11*01 – El cante jondo

Garcia Lorca definì il cante jondo “profondo e penetrante”. Si tratta dello stile più primitivo e gitano della parte vocalica del flamenco. In traduzione, si è citato il Ligabue di “Balliamo sul Mondo”. Il fandango è, difatti, una danza seicentesca andalusa, con una melodia più semplice rispetto al jondo.

Maddalena e Gabriele stavano consumando in silenzio la loro prima colazione. Entrambi erano poco propensi alle lodi del mattino, perciò preferivano non dover articolare pensieri troppo profondi almeno prima della terza preghiera se, addirittura, ciò si fosse dovuto tradurre in parole. Quella mattina Maddalena stava facendo persino fatica a controllare i movimenti delle sue mani ancora intorpidite dal sonno e l’operazione di tagliare il pane sopra il quale spalmare la marmellata di lamponi sul burro fresco le risultava troppo complicata. “Questo maledetto pane, dov’è Elvira!?” sbottò. “Dammi qui, faccio io. Non c’è bisogno della servitù!” si offrì di aiutarla Gabriele che con il pane e la servitù ci sapeva fare più di lei. “Hai un pessimo rapporto tu con le lame, si sa!” fece una battuta per raddrizzare la sua luna storta.

“Gli uomini impugnano coltelli per sete di sangue, per sentirsi eroi. Credi che io ti abbia sposato perché ti ammiro? Perché vai in giro a farti ammazzare? Perché… Oh, perché il Duca è un cattivone che si è preso la tua Riviera?”. Gabriele la guardò incredulo, non si aspettava tale giaculatoria a quell’ora. “Gabriele, sei soltanto uno che sgozza le persone per soldi. Non te ne frega nulla, non hai ideali. Uccidi a sangue freddo non perché sei coraggioso, ma perché uccidere non ti eccita!”.

Gabriele perse la pazienza e, per lo scatto di collera, le posate gli caddero rumorosamente nel piatto.

“Va bene, ti faccio schifo. Maddalena, me ne farò una ragione. Ti ricordo che ci siamo dovuti sposare perché così ha deciso tuo padre. Ma chiedo venia se non ti sei potuta scegliere un valoroso cavaliere che ti getta a terra ogni volta che, ubriaco, cerca di ingravidarti come una giovenca fino alla morte. Scusa, scusa davvero!”. Si pulì le mani stizzito perché gli erano diventate appiccicose di marmellata – non una bella mossa per uno che maneggia pugnali con destrezza – e si alzò. “Ah, per curiosità, a me eccita la figa!” aggiunse.

Era già in un’altra stanza quando lei gli rispose a tono. “Si capisce. È per questo che hai lasciato l’Elvira a gelare di freddo fuori dalla tua stanza…”. Gabriele rientrò e puntò i pollici davanti a Maddalena sul tavolo di legno, braccandola da dietro e parlandole alle orecchie. “Si dà il caso che le cose dovrebbero funzionare un pochino diversamente la prima notte di nozze, ragazzina!”. Si distolse subito dalla posizione da sicario. Gabriele, non le devi fare paura. Fece solo un passo indietro e si calmò. “Che cosa avrei dovuto fare con la tua serva muta di preciso per non mancarti di rispetto? O l’hai scelta muta di proposito per mancare di rispetto tu a me? Che cosa doveva tacere di preciso la tua cara serva?” le domandò sarcastico. “Che gli mandavo i fazzoletti ricamati” disse con un filo di voce a testa bassa. “Come, scusa?” non capì.

Questa volta fu Maddalena ad alzarsi con lo scopo chirurgico di lasciarlo lì con il dubbio. “Lena, dove vai? Dai, aspetta ho esagerato…” la richiamò indietro. Maddalena era già altrove. Gabriele pestò un pugno sopra il tavolo e si fece male alle nocche. “Maledizione!”. La sua imprecazione fu sentita in tutti i bracci del palazzo.

