali con destrezza – e si alzò. “Ah, per curiosità, a me eccita la figa!” aggiunse.

Era già in un’altra stanza quando lei gli rispose a tono. “Si capisce. È per questo che hai lasciato l’Elvira a gelare di freddo fuori dalla tua stanza…”. Gabriele rientrò e puntò i pollici davanti a Maddalena sul tavolo di legno, braccandola da dietro e parlandole alle orecchie. “Si dà il caso che le cose dovrebbero funzionare un pochino diversamente la prima notte di nozze, ragazzina!”. Si distolse subito dalla posizione da sicario. Gabriele, non le devi fare paura. Fece solo un passo indietro e si calmò. “Che cosa avrei dovuto fare con la tua serva muta di preciso per non mancarti di rispetto? O l’hai scelta muta di proposito per mancare di rispetto tu a me? Che cosa doveva tacere di preciso la tua cara serva?” le domandò sarcastico. “Che gli mandavo i fazzoletti ricamati” disse con un filo di voce a testa bassa. “Come, scusa?” non capì.

Questa volta fu Maddalena ad alzarsi con lo scopo chirurgico di lasciarlo lì con il dubbio. “Lena, dove vai? Dai, aspetta ho esagerato…” la richiamò indietro. Maddalena era già altrove. Gabriele pestò un pugno sopra il tavolo e si fece male alle nocche. “Maledizione!”. La sua imprecazione fu sentita in tutti i bracci del palazzo.

***

Il vento dei primi di febbraio, carico di febbre e follia, sferzava disordinato facendo librare in aria i capolini gialli delle mimose come coriandoli. Il profumo morbido, giallo e femminile gli indispettiva le narici e faceva starnutire Gabriele, intirizzito sulla panca di marmo di Viggù con i braccioli a rocaille posta con la tramontana a prua tra la serra e la scuderia. Il sole a zenit gli faceva stringere gli occhi. “Stai attento!” gridò al figlio dello stalliere che si stava buttando a pesce dai pochi rami di un albicocco che erano scampati dalla recente potatura.”Vedo che con il matrimonio ti è nato l’istinto paterno!” lo schernì una voce maschile che conosceva bene. “Giorgio!?”. Si alzò per abbracciarlo. “Amico mio!”. “Che ci fai qui nelle Tre Pievi?” gli domandò. Il suo arrivo a sorpresa gli aveva ridato un po’ di buonumore.

“Sono venuto a trovarti…”.
“Come amico o come medico?”
“Sono venuto a vedere se stai bene. Ebbene?”
Gabriele alzò le spalle. Conviveva ormai da anni con le sue cefalee, con l’insonnia e con i tremori alle mani. Qualche volta gli batteva talmente forte il cuore che per ricominciare a respirare doveva vomitare il peso che gli premeva sul petto.
“Dormi, Gà?”
“Quando mi addormento dormo…”. Ci scherzava sempre su. Non era uno che si faceva leccare le ferite.
Il dottor Serponti gli porse una sacchetta di cuoio con delle foglie dentro. “Tieni, questo ti dovrebbe aiutare sia a calmare i battiti sia con il tuo mal di stomaco”. Lo guardò incredulo: come faceva a capire il suo stato di salute solo guardandolo in faccia? “Non è oppio, mi dispiace. Con questa ti ci fai un decotto prima di andare a dormire”.
“Sei sicuro che poi…”
“Tranquillo, stallone, ci ho fatto mettere anche una punta di geranio allo speziale. Tua moglie può stare tranquilla!”
“Più tranquilla di lei, solo gli Angeli…”
“Gabriele, non dirmi che non lo sa…”. Giorgio alludeva alla malattia. Nella salute e nella malattia, per lui le promesse di matrimonio erano inviolabili.
“No, Giò. Io e lei non…”. Come faceva a dirglielo? Ne andava della sua virilità.
“Non?!”. Giorgio pensava di non aver afferrato il concetto. Si riteneva un intelligente studioso, però sapeva di non essere brillante – con la risposta sempre pronta – come Gabriele. Tra di loro, la più sostanziale differenza era quella.
“Dai, per piacere è una ragazzina!”. Si giustificò maldestramente. Giorgio rise. “Non ci credo!”.
“Eh, non crederci!”
“Ti gira in casa Maddalena Stampa e non ci combini nulla. Amico, ti dichiaro ufficialmente malato!”

Gabriele si rimise a sedere e fece un cenno a Giorgio di fare lo stesso. Il vento non smetteva di increspare le onde sul lago azzurrissimo a qualche decina di metri a strapiombo sotto di loro.
“Hai presente la sua serva, Elvira?”
“Dai, non pensarci più, è stata una bravata!”
“Bravata?! Le ha inchiodato la lingua al tavolo!”
“Siete la coppia perfetta, se ci pensi! Degli aguzzini efferati…”. Entrambi risero.
“Non ci avevo mai pensato prima di stamattina… Abbiamo litigato. Cioè, non che si possa parlare con lei senza farlo…”
“A cosa?”
“Quando sono arrivato qui ser Nicola Stampa mi aveva raccontato di questo tale capitano della Val Bregaglia, un loro lontano parente, che doveva sposare Maddalena. Solo che durante la Guerra ne aveva ucciso uno dei suoi durante una rissa e si era dovuto dare alla macchia. All’inizio lo aveva protetto lui, se ne stava in un casale abbandonato a Rancio, qua sopra. Perciò mi aveva messo a fare la guardia del corpo a sua figlia, perché nessuno si facesse male in attesa che Maddalena potesse indossare il suo abito bianco”.
“Mi sfugge perché tu l’abbia ucciso, però!”
“Uno stronzo. Era riuscito a legarla a sé, ad ammaestrarla come gli ‘stroleghi con i serpenti; con la scusa che non era abbastanza coraggiosa per scappare con lui e che allora si doveva accontentare dei pochi momenti che le concedeva. Scendeva per chiavarsela e assicurarsi che, grazie alle sue lagne, gli Stampa continuassero a badare che lui fosse vivo!”
“L’hai ucciso per questo?”
“Avrei dovuto. Almeno non mi troverei in questo fottuto guaio!”. Giorgio scosse la testa.
“Lavorava per i Duchi, lo stronzo faccia di culo! Lo raccontai a Nicola. Lui era d’accordo con me. L’avrei fatto fuori alla mia maniera: al buio, in silenzio e con il coltello. Sarebbe diventato pasto per i corvi. Invece, Drusiana decise che sarebbe stato meglio fare finta di niente e sfruttare la situazione per avere un certo anticipo sugli Sfondrati. Tanto, chissenefrega di Maddalena!“.
“Vai avanti…”
“Quindi Maddalena l’ha scoperto da sé! Come ho fatto a non capirlo prima? Le mandava i fazzoletti ricamati con i messaggi d’amore, pezzo di merda di cane…”
“Elvira?!”
“Cosa non può fare una donna con il cuore spezzato!”
“Vuoi dire che Maddalena capito che Elvira faceva da tramite con il Duca per ucciderti?”
“In realtà, l’ha beccata con le gambe aperte sotto il suo innamorato. Però – sì, in sostanza Elvira non teneva nessuno dei suoi orifizi in disimpegno”.
“Diciamo che fu una notte intensa in cui ci siamo dovuti impegnare a rammendare. Di solito, è un lavoro da massaie, abbiamo fatto quello che abbiamo potuto…”

“Il giorno dopo di quella notte… Giuro, non avrei voluto uccidere il padre di Elvira. Potevo dargli un mucchio di soldi affinché lui e la sua famiglia si trasferissero in Tirolo. Ma tremava di paura, non ci si può fidare di chi ha paura. Allora gli ho detto o ti uccidi tu o ti uccido io, scegli. Si è impiccato davanti a me. Tutti hanno creduto che si fosse ucciso perché non sapeva come maritare la figlia”
“E il figlio di troia?”
” Oh, lui… Era nella stanza di Elvira. Giaceva dissanguato. Maddalena aveva mirato con un coltello tra ombelico e pube. Lo feci a pezzi e poi lo portai in un porcile. Ci pensarono i maiali.”
“Il resto lo sappiamo…”
“Gli Stampa mi permettono di vivere una vita agiata”. Fece spallucce.
“Gabriele, non puoi continuare ad essere innamorato di una morta…”. Giorgio lo guardò dritto negli occhi e lui li distolse subito per non allagarsi dentro. Gli uomini non lo fanno.
“Quando tornai qui Drusiana mi respinse. Disse che dovevo diventare un uomo e sposarmi. Avrei dovuto sposare un’assassina come me. Le suore avevano acconsentito al silenzio a patto di tenere con noi anche la muta” tirò fuori il suo livore.
“Gà, smettila di trattarla con i guanti. Non sei più la sua guardia del corpo, sei suo marito!”
“Ha detto che gli faccio schifo!” trovò una scusa.
Giorgio alzò gli occhi al cielo. Delle donne Gabriele non ci avrebbe mai capito niente.
“Una tazza ogni sera, intesi?” gli ricordò e poi si alzò in piedi.
“Gà, un’ultima cosa…” sembrò rimestare nei suoi pensieri.
“Dimmi…”
“O con lei o con qualcuna devi chiavare. Com’è che è da quando ti sei sposato dici di no a tutte? Ti pesa la fede sul dito? Per questo male c’è una sola medicina, sai…”. Inutile, Giorgio e il suo metodo scientifico rendevano empirico ogni sforzo di Gabriele di nascondere le sue falle dietro al sarcasmo e, decisamente, era l’unica persona in grado di salvarlo dalla collottola ogni volta che, inconsciamente o meno, si trovava all’orlo di un precipizio.

***

Gli dei norreni pensavano che la loro fine sarebbe arrivata appena dopo il tramonto, con l’estinzione dell’ultimo eroe. Gabriele stava guardando la piazza dalla balconata. Le luci del crepuscolo erano incerte nel restituire la loro luminosità al cielo, che susseguiva lampi di colori sempre meno rossi e più lividi. Quella sera gli sarebbe stato impossibile guardare il lago, poiché la dolcezza stucchevole della malinconia gli bruciava in gola. Si stava rollando una sigaretta con le erbe che gli aveva portato il suo amico, il dottor Serponti. Niente decotti, non sono una puerpera, lo diceva sempre Lucia. Guardò verso l’alto. La prima stella che s’illuminava sul manto scuro della notte era sempre lei.

“Che fai?”. Maddalena era arrivata nell’androne a piedi scalzi, non l’aveva sentita e sobbalzò. “Fumi oppio?” le domandò curiosa, come se la lite della mattina non fosse mai successa. “No, una cosa che mi ha dato Giorgio…” fu vago su prescrizioni e posologia. “Non stai bene?” si allarmò. “Mi manca il lago” rispose.

“Il lago è dall’altro lato…” gli ricordò lei la rosa dei venti.
“Il mio lago”. Gabriele voleva guardare più lontano.
“Ah, capito…”. Maddalena avrebbe almeno voluto essere almeno una moglie utile. Ma come? Tutto, in quel matrimonio urlava o rimani qui o sei morto, non certo un orecchiabile preludio d’amore.
“Mi hanno detto in cucina che non hai mangiato a cena…” cambiò discorso lui.
“Ti preoccupi per me ora?”. Ancora una volta, le uscì repentinamente la sua peggior versione.
“Sono riluttante all’idea del matrimonio, di questo in particolare. Ma non vuol dire che io non sia capace di sentimenti umani, la gentilezza per me è questione d’onore.”
“Già, l’onore. Sempre fedele a Nicola Stampa. Hai accolto il matrimonio come quando ti ordina di uccidere i nostri nemici”. L’umore di Maddalena poteva cambiare con una folata, come il clima a febbraio. “A proposito, mio padre dice anche che sei bravo con la spada”.
“Un bravo spadaccino non va in giro a vantarsene” parò il colpo basso.
“A cosa alludi?”
“A te piacciono i banditi, no?”
“Senti chi parla… Ti sei venduto per non farti uccidere!”
“Lui avrebbe venduto te, è diverso!”
“Ma si dà il caso che mio padre, il tuo signor padrone, mi abbia fatto sposare te, che hai i tuoi sani principi! Siamo a posto!”
“Avresti preferito il Buon Gesù?”
“A un marito che non mi guarda? Ovviamente!”
“Tanto ti guardano tutti!”
“Perché ho dato scandalo!?”
“No, perché vorrebbero tu dessi scandalo per loro!”.
“Come quando ti scopavi Lucia?”
“Sei l’unica che non la chiama…”. Si stupì, non l’aveva chiamata La Pazza. In qualche modo, Lucia e Maddalena si assomigliavano. Erano entrambe delle guerriere con il cuore a mille.
“L’amavi vero?” gli chiese.
“Sì, l’amavo!”. Era la prima volta che lo diceva ad alta voce. Non l’aveva mai detto nemmeno a lei e questo era il suo più grande rammarico. Che, dopo la morte, ti rimangono le frasi in sospeso.
“Ed è per questo che vai a letto con tutte tranne tua moglie, perché lei è morta? Lei non ti ha tradito, Gabriele. Lei morirà soltanto quando te la sarai dimenticata e io non ti chiedo questo. Ti chiedo soltanto di dirmi se secondo te valgo meno di quella zoccola megera di mia zia Drusilla”.

Gabriele fece un respiro profondo. Avrebbe dovuto annegarsi direttamente nell’infuso di Giorgio per venirne a capo.
“Spogliati allora. Vuoi davvero un uomo vero? Farò il marito che si merita donna Maddalena Stampa”. Se ne sarebbe pentito, forse.
“Mezzera! Maddalena Mezzera” lo corresse, ma tentennò giocando con i lacci del vestito di sargia color avana che portava spesso quando si aggirava leggera tra i corridoi dopo cena. Maddalena trovava che le ore piccole la facessero sentire libera, come una musicista solista che si appresta alla sua serenata notturna. Di notte, non portando il corsetto, riusciva a respirare.
“Che fai? Ti vergogni?” la derise.
“Io non l’ho mai fatto” fu sincera.
“Dai, non può essere. Ero la tua guardia del corpo, dovrei saperlo!”
Maddalena scosse la testa.
“No? Non sai com’è fatto il corpo di un uomo?!”
Scosse la testa nuovamente con ancora più vergogna. Lui le accarezzò il viso. Si guardarono negli occhi; probabilmente, non l’avevano mai fatto davvero.
“Non ti ha nemmeno insegnato nemmeno questo, lo sfigato?”. Lei rise nervosa. “Volevo te, non Elvira. Per questo le ho detto di uscire dalla mia stanza!”. Più o meno era andata così.
Si spogliò lui, lento e sicuro nei suoi gesti. Poi, le prese la mano e se la portò sul petto. “Eccoti tuo marito” le disse. La cicatrice di quando era quasi morto sfalsava le simmetrie, però sottopelle il cuore gli batteva ancora forte.
“Potrei non esserne capace…”.
“No, questo mi sembra impossibile…”.
Le tolse lo spillone dai capelli, quello con la quale si era macchiata per sempre di sangue. I ricci corvini le scesero morbidi sulle spalle.
“Non me ne separo mai…”
“Ecco, è così che si fa l’amore…”.
Goffamente, lei fece scivolare lo scialle e il vestito da camera ai suoi piedi per mostrasi a lui, a suo marito. Era bellissima, di una purezza accecante, ma lui non conosceva abbastanza parole per dirglielo, perciò la baciò e basta.

I loro respiri affannati si unirono sul pianerottolo torvo sopra i tetti scuri e i comignoli fumanti del Prà del Castello di Gravedona. Solo la luna crescente a tre quarti avrebbe potuto raccontare cosa era successo fra di loro quella notte, la loro prima notte.

Rimasero a lungo aggrovigliati come capi dello stesso gomitolo incorniciati dagli archi dell’ogiva con la giacca in velluto di Gabriele che faceva loro da coperta. “Hai freddo?” gli domandò lui. “Potremmo andare a letto…” propose lei. D’un tratto la magia si spezzò. “Lena, non vorrei offenderti…” si scusò lui che pareva essersi risvegliato di scatto da un sonno profondo.

“Non voglio che tu stia male per me. È complicato, lo sai. Abbiamo capito che ci viene bene – benissimo direi – e, se lo desideri, possiamo continuare a fare come fanno marito e moglie. Ma non possiamo dormire nella stessa stanza. Non lo capirai ma è perché ti voglio bene”
“La sigaretta di prima. Lo so cosa c’è dentro. Riconosco le erbe al fiuto. Salvia, alloro, camomilla, melissa, alloro, finocchio e valeriana. Servono per calmarti e non dare di stomaco quando ti sembra che il diavolo ti stia strozzando. E ti servono per dormire, ne avresti davvero bisogno. Il geranio invece ti serve per…”. Si dava il caso che Maddalena era una comare e alle comari non si poteva nascondere nulla.
“Quindi saprai bene anche come non rimanere incinta, in caso…” si sincerò. Per lui era una condizione imprescindibile. Non avrebbe messo al mondo nessuno che non avrebbe avuto la garanzia di poter proteggere dal maligno intrinseco alla vita.
“Naturalmente” rispose con il senso dell’ovvio di una donna che, mettendo da parte l’istinto, considera la pratica della realtà. Era nata madre come tutte le altre e come tale proteggeva i suoi figli dall’ingiustizia anche se non sarebbero mai nati.
Raccolse i suoi vestiti per tornare nella sua stanza senza la premura d’indossarli.