***

Il vento dei primi di febbraio, carico di febbre e follia, sferzava disordinato facendo librare in aria i capolini gialli delle mimose come coriandoli. Il profumo morbido, giallo e femminile gli indispettiva le narici e faceva starnutire Gabriele, intirizzito sulla panca di marmo di Viggù con i braccioli a rocaille posta con la tramontana a prua tra la serra e la scuderia. Il sole a zenit gli faceva stringere gli occhi. “Stai attento!” gridò al figlio dello stalliere che si stava buttando a pesce dai pochi rami di un albicocco che erano scampati dalla recente potatura.”Vedo che con il matrimonio ti è nato l’istinto paterno!” lo schernì una voce maschile che conosceva bene. “Giorgio!?”. Si alzò per abbracciarlo. “Amico mio!”. “Che ci fai qui nelle Tre Pievi?” gli domandò. Il suo arrivo a sorpresa gli aveva ridato un po’ di buonumore.

“Sono venuto a trovarti…”.
“Come amico o come medico?”
“Sono venuto a vedere se stai bene. Ebbene?”
Gabriele alzò le spalle. Conviveva ormai da anni con le sue cefalee, con l’insonnia e con i tremori alle mani. Qualche volta gli batteva talmente forte il cuore che per ricominciare a respirare doveva vomitare il peso che gli premeva sul petto.
“Dormi, Gà?”
“Quando mi addormento dormo…”. Ci scherzava sempre su. Non era uno che si faceva leccare le ferite.
Il dottor Serponti gli porse una sacchetta di cuoio con delle foglie dentro. “Tieni, questo ti dovrebbe aiutare sia a calmare i battiti sia con il tuo mal di stomaco”. Lo guardò incredulo: come faceva a capire il suo stato di salute solo guardandolo in faccia? “Non è oppio, mi dispiace. Con questa ti ci fai un decotto prima di andare a dormire”.
“Sei sicuro che poi…”
“Tranquillo, stallone, ci ho fatto mettere anche una punta di geranio allo speziale. Tua moglie può stare tranquilla!”
“Più tranquilla di lei, solo gli Angeli…”
“Gabriele, non dirmi che non lo sa…”. Giorgio alludeva alla malattia. Nella salute e nella malattia, per lui le promesse di matrimonio erano inviolabili.
“No, Giò. Io e lei non…”. Come faceva a dirglielo? Ne andava della sua virilità.
“Non?!”. Giorgio pensava di non aver afferrato il concetto. Si riteneva un intelligente studioso, però sapeva di non essere brillante – con la risposta sempre pronta – come Gabriele. Tra di loro, la più sostanziale differenza era quella.
“Dai, per piacere è una ragazzina!”. Si giustificò maldestramente. Giorgio rise. “Non ci credo!”.
“Eh, non crederci!”
“Ti gira in casa Maddalena Stampa e non ci combini nulla. Amico, ti dichiaro ufficialmente malato!”

Gabriele si rimise a sedere e fece un cenno a Giorgio di fare lo stesso. Il vento non smetteva di increspare le onde sul lago azzurrissimo a qualche decina di metri a strapiombo sotto di loro.
“Hai presente la sua serva, Elvira?”
“Dai, non pensarci più, è stata una bravata!”
“Bravata?! Le ha inchiodato la lingua al tavolo!”
“Siete la coppia perfetta, se ci pensi! Degli aguzzini efferati…”. Entrambi risero.
“Non ci avevo mai pensato prima di stamattina… Abbiamo litigato. Cioè, non che si possa parlare con lei senza farlo…”
“A cosa?”
“Quando sono arrivato qui ser Nicola Stampa mi aveva raccontato di questo tale capitano della Val Bregaglia, un loro lontano parente, che doveva sposare Maddalena. Solo che durante la Guerra ne aveva ucciso uno dei suoi durante una rissa e si era dovuto dare alla macchia. All’inizio lo aveva protetto lui, se ne stava in un casale abbandonato a Rancio, qua sopra. Perciò mi aveva messo a fare la guardia del corpo a sua figlia, perché nessuno si facesse male in attesa che Maddalena potesse indossare il suo abito bianco”.
“Mi sfugge perché tu l’abbia ucciso, però!”
“Uno stronzo. Era riuscito a legarla a sé, ad ammaestrarla come gli ‘stroleghi con i serpenti; con la scusa che non era abbastanza coraggiosa per scappare con lui e che allora si doveva accontentare dei pochi momenti che le concedeva. Scendeva per chiavarsela e assicurarsi che, grazie alle sue lagne, gli Stampa continuassero a badare che lui fosse vivo!”
“L’hai ucciso per questo?”
“Avrei dovuto. Almeno non mi troverei in questo fottuto guaio!”. Giorgio scosse la testa.
“Lavorava per i Duchi, lo stronzo faccia di culo! Lo raccontai a Nicola. Lui era d’accordo con me. L’avrei fatto fuori alla mia maniera: al buio, in silenzio e con il coltello. Sarebbe diventato pasto per i corvi. Invece, Drusiana decise che sarebbe stato meglio fare finta di niente e sfruttare la situazione per avere un certo anticipo sugli Sfondrati. Tanto, chissenefrega di Maddalena!“.
“Vai avanti…”
“Quindi Maddalena l’ha scoperto da sé! Come ho fatto a non capirlo prima? Le mandava i fazzoletti ricamati con i messaggi d’amore, pezzo di merda di cane…”
“Elvira?!”
“Cosa non può fare una donna con il cuore spezzato!”
“Vuoi dire che Maddalena capito che Elvira faceva da tramite con il Duca per ucciderti?”
“In realtà, l’ha beccata con le gambe aperte sotto il suo innamorato. Però – sì, in sostanza Elvira non teneva nessuno dei suoi orifizi in disimpegno”.
“Diciamo che fu una notte intensa in cui ci siamo dovuti impegnare a rammendare. Di solito, è un lavoro da massaie, abbiamo fatto quello che abbiamo potuto…”