“Lena! Ti aspetto, eh?”.
“Ogni notte?”.
“Non per forza di notte! Quando vuoi…”. Le disse insinuante. Gli sembrava come di essersi liberato di un peso, quello di ammettere che si stava innamorando di sua moglie. E che, infondo, non era una colpa.

Da quel momento Gabriele e Maddalena cominciarono ad essere sposati, seguendo la loro liturgia horarum e dilatando i minuti con respiri profondi quando li trascorrevano insieme. Rendendosi conto che, tutto sommato, l’unica cosa che l’Amore richiede è di dargli il suo tempo.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Ovviamente, capitolo del tutto diabolicamente inventato. Le proprietà curative delle piante sono più o meno veritiere but don’t try this at home (in pratica, è come se Gabriele prendesse la pastiglia della pressione, il Lexotan e un po’ di viagra tutti insieme). Prà di Castello a Gravedona al tramonto è una delle visioni più paradisiache dell’Alto Lario che io abbia mai visto. Io mi sono definitivamente innamorata di Gabriele scrivendo il capitolo 11 🥰

10*01 – Una la taia, una la fila, una la fa i capei de paia

*Midseason finale*

Si tratta di una ninnananna in dialetto valtellinese che mi cantava mia nonna materna quando ero piccola. Allude vagamente alle Parche, le quali filano e disfano il Tempo del destino umano – come (sinistro) augurio per i buoni sogni dei propri bambini. Nel titoletto, un verso dell’Orlando Furioso sullo stesso tema mitologico, dall’episodio in cui Astolfo scopre che la Luna è il mondo della follia e del rovescio.

Nessuno si sarebbe mai aspettato che gran parte della politica della Riviera si decidesse a Varenna, lì nella stüa della casa dei Bongioli. Lasciando che gli uomini si divertissero con i loro giochi di potere, la cosa pubblica la maneggiavano le donne, fragili, innocue quanto basta e abbastanza energiche per impastarla senza farla strappare.

Le donne sognavano molto e non stavano dalla parte di nessuno, perché alla guerra preferivano la pratica della vita. Erano le vittime disperate e azzittite a forza dei soprusi dei maschi, dei matrimoni imposti e degli stupri, erano nudi trofei esposti in piazza. Fuori, tra le vie della Riviera, si espandeva la faida come una macchia di pece, mentre loro rammendavano le brache dei loro mariti, padri e fratelli bisbigliando. La stanza, a sud dell’abitazione per sfruttare il calore e la luce in inverno, era completamente rivestita di cembro ed era stata costruita dal Bongiolo, il Buon Giovanni, l’antico avo di quel ramo dei Venini dediti alla falegnameria minuta. La stanza era alimentata dall’esterno da una pigna in ceramica, una stufa che si accendeva appunto con le pigne secche raccolte d’estate. Attorno ad essa vi era un banchetto dove le Comari si riunivano una volta alla settimana.

Dirimpetto alla maiolica decorata in stile moresco con un motivo che ricordava un groviglio di vipere, il blasone della famiglia, vi era un altarino con una statuina di Santa Margherita da Cortona, la patrona delle partorienti. Fuggita incinta con un uomo reticente alle promesse matrimoniali, per espiare il suo peccato, si mise ad aiutare i bisognosi, finché un giorno trovò il suo fidanzato morto ammazzato sotto una quercia. Sia la famiglia di lui, sia suo padre convinto dalla sua matrigna, non la accolsero nella casa natale. Perciò, prese i voti e, in estasi, ricevette il dono di poter scrutare i cuori, ossia la capacità di riappacificare le anime dal rancore. Insieme a una nobildonna avrebbe fondato un ospedale per assistere le partorienti, così come facevano le Comari con le donne della Riviera.

Maddalena sbirciava di tanto in tanto il simulacro sperando che Santa Margherita le spiegasse come dare una svolta al suo matrimonio. Suo padre l’aveva fatta sposare per non farla entrare in convento, ma la sua vita da moglie le pareva un castigo peggiore della clausura. Lei e Gabriele a stento si rivolgevano la parola e, se proprio capitavano uno di fronte all’altra, si salutavano con il garbo e l’educazione di due estranei che si rispettano. Le loro vite non si toccavano mai.

Quella mattina, Maddalena era scesa per prendere il loro batell personale attraccato alla riva sotto i giardini della loro abitazione e si era fatta portare a Varenna. Erano i giorni della merla del gennaio 1656.Le giornate erano miti, perciò l’inverno sarebbe durato ancora a lungo e la primavera sarebbe arrivata in ritardo.

Sul Lago la maggior parte degli spostamenti avveniva via acqua e si viaggiava seduti su una panca posta sotto un una vela rettangolare montata su tre cerchi di legno. I pescatori che remavano ai lati sfruttavano il vento a favore regolare, la breva da nord e il tivàn da sud. Il loro battello era stato un dono di nozze di suo suocero che sopra lo schienale, in caratteri rinascimentali, si era preoccupato di far incidere le loro iniziali GMMS. Le venne d’istinto il gesto di togliere con l’indice ben protetto da un guanto di pelle la rugiada che si era ghiacciata durante la notte nell’incavo della prima lettera.

Il Circolo della Brenta d’Oro era ubicato a Casa Venini, dietro la chiesa di San Giorgio, da quando i Brenta, famiglia comacina, si era unita in matrimonio con i Venini, famiglia varennese particolarmente legata agli Sfondrati.

Le donne Brenta erano state le cape delle Comari fin dalla notte dei tempi, assistendo durante i parti o interrompendoli, tramandandosi di generazione in generazione l’uso di erbe o formule magiche per non far morire le donne per il mistero dei misteri. Le donne devono sanguinare per dare la vita, si raccontava che ripetesse sempre la Comare, la donna Brenta che nel 1629 era stata il primo caso di peste a Varenna. Quel bubbone nero sul seno se l’era portata via nel giro di due giorni.

Le Comari, a dire il vero, non erano protette dal Signore: si ammalavano facilmente di dissenteria e spesso ne morivano. Questa era la loro punizione per non lasciare che il destino facesse il suo corso. Il dottor Serponti di Bellano, che chiamavano solo quando i parti si facevano più duri e diventava più questione di morte che di vita, ricordava loro di stare sempre attente quando preparavano i pentoloni di acqua bollente o le pezze di stoffa imbevute nella camomilla e nell’alloro per placare i dolori e, soprattutto, quando, con le mani unte di olio, entravano dentro il ventre delle partorienti e con l’unghia del mignolo, che portavano lunga e affilata, rompevano la membrana permettendo così al bambino di venire al mondo nel migliore dei modi. Con il decotto di erba brusca raccolta lungo il Fiumelatte, pulivano la mamma e il figlio recitando le formule per far defluire il sangue secondo natura. La gente portava alle Comari il massimo rispetto, riconoscenza e un certo timore. Qualcuno pensava che potessero allontanare anche il malocchio. Il Concilio di Trento aveva persino stabilito che, in caso di pericolo, potevano trovarsi nella necessità di amministrare il battesimo al posto del parroco.

Perciò, il medico veniva interpellato soltanto quando il bambino veniva fuori con la schiena al posto della testa, perché soltanto lui era in grado di compiere la manovra mettendogli le dita nella bocca per girarlo nel verso in cui potesse respirare e piangere, così come si viene al Mondo. Per il resto, se andare in battaglia era una cosa da uomini, il parto era una cosa da donne e solo loro ne avevano l’esperienza di sapere cosa si dovesse fare in caso. Il giorno che un uomo avesse avuto la fica al posto dell’uccello, per le donne sarebbe arrivata la pace, la Comare prediceva con sicurezza anche questo.

Elisabetta Brenta, la Comare Capa in carica, aveva sposato Michele Bongiolo e, grazie a lei, i suoi fratelli si erano potuti applicare alla gestione dei battelli in partenza da Varenna con i Venini; Michele l’aveva sposata anche se lei aveva undici anni di più, tanto che era influente come una matrona. Lui era morto due anni prima e lei ancora si vestiva di nero, benché per le malelingue era morto a causa di qualche erba infestante che lei sapeva trasformare in veleno. Insieme a lei, le altre Venini Bongiole comandavano e decidevano chi dovesse aiutare il parto di chi oppure chi poteva conoscere questo segreto del mestiere oppure no. Erano le figlie di Baldassarre, diventato giallo in viso per la cirrosi, Polissena e Giovanna, sempre livide per le cinghiate del padre ubriaco. Entrambe ricordavano, nei loro nomi, delle eroine sacrificate per propiziare il favore dei Cieli. Elisabetta, loro cugina, era meno influente perché, per quanto nubile esattamente come loro, aveva già una figlia in età da marito. Nel 1636, durante il passaggio delle truppe francesi, era rimasta incinta di Antilla, così battezzata perché il suo bel soldato chiacchierone al momento delle doglie già si trovava tra i Caribes nelle Americhe. Anche Giulia, l’altra cugina, non poteva essere considerata al loro pari perché era figlia di quello zio detto il Manera, l’ultimogenito dei Bongioli, dedito all’alcol, alle puttane e al gioco delle carte. Inoltre, Giulia non era ben vista perché Giuseppe, l’organista, le faceva una corte spietata anche se lei soldi per la dote non li aveva. Fra di loro non scorreva sempre buon sangue per via delle invidie, ma erano le Comari che contavano.

Poi venivano le altre: Maddalena Scotti, sorella di Francesco della Spartivento e moglie dello Zop, Carlo Venini; sua sorella Lucia, invece, aveva sposato il Matteazzo, fratello dello Zop.

C’erano anche le Venini del ramo dei Migazza, la famiglia di Lucia, l’unica che Gabriele avesse mai amato. Elisabetta Scotti, nipote delle suddette Maddalena e Lucia, aveva sposato Giorgio Venini, quello che aveva venduto la moglie al Diavolo. Elisabetta era appena diventata mamma e dirigeva gli affari delle balie. Le Comari si occupavano anche di quelle poveracce che in cambio di soldi allattavano i loro figli, i figli di buona famiglia. C’era anche la moglie dello Storno, il cui marito, sempre dei Migazza, era malvisto perché era un bastian contrario e odiava gli Sfondrati giusto per andar contro al buonsenso. Di fatto, aveva sposato Maddalena Campioni, inclusa nel gruppo più perché era una brava donna che per il suo cognome da nubile.

Maddalena Stampa era entrata a far parte della congrega per via di sua cugina Marta Sabbati, della quale le zie acquisite con il matrimonio erano Maddalena e Lucia Scotti. Marta aveva otto anni in più di Maddalena e stava quasi per partorire. Maddalena avrebbe dovuto assisterla al parto con la supervisione delle zie, in modo da apprendere l’arte e l’idea di vedere una testa che uscisse fuori dalla vagina di sua cugina non le faceva per niente piacere, anzi, le agitava i liquidi nella pancia.

I discorsi che si facevano a bassa voce tra le Comari erano spesso tra i più sboccati. In qualche modo, se in Osteria gli uomini si vantavano di prodezze, attorno alla stufa si sghignazzava del fatto che gli stessi non sapevano nemmeno com’era fatta una donna là sotto. “Per loro è facile, hanno solo quell’arnese che gli si irrigidisce tra le gambe. E poi non sanno nemmeno dove infilarlo”. C’era sempre qualcuna che si lamentava.”Te l’ho raccontato di quella che è venuta qui piangente perché non rimaneva incinta e invece quell’idiota di suo marito sbagliava soltanto entrata?” raccontava ogni volta Polissena come se fosse una cantilena.

“Beh, sicuramente tu Maddalena non avrai questi problemi” le disse Elisabetta Scotti tirando una gomitata alla cugina Marta. Entrambe risero. “Gabriele…”. Il nome di suo marito era sempre pronunciato tra i sospiri. La guardavano con stima perché lei aveva sposato uno che, alla fine, era il meno peggio. Era il migliore amico del dottore che le tirava sempre fuori dai guai – ossia delle accuse di omicidio o di aborto o di stregoneria. Era bellissimo. Era l’unico uomo che avesse mai trattato bene Lucia Venini, che dopo la morte era venerata alla pari di Santa Margherita, anche se da viva tutte la odiavano perché ne erano gelose. Gabriele non faceva promesse che non poteva mantenere e si prendeva solo ciò che era concesso.

“Come rimanere incinta già te lo avrà fatto vedere. Goditelo finché puoi che sicuramente tempo qualche giorno e ci dici che tu sarai la prossima!” disse la Comare Brenta. “Ci sarò io con te” disse sua cugina. “Anche io” rispose la Campioni, sicuramente innamorata di quel Gabriele che un tempo animava la Spartivento insieme a suo fratello. “Lucia diceva sempre che i panini dei Mezzera erano più grossi di quelli dei Migazza!” urlò Giovanna “Si capiva sempre quando era stata con lui prima de nostri incontri…” le andò dietro Polissena.

Chissà, pensava Maddalena, a lei sicuramente lo avrà insegnato cosa succede in un’alcova, anche se si dichiarava illibata. Gabriele guardava tutte tranne lei. Perché per lui non c’era differenza tra il prendere moglie e incassare una taglia.

Quando Gabriele era risorto grazie a suo padre era stato svelato l’arcano: le rose rosse che erano apparse in chiesa come letto per la bara di Lucia erano la sua ultima dichiarazione d’amore.

Ricominciò a lavorare a maglia. Stava facendo finta di realizzare una copertina di lana per i figli di Gabriele. Ogni volta disfaceva il lavoro così non sarebbe mai arrivata alla fine e nessun figlio avrebbe potuto essere coperto. Gabriele non era suo marito, era una guardia che aveva smesso anche di guardarla pur di non rimanere pietrificato.

Ma questo come poteva dirlo alle Comari? Infondo, sempre meglio essere invidiata da quelle che pensavano che lei lo avesse tolto dal mercato degli scapoli abbordabili. Gabriele, sulla carta, era suo.

Tornò a ripensare in silenzio alla lite della mattina con Gabriele. Lei odiava suo padre e lui lo serviva come un cagnolino piuttosto che essere un buon marito.

“Vorrei andare all’incontro con le Comari oggi. Posso continuare a frequentarle?”. Glielo stava chiedendo perché non sapeva bene come comportarsi dato che lui nella Riviera era un ricercato. Sicuramente, a lei non avrebbero torto un capello, già li aveva ricci perché era una Stampa.

“Non devi obbedirmi, devi essermi fedele”. Lei rise per la risposta che trovava fuori luogo. “Maddalena, non fare la puttana in giro!” aggiunse lui .”Altrimenti?” lo provocò. “Cosa vuoi sentirti dire? Che ti gonfio di botte?” perse la pazienza. “Così si aspetterebbe il tuo capo, Nicola Stampa…” non abbassò la lama. “Nicola Stampa, tuo padre, vorrebbe che io ti tenessi a bada in modo che tu non infangassi il vostro buon nome!” fece una breve pausa prima di continuare “E se succedesse? Infondo poco male, perché tu adesso sei Maddalena Mezzera“.

“E invece Gabriele Mezzera cosa si aspetta da me?” gli domandò con le braccia conserte.
“Poche rotture di coglioni?”. A Gabriele non andava più di scherzare.
“Scopati chi vuoi a me non me ne frega!” concluse lei.
“Eh, vorrei crederci… Io mica rimango incinta! Ricordati bene che io i tuoi bastardi non li cresco!” ribadì lui. “Ah tutto qui? E i tuoi?” chiese lei sempre più indispettita.”Per questo io prediligo donne sposate!”.
Maddalena se ne andò sbattendo la porta.

Poco dopo pranzo, praticamente a digiuno tanto che la sua inquietudine metteva il suo stomaco in subbuglio, Maddalena tornò a casa risalendo senza fretta tra i cespugli sempreverdi. Vicino alla serra, l’accolse il piccolo figlio dello stalliere, come un piccolo damerino. “Salve Signola Mezzela”. A lei addolciva sempre il suo modo bambino di voler parlare da adulto. Lei si inchinò pomposa per fargli piacere. “Che nascondi dietro alla schiena?” gli chiese curiosa.

“Un legalo” rispose lui in vena di marachelle.
“Ah, un regalo” si mostrò sorpresa e lui annuì. “E per chi?”. Lui allungò il ditino paffuto verso di lei.

“Per me?” chiese e si toccò lo sterno con la mano. “Sì!” disse il piccolo sgranando gli occhi porgendole una rosa. “E chi me lo manda?”. “Il Signol Gabli… Gabliele”. Gabriele non si faceva mai chiamare per cognome dalla servitù. “Ha detto anche di dile: scuuusa Maddaleeena“. Che razza di stupido, doveva fare tutta quella meravigliosa messa in scena? “E ora dov’è Gabriele?” “Boooh” rispose il bambino e poi corse via lasciando Maddalena con il suo fiore in mano ma certa che, essendo ancora viva, tutto poteva ancora succedere. Doveva solo fargli capire che non aveva bisogno di un uomo che la proteggesse, ma di un uomo che l’amasse.