“Il giorno dopo di quella notte… Giuro, non avrei voluto uccidere il padre di Elvira. Potevo dargli un mucchio di soldi affinché lui e la sua famiglia si trasferissero in Tirolo. Ma tremava di paura, non ci si può fidare di chi ha paura. Allora gli ho detto o ti uccidi tu o ti uccido io, scegli. Si è impiccato davanti a me. Tutti hanno creduto che si fosse ucciso perché non sapeva come maritare la figlia”
“E il figlio di troia?”
” Oh, lui… Era nella stanza di Elvira. Giaceva dissanguato. Maddalena aveva mirato con un coltello tra ombelico e pube. Lo feci a pezzi e poi lo portai in un porcile. Ci pensarono i maiali.”
“Il resto lo sappiamo…”
“Gli Stampa mi permettono di vivere una vita agiata”. Fece spallucce.
“Gabriele, non puoi continuare ad essere innamorato di una morta…”. Giorgio lo guardò dritto negli occhi e lui li distolse subito per non allagarsi dentro. Gli uomini non lo fanno.
“Quando tornai qui Drusiana mi respinse. Disse che dovevo diventare un uomo e sposarmi. Avrei dovuto sposare un’assassina come me. Le suore avevano acconsentito al silenzio a patto di tenere con noi anche la muta” tirò fuori il suo livore.
“Gà, smettila di trattarla con i guanti. Non sei più la sua guardia del corpo, sei suo marito!”
“Ha detto che gli faccio schifo!” trovò una scusa.
Giorgio alzò gli occhi al cielo. Delle donne Gabriele non ci avrebbe mai capito niente.
“Una tazza ogni sera, intesi?” gli ricordò e poi si alzò in piedi.
“Gà, un’ultima cosa…” sembrò rimestare nei suoi pensieri.
“Dimmi…”
“O con lei o con qualcuna devi chiavare. Com’è che è da quando ti sei sposato dici di no a tutte? Ti pesa la fede sul dito? Per questo male c’è una sola medicina, sai…”. Inutile, Giorgio e il suo metodo scientifico rendevano empirico ogni sforzo di Gabriele di nascondere le sue falle dietro al sarcasmo e, decisamente, era l’unica persona in grado di salvarlo dalla collottola ogni volta che, inconsciamente o meno, si trovava all’orlo di un precipizio.

***

Gli dei norreni pensavano che la loro fine sarebbe arrivata appena dopo il tramonto, con l’estinzione dell’ultimo eroe. Gabriele stava guardando la piazza dalla balconata. Le luci del crepuscolo erano incerte nel restituire la loro luminosità al cielo, che susseguiva lampi di colori sempre meno rossi e più lividi. Quella sera gli sarebbe stato impossibile guardare il lago, poiché la dolcezza stucchevole della malinconia gli bruciava in gola. Si stava rollando una sigaretta con le erbe che gli aveva portato il suo amico, il dottor Serponti. Niente decotti, non sono una puerpera, lo diceva sempre Lucia. Guardò verso l’alto. La prima stella che s’illuminava sul manto scuro della notte era sempre lei.