Din don campanon (Din don fa la campana = segna il tempo) / Quatru dunzèli sul balcun (Quattro
ragazze sul balcone) / Una la taia (Una taglia) / Una la fila (Una fila) / Una la fa i capei de paja/
(Una fa i cappelli di paglia = estate) / Una la ciama San Martin (Una chiama San Martino =
inverno) / Da purtach un pegurin (per portargli un agnello)/ Un pegurin con su la lana (un agnello
coperto di lana) / La macana la fa la nana (la bimba fa la nanna)

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
La descrizione della stüa, locale tipico delle case alpine, è fedele. La storia di Santa Margherita è tratta dalle sue agiografie. Il batell è il nome dialettale della cosiddetta lucia, tipica imbarcazione lariana. Le Comari della famiglia Brenta erano a capo di un gruppo di levatrici veramente esistito e così composto, ma che non avevano un circolo precostituito (l’episodio della Comare morta di peste è vero). Il nome la Brenta d’Oro l’ho inventato ispirandomi al gentilizio dei Brenta. Gli uomini Brenta, grazie ai matrimoni, si occupavano di battelli a Varenna insieme ai Venini Bongioli. Maddalena, di fatto, non ne faceva parte, a differenza di sua cugina Marta. Antilla (Venini), la figlia non riconosciuta del soldato francese, e Giuseppe (Repellino), il fidanzato organista di Giulia (Venini), sono realmente esistiti. Gabriele Mezzera e Giorgio Serponti non avevano nulla a che fare con le Comari.

9*01 – Tanta papa, poca pipa, niente Pèpa

È un detto del Lago di Como. In pratica, si tratta di una ricetta per vivere a lungo: mangiar bene, fumare poco e stare lontano dalle donne cattive. La Pèpa in Lombardia è la donna di picche, nel gioco delle carte. In italiano, è più celebre il proverbio che mette in lista i peggiori peccati che puoi commettere se vuoi farla finita in breve tempo.

I tre corpi principali del palazzo degli Stampa abbracciavano una corte porticata, chiusa all’estremità dal padiglione adibito a serra vicino alle scuderie e, più avanti, dal giardino terrazzato in discesa sempre più ripida fino al lago, addolcita di poco dallo scalone in pietra scura tra i cespugli di bosso. Nel corpo verso ovest, quello più piccolo, risiedevano Maddalena e Gabriele; in quello ad est, invece, Nicola e Drusiana con i loro rispettivi coniugi. L’ala ad ovest aveva anche un piccolo balcone con volte a ogiva che si affacciava sulla piazza angusta verso montagna. Nella parte centrale, raccordata ai due corpi da una loggia a serliana, avevano sede le stanze di rappresentanza, come il salone d’onore e la stanza rivestita di legno, dove Nicola scrocchiava le dita dopo avere espresso le sue decisioni imprescindibili. La corte del palazzo, sotto la balconata, aveva un corridoio con al centro affresco rinascimentale che invocava Maria, San Rocco e San Sebastiano affinché curassero miracolosamente le piaghe della peste. Al piano terra, infine, risiedeva la servitù accanto ai locali di servizio, come le cucine e le lavanderie. Tutta la casa aveva soffitti in legno, pavimenti in cotto lombardo e scale in pietra di Moltrasio.

Chiuso nelle vecchie mura del castello di Gravedona, il palazzo non era lontano da Prà Castello, il belvedere sul Lago che fungeva da piazzetta delle adunanze, immerso e irto nell’atmosfera anzitempo che l’insieme di abitazioni addossate, scalottole e vicoli scoscesi donavano a quel quartiere nobile che sovrastava le coste ghiaiose che davano il nome al borgo.

Nella sua toeletta affacciata verso l’aranciera adorna di vasi di melograni e ciclamini, Maddalena si stava facendo pettinare dalla sua serva Elvira, mentre puntellava sulla ribalta del mobile con lo spillone che le aveva regalato sua nonna al suo quindicesimo compleanno. Dallo specchio, osservava compita la paura riflessa che ancora Elvira nutriva nei suoi confronti. Suo padre le aveva insegnato che la troppa confidenza faceva perdere la riverenza. Non ne avevano più parlato dell’accaduto e non aveva fatto accenno a chiedere scusa. Elvira, del resto non poteva lamentarsi nemmeno se lo avesse desiderato.

“Ahia, fai piano!”. Elvira, troppo energica con la spazzola per togliere un nodo, non si sa se apposta o per vendetta, le aveva tirato i capelli. Si scostò un attimo con un certo timore. Oltre al fatto che da quella bisbetica non sapeva più cosa aspettarsi, adesso era anche la moglie di un assassino. Non andò avanti con il suo lavoro, se non quando Maddalena le fece un gesto con la mano.

L’aiutò anche ad indossare la camicia da notte in lino, quella semplice ma leggera della prima notte di nozze, e le spruzzò qualche goccia di acqua di Neroli, un olio di fiori d’arancio amaro portato di moda sul lago dalla Duchessa Cybo. Le avrebbe voluto dire che aveva una bellezza antica e lontana, mediterranea tra le Alpi, e che il marito ne sarebbe rimasto soddisfatto. Invece, poteva solo limitarsi a guardarla rapita.

Cosa mi guardi così imbambolata? Forza, ora lasciami andare a letto!”. Elvira non dormiva con la schiavitù al piano terra, ma in uno stanzino attiguo a quello di Maddalena. “Ora vorrei dormire!”. Maddalena non si sarebbe recata nell’alcova, dove si coricava Gabriele. Elvira la guardò sbalordita.

“Lo abbiamo dovuto fare per colpa tua. Io sarei stata chiusa in convento e lui in una bara, in caso contrario, perciò…”. Lasciò a mezz’aria le sue perifrastiche.

Elvira voleva fare finta di non aver capito. Scosse la testa, perché di più non poteva fare.

“Avanti, Elvira. Tu sei del popolo e in certe cose sei più scaltra di me. Io non sono brutta ma lui è già un uomo fatto. Inoltre, sappiamo bene quali sono i suoi gusti. Quella stronza di zia Drusiana?! E poi quella Lucia Venini… Preferisce le pazze alle vergini!” le disse a un palmo della faccia, come se fosse sorda e non muta. “Di te, Elvira, ha avuto pietà cristiana. Dovevi vederlo quella notte con quanta premura si è sincerato che tu rimanessi viva. Mi guardava come se mi volesse scannare…”.

Si voltò verso il letto e si sedette sopra senza curarsi di essere aggraziata. “Ci andrai tu!” le disse. Quando dava ordini era tale e quale a suo padre. “Non così, vestita da sguattera…”. In realtà, Elvira indossava dei vestiti come i suoi, soltanto più semplici. “Spogliati!” le ordinò. Anche quando era rimasta in sottana non fu soddisfatta. “Tutta!” aggiunse prima di spingerla fuori dalla sua stanza nel corridoio freddo e buio che portava alla porta della stanza di Gabriele, la stanza degli sposi.

***

Dove si trova “Ser Mezzera?”. Il sole era già alto quando Maddalena si era svegliata dal suo sonno di ristoro e aveva scoperto cos’era successo la notte prima. Indossando soltanto la vestaglia azzurra con l’inserto a passanastro della dote che le aveva preparato sua madre, percorse correndo e a piedi scalzi i gradini freddi di pietra rustica che portavano al piano terra, verso il cortile.

“Intende suo marito, signora Mezzera?!” le chiese lo stalliere non riuscendo a capacitarsi di una moglie che non trova il marito dopo la prima notte di nozze. “Mio padre non ti ha forse detto di chiamarmi Signorina Stampa?” gli ricordò i vecchi usi. “Certo, Vossignoria” rispose il giovane servo non del tutto sicuro di avere capito le strane regole di quella famiglia. Era stato assunto per sellare i cavalli di Gabriele Mezzera e di sua moglie, in effetti.

Maddalena aveva un diavolo per i capelli quando, finalmente, dopo averlo cercato in tutte le stanze, lo trovò nelle cucine intento a giocare con i figli piccoli delle cuoche. I suoi capelli spettinati ed arruffati rappresentavano perfettamente il suo stato d’animo.

“Fai colazione con la servitù?” le chiese come se lo avesse sorpreso a uccidere.

“Buongiorno anche a te, mia cara moglie. Hai dormito bene?”. Gabriele non la vedeva da quando erano usciti dalla chiesa. Non aveva partecipato nemmeno al banchetto e aveva accolto con sollievo il fatto che suo suocero l’avesse mandato a minacciare di morte un contadino che non voleva stare ai patti per la vendita dei suoi vitelli. O delle sue pecore, non si ricordava nemmeno più.

“Forse non lo sai, ma in questa casa gli Stampa fanno colazione di sopra, nella sala da pranzo!” gli disse Maddalena, non con poca arroganza.

“Io non faccio Stampa di cognome. E anche tu, non te lo ricordi?” le rispose lui, senza perdere la calma. “Mi prendi in giro?” lei la calma l’aveva già persa. “No, affatto: ieri ci siamo sposati. Guardati, al dito hai un anello!” concluse lui continuando a sorseggiare il suo caffellatte senza fretta.

“Uscite tutte!” ordinò Maddalena indiavolata alle cameriere. “Elvira ha la febbre. Chi mi pettina oggi?” domandò retorica.

“Hai la casa piena di servi, Maddalena…” non riuscì a vedere il problema.
“L’hai lasciata nel corridoio a morire di freddo!” lo incolpò.
“Te ne dovresti occupare tu di fornire alla tua serva l’abbigliamento adeguato per sopravvivere alle notti di gennaio!” ironizzò.
“Ma che insolente! Io ti offro la mia serva e tu la rifiuti?” non colse la battuta.
“Pensavo che tua zia Drusiana ti avesse insegnato come funziona il matrimonio…” le disse quasi sbuffando. In realtà, era molto divertito dalla petulanza di Maddalena.
“Perché non hai sposato lei, allora?” le chiese sempre più stizzita.
“Sei gelosa?” la provocò. Maddalena diventò rossa in viso e, di scatto, afferrò un coltello, uno di quelli con il quale si disossa il pollo. Lo era, ovviamente.
“Posalo, ragazzina. Ché ti fai male!” le consigliò Gabriele ridendo di lei.
Maddalena lasciò cadere la lama nel lavabo e fece per uscire. Lui la prese per un braccio.
“Per chi cazzo mi hai preso? La tua serva? Davvero? Potevo prenderti con la forza, tanto sei mia moglie e non l’ho fatto. Se l’avessi desiderato avresti potuto venire tu, ma non saresti stata costretta…”

Maddalena arricciò le labbra, stava per piangere. “Pensavo avessi gradito” disse sottovoce guardandosi la punta dei piedi. “Maddalena, io ho sposato te e forse tu non hai capito ancora nulla di me”. Lei scosse la testa. E come avrebbe potuto? Suo padre gli aveva fatto sposare uno dei suoi scagnozzi. “Che pensavi? Che avresti sposato un eroe che ti avrebbe trattato come una principessa? Lo sai come mi guadagno da vivere io? Non c’è da vantarsi ad avere come marito uno che cerca di essere l’ultimo che muore in una stanza di criminali. Non ti è andata bene e l’unica cosa che posso fare è dirti di starmi alla larga. Io mi impegnerò a proteggerti, te lo giuro!” le spiegò, un po’ come quando gli adulti spiegano ai bambini che non si devono fare i capricci.

“Come facevamo prima?” gli chiese Maddalena, finalmente guardandolo negli occhi. Non erano né verdi, né azzurri, né grigi – avevano una cromia a sé stante. “Sì, come prima!” rispose lui, cercando di calmarsi. Si ripeteva sempre che non doveva spaventarla.

Per quanto Nicola Stampa si fosse distinto come abile venditore e avesse creato il suo piccolo impero della carne, suo padre Gianantonio era stato pretore della Valsassina. L’altra giurisdizione, oltre la Rivera, dove comandavano i duchi Sfondrati. Eppure, un gravedonese che si rispetti non poteva sostenere il potere imposto. Perciò, il magistrato non ebbe paura di appoggiare la concorrenza, i Serponti, quando ci fu da decidere se i Carganico, accusati di avere ucciso Giorgio Venini, fossero davvero colpevoli. A lui era ben chiaro che era stato il vecchio Duca a pagarli per motivi del tutto arbitrari, ma in quel sistema corrotto era più logico decidere di scarcerarli e prendere una buona uscita per non rivelare il segreto dietro a quell’uccisione. Con quei soldi, suo figlio era diventato il Bechèr di Gravedona e lui era morto sereno nel suo letto.

Gravedona era la capitale delle Tre Pievi, una contea indipendente sin da quando Barbarossa firmò la resa a Costanza dicendo di aver perdonato tutti tranne i perfidi Gravedonesi per la sua sconfitta. Oltre a Gravedona, le altre due pievi erano Dongo e Sorico, entrambe sullo stesso lato del Lario, unite a Colico – in cima al lago a cerniera con la Valtellina – che, per sua volontà, ne adottò gli Statuti. Le Tre Pievi non dovevano fare fede ai Duchi della Riviera ma solo alla Spagna milanese. Ecco perché lì Gabriele era al sicuro. La Spagna era miope, non riusciva a vedere da Milano fino a Como, perciò gli Sfondrati avrebbero dovuto gabbarlo nei loro territori, se lo avessero voluto mettere alla berlina.

Ma, più che Barbarossa, era stato un altro manigoldo, il Medeghino, a rendere Gravedona irredenta, insieme a nessuno e mai in pace. Gravedona non avrebbe mai accettato il dominio straniero, anzi, era il dominio straniero a dover accettarla indomita tra i suoi territori.

Durante le guerre, anzi, le scaramucce avvenute tra il 1525 e il 1532, il Medeghino aveva occupato il Castello di Musso in maniere poco chiare, forse uccidendo qualcuno per conto del Duca di Milano, che era già in Guerra contro le Tre Leghe e con la Valtellina, terre amiche dei francesi e poco amiche tra vicini di casa. Inizialmente, difendendo gli Sforza, per quanto ferito al pene e svilito nella sua mascolinità, stracciò la concorrenza a Dubino, nella Bassa Valtellina, tant’è che gli ambasciatori delle Tre Leghe si recarono a Milano per firmare la pace. Al loro ritorno via lago, il Medeghino li sequestrò a Musso tradendo gli Sforza e cercando potere per sé. Desiderò talmente tanto l’indipendenza da accusare Milano di congiurare alle sue spalle e dichiarandosi un crociato in Valtellina per scacciare i protestanti svizzeri. Dopo la carneficina a Morbegno del 23 marzo, si firmò la pace. Le Tre Leghe persero le Tre Pievi, diventate parte del Ducato di Milano, mantenendo la Valtellina. Il Medeghino, invece, si trasferì in Piemonte dove diventò un brillante mercenario internazionale.

Maddalena era una che causava spesso liti, ma durante la guerra rimaneva zitta e incassava. Lasciava che il nemico parlasse da solo e inciampasse nelle sue debolezze. In lei, nel suo sangue, scorreva l’anima delle Tre Pievi. Da una parte l’antico retaggio della Val Bregaglia da dove proveniva la sua famiglia paterna, accusata di tradimento dal Barbarossa. Dall’altra lo spirito spietato e sanguinario di quel condottiero che aveva cambiato le sorti delle sue terre, inglobate dalla corona spagnola. Maddalena si ribellava soltanto a un mondo che la insultava e che le faceva promesse senza mantenerle. Gabriele gli era sempre sembrato diverso. Certo, un perverso. Ma sadico anche nel dire la verità, per il piacere che l’altro la conoscesse. Lui uccideva, ma mai pugnalando alle spalle. Gabriele, in questo, era onesto. Era certa che, anche se lui non lo volesse – e nemmeno lei, del resto – avrebbe dato garanzia ai voti che aveva fatto dinnanzi all’Eterno, nella buona e nella cattiva sorte. Si guardò ancora la fede all’anulare – nuova, ancora brillante e senza graffi – e, come una carezza a mani nude sulle sue spine, gli chiese “Ti manca la Riviera, vero?”. Lui non rispose alla sua domanda ma le disse “Io il tuo spillone te l’ho restituito!” e poi la lasciò lì, in sospeso, nell’umidità impregnante dei piani inferiori a lei sconosciuti. Non aveva mai sentito i piedi così radicati al suolo.

Una cameriera molto giovane, poco più di una bambina, entrò timida e le domandò se avesse bisogno di qualcosa. “No, non ho più fame…” rispose. “Però, aspetta!” la fermò “Potresti venire su nella mia stanza per pettinarmi, sai stamattina la mia serva personale è indisposta…”.

“Certo, signorina Stampa. Le porto anche qualcosa per colazione, sa non fa bene saltare i pasti adesso che si è sposata…” rispose fin troppo entusiasta per il compito che le era stato assegnato. Di certo, meglio sciogliere i nodi a una pazza piuttosto che spalare il pollino per concimare l’orto, magari, prima o poi, anche ser Mezzera – quanto era affascinante – le avrebbe rivolto la parola. “Si corregga!”. La servitù era così, non lo lasciava intendere, ma riusciva ad ascoltare anche attraverso i muri. “Oh, mi perdoni, forse non dovevo farmi gli affari suoi…” si scusò “Volevo solo ricordarle che sono la signora Mezzera! Ci vediamo tra un attimo, allora?!”. La serva si inchinò e, finalmente, anche Maddalena lasciò la stanza. Le erano stati necessari due giorni per rendersi definitivamente conto che si era sposata.

Miss Raincoat
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Quelli tra palco e realtà
La digressione storica su Gravedona e sul Medeghino (Gian Giacomo Medici) sono cronaca. Il padre di Nicola Stampa, Giovanni Antonio, era il Pretore della Valsassina (anche la Valsassina, insieme alla Riviera, era una giurisdizione degli Sfondrati) al momento del processo dei Carganico. Non si sa quale ruolo abbia avuto nella vicenda, ma immaginiamo che la corruzione e le congiure fossero all’ordine del giorno in quel contesto. Casa Stampa si ispira al Bed&Breakfast “Al Castello” di Gravedona e al Municipio, sito in Via Volta vicino al Belvedere di Prà Castello. A Gravedona, lungo il lago, esiste anche Viale Stampa, memore di una delle famiglie più importanti e antiche del borgo.

“Sharing the News” di Eugenio Von Blaas

Il titolo di quest’opera è quantomeno intraducibile, potrebbe suonare come “Condividendo le novità”, ma se si guarda meglio si capisce a cosa mi riferisco…

1904 – olio su tavola – 110*83 cm

L’Eugenio nasce vicino a Roma nel 1843, in un periodo in cui l’Italia non esisteva ed era ancora cementata con l’Austria. Il cognome forestiero lo si deve a suo padre Karl, pittore tirolese in trasferta nella Capitale, laddove trovò anche moglie. Da questa commistione genetica ne venne fuori un giovanotto barbuto con gli occhi azzurri. Anche lui sceglie l’Italia come casa, in particolare Venezia, dove insegnava all’Accademia di Belle Arti e dove si estinse all’età di ottantotto estati.

A livello artistico, possiamo inserire la sua opera nel fortunato filone dell’Art Pompier, dunque, quell’arte “da bomboniera” di fine Ottocento, che trova il suo maggiore interprete in Bouguereau. Certo, probabilmente il nostro Von Blaas è meno retorico e non si accontenta di vergini, sante o dee svestite. Si potrebbe dire che il nostro amico dipinga scene di genere, il colore dello scorrere della vita nei calli veneziani (Pino Daniele l’aveva cantato descrivendo la sua Napoli), l’anima, la sfera intima e i segreti, sicuramente in maniera prosaica, come andava di moda in quei tempi. Mi piace perché è molto narrativo, ci racconta le favole di donne curiose, talvolta pettegole, sognanti e ingenue e per questo delicate come fiori e proibite, in particolare, come la digitale purpurea.

Inoltre, l’artista era molto credente. Di fatto, suo padre Karl era un pittore di cultura nazarena, per la quale l’Arte era portavoce della purezza religiosa. Eugenio stimava molto le suore e le credeva creature di Dio, al pare del mare e degli uccelli. Questo dipinto, a livello compositivo, mi fa pensare alla versione profana dell’Annunciazione.

Sulla scena molto armonica troviamo due donne vestite in colori complementari e speculari. Un’amica sta leggendo all’altra una lettera d’amore, rivolta spudoratamente verso lo spettatore che si incuriosisce.

L’iconografia di questo dipinto è doppia. C’è quella più semplice che parla delle due facce del matrimonio perfetto, sesso sfrenato e fedeltà esagerata. C’è quella complessa che parla di amor di patria. Eugenio è combattuto tra l’amore per l’Italia (ragazza mora) e l’Austria (ragazza bionda). Le loro stesse cromie di vestizione contrappongono il tricolore alla bandiera austroungarica, anche in chiave di sottomissione – perché è l’Italia a fare da serva e a lavare le mutande all’Austria. Si potrebbe dire che Von Blaas sia un Hayez al contrario (vi ricordate la “Meditazione”?).

Nonostante ciò la figura della lavandaia sembra anche una donna umile intenta a lavare via lo sporco dalla biancheria dei ricchi, è una che si tiene i suoi segreti per sé ma sa benissimo quelli degli altri. Se guardiamo bene, un panno a terra è rosso. Quel sangue è il simbolo di una verginità perduta? La donna con i capelli rossi, invece, è la bugiarda – quindi, la poco di buono.

Dietro a un muro, si sta parlando di segreti. Sul davanzale l’edera sta seccando prima di essere cresciuta rigogliosa. L’innocenza è svanita troppo in fretta in questo vicolo. In un idea molto maschilista, ma del suo tempo, il pittore avrebbe voluto che la donna perfetta incarnasse l’ideale di verginità e disinibizione al contempo.

Nel suo interesse verso le donne straniere mi ricorda molto Paul Gauguin, in questo tema è molto vicino al suo “Come! Sei Gelosa?”: anche in quel dipinto due donne sono divise da un ricordo amoroso…

Qui c’è anche la prova tangibile di una lettera d’amore. Non sappiamo cosa c’è scritto. Non sappiamo chi l’ha scritta.

Volete sapere chi è il mittente? Herr Eugenio Von Blaas.

Lui era sposato con una donna facoltosa veneziana, la contessa Paola Prina e credeva molto nel matrimonio. Però le italiane erano così mediterranee, non importa se more o bionde, lui ci inciampava sempre… La ragazza mora è timida, ha una relazione con lui ma non l’ha raccontato a nessuno. Le sorride umile mentre le lava via il peccato dalle mutandine. La ragazza rossa, sghignazzando della sua svergogna, le legge la lettera d’amore inconsapevole che condividono lo stesso uomo, che però non ama nessuna delle due.

La seconda traduzione per il titolo, forse la più giusta, sarebbe “Condividendo il Nuovo”, ossia lo Straniero. Come descrivere questo individuo dotato di pennello se non intonandogli “Pezzo di Me” di Levante?

“Le Ragazze fanno Grandi Sogni” – E. Bennato

Le ragazze fanno grandi sogni forse peccano di ingenuità ma l’audacia le riscatta sempre non le fa crollare mai / Le ragazze sono come fiori profumati di fragilità ma in amore sono come querce/
E qui dall’altra parte/ E qui dall’altra parte siamo noi incerti ed affannati siamo noi violenti ed impacciati siamo noi che non ne veniamo mai a capo, mai a capo/ Noi sicuri e controllati siamo noi convinti e indaffarati siamo noi che non ne veniamo mai a capo, mai a capo.

Miss Raincoat

Valtella in Love

Valtellina, terra di confine. Il mio valico preferito è il Giogo di Santa Maria (in romancio Pass da Umbrail), posto a 2500 metri d’altitudine tra Grigioni (sopra la località di Santa Maria in Val Monastero) e la Val Fraele, in Alta Valtellina, verso Bormio. Oggi è un passo quasi prettamente turistico, chiuso d’inverno, usato come un accesso secondario allo Stelvio, ma che rimane altamente panoramico. Un tempo, serviva come crocevia commerciale. Le bestie da tiro, appunto con i gioghi, affrontavano la durissima strada per trasportare sale, grano e vino.

Bianca Maria Sforza e Massimiliano d’Asburgo

Bianca Maria, ventenne, era figlia di Galeazzo, ucciso da avversari politici siccome, probabilmente, tanto simpatico non era. Nemmeno suo fratello, Ludovico detto il Moro, era da meno. Di fatto, dimenticandosi di avere particolari scrupoli, promise in sposa la nipote orfana a vari rampolli presenti sulla Penisola finché non ebbe la botta di fortuna per saldare l’alleanza con gli Asburgo d’Austria.

Fu un matrimonio prestigioso quanto infelice.

Massimiliano, al momento del fidanzamento, aveva trentaquattro anni ed era vedovo da una decina di anni. La prima moglie, da lui amatissima e mai dimenticata, era morta accidentalmente cadendo da cavallo durante una parata di caccia. Bianca Maria era molto più bella, bionda con la pelle diafana, però non giudiziosa come Maria di Borgogna, la buon’anima. Eppure, si decise a sposarla perché gli metteva in mano l’Italia Settentrionale, dominio degli Sforza di Milano.

Bianca Maria sposò Massimiliano a Milano, per procura, nel luglio 1493. Fu l’evento più fastoso della Lombardia sforzesca. Durante i primi giorni del rigidissimo dicembre dello stesso anno, da Milano partì il corteo nuziale che avrebbe accompagnato la moglie a casa del marito, ossia ad Innsbruck in Austria, passando da Como, Bellagio, Morbegno e Bormio. Il motivo per il quale si affrontò il viaggio al freddo è perché zio Ludovico si era preso un po’ di tempo in più per racimolare la dote, trasportata da ben ventiquattro mule. In realtà, questa non fu che una prima piccola rata dell’esosa somma del “prezzo dello sposo”. Il resto, fu chiesto ai sudditi tramite tasse. Chiaramente, anche la Valtellina faceva parte di questi contribuenti e, inoltre, fu proprio la Valtellina a dover pagare strade, insegne, ponti e tutto il necessario per una buona accoglienza del corteo. Gli sposi si incontrarono la prima volta sulla salita verso il Giogo di Santa Maria, dove Bianca Maria fu accompagnata da una folla di bormini festanti verso il suo destino.

Probabilmente, tra il seguito del corteo c’era anche Leonardo Da Vinci, al servizio del Moro, che descrisse i Bagni di Bormio con le terme antichissime, gli ermellini (e il loro selvaticume) e le montagne valtellinesi (terribili e sempre piene di neve). Il nostro paesaggio, probabilmente, lo lasciò attonito e quasi impaurito.

Bianca Maria visse lontana da casa in terra straniera e all’ombra della prima moglie. Massimiliano la escluse completamente dalla vita politica perché non la considerava all’altezza. Soffriva e, pian piano, il disagio si trasformò in malattia mentale. Preferì spostarsi qua e là per i castelli tirolesi piuttosto che stabilirsi a Innsbruck al fianco del marito, anche se era sempre sorvegliata da amici fidati di suo zio Ludovico. La sua insofferenza la portò a soffrire di anoressia nervosa. Infatti, non riuscì a mettere al mondo figli, sebbene adottò quelli di suo zio quando venne incarcerato dai francesi. Morì praticamente consumata il giorno di San Silvestro del 1510, aveva 38 anni.

*Machine Gun Kelly*

I don’t do fake love / But I’ll take some from you tonight/ I know I’ve got to / But I might just miss the flight/ I can’t stay forever / Let’s play pretend / And treat this night like it’ll happen again / You’ll be my bloody Valentine tonight”

Miss Raincoat

“Sacra Famiglia” di Giovanni Gavazzeni

Un altro dei miei angoli preferiti a Morbegno

Considerando che la Bottega Ciapponi alla quale appartiene il dipinto nasce nel 1883 e che Giovanni Gavazzeni stava affrescando La Madonnetta di Morbegno nel 1875, il dipinto può essere collocato cronologicamente tra queste due date.

Giovanni Gavazzeni, pittore talamonese formatosi nell’ambito neoclassico dell’Accademia “Carrara” di Bergamo, era apprezzato in Valle perché il suo gusto elegante non era mai troppo monumentale. Io l’ho sempre amato per via della sua ricerca quasi scientifica sulle cromie ancora naturali, quando pressoché tutti gli artisti preferivano già la comodità dei colori in tubetto. Il suo blu “alpino” mi lascia sempre senza parole!!!

Il dipinto si trova in Piazza Tre Novembre (già Trivio del Mercato) – avete capito bene, 3/11/1918 per ricordare con puntualità la firma dell’Armistizio della Grande Guerra. Io definisco questo affresco “Sacra Famiglia di Casa Ciapponi”: per via dell’ambientazione in un talamo, la stanza più intima di una casa, potrebbe essere stato un dono di nozze. Auguri e figli maschi!

Ma soffermiamoci a notare qualche particolare…
  • La Madonna porta in volto il ritratto della moglie Rosa Piròla di Ardenno; lei e Giovanni non hanno potuto avere figli, ai tempi un’onta oltre che dispiacere. Avevano adottato i nipoti orfani e morirono durante la Guerra della quale la piazza è memore. Il pittore, per contro, si ritrae sempre come un San Giuseppe.

  • L’atmosfera calma è data dai toni blu. Pochi accenti di rosso parlano di un amore vivo, da non sprecare.

  • In una tipica camera da letto ottocentesca, ci facciamo guardoni di un clima intimo e complice:  un matrimonio d’amore che l’artista aveva sperimentato.

  • La pesca che ha in mano Gesù è l’unico simbolo di immortalità nella composizione che sembra quella di una famiglia qualunque, con sentimenti umani e non divini.

❤ Miss Raincoat

 

Un Matrimonio a Siena

No, non è il mio. Però è stata una buona occasione per comprarsi un vestito nuovo, scarpe abbinate e un biglietto (così per dire, perché ci sono andata in macchina con l’altro testimone!!!) e per fare finta di essere una di quelle turiste inglesi  romanzate da Forster in “A Room with a view” oppure in “A Passage to India”, che adoro!

L’idea di partenza era quella di arrivare a Siena in treno, poi io e M. abbiamo optato per la sua guida sportiva (“ma tanto l’autostrada è dritta”, ho pensato) per un paio di semplici ragioni, una su tutte il fatto che, comunque, la FrecciaRossa ci avrebbe portati solo fino a Firenze; non abitando nemmeno a Milano City, quindi, avremmo dovuto spendere gran parte del weekend-lungo su e giù per i binari. 

Per controllare costi e percorso autostradale qui

Il Matrimonio è stato celebrato (sia il rito civile, sia il pranzo) nell’Abbazia di Spineto, in una località fuori Siena (Sarteano, a un’oretta di macchina. Io ci sono andata in Cinquecento con il nonno dello sposo e mi sono innamorata!). E’ una location che, da quelle parti sta andando molto di moda, perché è immersa nella natura e mette un po’ d’accordo tutta la famiglia.

Abbazia di Spineto

Io e M. (che è un Archeologo, così non ho dovuto nemmeno lavorare aggratis) abbiamo preferito, comunque, prenderci una stanza a Siena.

L’hotel che abbiamo scelto è il Duomo, vicino appunto al Duomo (che dalla mia camera si vedeva, da quella di M., invece, c’era una vista spettacolare sulle colline senesi). Lo stesso edificio della struttura ricettiva è stata una dimora nobiliare dal ‘200 al ‘700. Dato che negli orari di pasto non eravamo mai nello stesso posto, abbiamo preferito un trattamento b&b (colazione continentale inclusa). In effetti, ci interessavano molto la posizione ed il parcheggio (a pagamento).

Hotel Duomo

Il giorno dopo il matrimonio abbiamo deciso di visitare Siena (mai vista abbastanza!). Da via Stalloreggi abbiamo percorso Via della Città e, in 5 minuti a piedi, ci siamo trovati di lato a Piazza del Campo, la celebre location del Palio (2 luglio e 16 agosto). In questo spazio si incontrano, uno accanto all’altro, il Palazzo Comunale (con i merli guelfi), la Torre del Mangia (alta 102 metri, appartenuta a un certo Giovanni che amava la buona cucina), la Cappella di Piazza (tabernacolo ex voto per la peste nera, ai piedi della Torre) e la Fonte Gaia (prima fonte pubblica cittadina).

Distante altri 5 minuti a piedi, si trova la Piazza Duomo. Con il biglietto OPA SI PASS ALL INCLUSIVE (13€) si possono visitare il Duomo, il Battistero, la Cripta, la Terrazza sulla Facciata, la Libreria Piccolomini e il Museo dell’Opera. Io ne ho approfittato, ovviamente, per la Terrazza e per la vista dall’alto.

Per informazioni e acquisto biglietti qui

Se si volesse fare una gita partendo da Siena, la scelta ricadrebbe o su Volterra (Piazza dei Priori e Piazza Duomo) a 54 km o a San Gimignano (Piazza Duomo, Palazzo della Cisterna  e Chiesa S. Agostino) a 47 km. Io e M. le avevamo già viste entrambe, ma ci siamo fatti ingolosire dal fatto che non avevamo mai visitato il Museo della Tortura e della Pena di Morte di San Gimignano (10€ ), che dopo un matrimonio ci sta, e abbiamo rivisto volentieri il borgo con tutti i suoi monumenti . Per quanto riguarda il parcheggio:  (2 €/h) Giubileo, Montemaggio o Bagnaia

Museo Tortura San Gimignano

Si possono perdere ore preziose a contemplare futilità del genere, e al viaggiatore giunto in Italia per studiare i valori tattili di Giotto, o la corruzione del papato, può capitare di tornarsene al suo paese senza ricordare nulla se non il cielo azzurro e gli uomini e le donne che vivono sotto di esso” – Edward Morgan Forster

❤ Miss Raincoat