“Che fai?”. Maddalena era arrivata nell’androne a piedi scalzi, non l’aveva sentita e sobbalzò. “Fumi oppio?” le domandò curiosa, come se la lite della mattina non fosse mai successa. “No, una cosa che mi ha dato Giorgio…” fu vago su prescrizioni e posologia. “Non stai bene?” si allarmò. “Mi manca il lago” rispose.

“Il lago è dall’altro lato…” gli ricordò lei la rosa dei venti.
“Il mio lago”. Gabriele voleva guardare più lontano.
“Ah, capito…”. Maddalena avrebbe almeno voluto essere almeno una moglie utile. Ma come? Tutto, in quel matrimonio urlava o rimani qui o sei morto, non certo un orecchiabile preludio d’amore.
“Mi hanno detto in cucina che non hai mangiato a cena…” cambiò discorso lui.
“Ti preoccupi per me ora?”. Ancora una volta, le uscì repentinamente la sua peggior versione.
“Sono riluttante all’idea del matrimonio, di questo in particolare. Ma non vuol dire che io non sia capace di sentimenti umani, la gentilezza per me è questione d’onore.”
“Già, l’onore. Sempre fedele a Nicola Stampa. Hai accolto il matrimonio come quando ti ordina di uccidere i nostri nemici”. L’umore di Maddalena poteva cambiare con una folata, come il clima a febbraio. “A proposito, mio padre dice anche che sei bravo con la spada”.
“Un bravo spadaccino non va in giro a vantarsene” parò il colpo basso.
“A cosa alludi?”
“A te piacciono i banditi, no?”
“Senti chi parla… Ti sei venduto per non farti uccidere!”
“Lui avrebbe venduto te, è diverso!”
“Ma si dà il caso che mio padre, il tuo signor padrone, mi abbia fatto sposare te, che hai i tuoi sani principi! Siamo a posto!”
“Avresti preferito il Buon Gesù?”
“A un marito che non mi guarda? Ovviamente!”
“Tanto ti guardano tutti!”
“Perché ho dato scandalo!?”
“No, perché vorrebbero tu dessi scandalo per loro!”.
“Come quando ti scopavi Lucia?”
“Sei l’unica che non la chiama…”. Si stupì, non l’aveva chiamata La Pazza. In qualche modo, Lucia e Maddalena si assomigliavano. Erano entrambe delle guerriere con il cuore a mille.
“L’amavi vero?” gli chiese.
“Sì, l’amavo!”. Era la prima volta che lo diceva ad alta voce. Non l’aveva mai detto nemmeno a lei e questo era il suo più grande rammarico. Che, dopo la morte, ti rimangono le frasi in sospeso.
“Ed è per questo che vai a letto con tutte tranne tua moglie, perché lei è morta? Lei non ti ha tradito, Gabriele. Lei morirà soltanto quando te la sarai dimenticata e io non ti chiedo questo. Ti chiedo soltanto di dirmi se secondo te valgo meno di quella zoccola megera di mia zia Drusilla”.

Gabriele fece un respiro profondo. Avrebbe dovuto annegarsi direttamente nell’infuso di Giorgio per venirne a capo.
“Spogliati allora. Vuoi davvero un uomo vero? Farò il marito che si merita donna Maddalena Stampa”. Se ne sarebbe pentito, forse.
“Mezzera! Maddalena Mezzera” lo corresse, ma tentennò giocando con i lacci del vestito di sargia color avana che portava spesso quando si aggirava leggera tra i corridoi dopo cena. Maddalena trovava che le ore piccole la facessero sentire libera, come una musicista solista che si appresta alla sua serenata notturna. Di notte, non portando il corsetto, riusciva a respirare.
“Che fai? Ti vergogni?” la derise.
“Io non l’ho mai fatto” fu sincera.
“Dai, non può essere. Ero la tua guardia del corpo, dovrei saperlo!”
Maddalena scosse la testa.
“No? Non sai com’è fatto il corpo di un uomo?!”
Scosse la testa nuovamente con ancora più vergogna. Lui le accarezzò il viso. Si guardarono negli occhi; probabilmente, non l’avevano mai fatto davvero.
“Non ti ha nemmeno insegnato nemmeno questo, lo sfigato?”. Lei rise nervosa. “Volevo te, non Elvira. Per questo le ho detto di uscire dalla mia stanza!”. Più o meno era andata così.
Si spogliò lui, lento e sicuro nei suoi gesti. Poi, le prese la mano e se la portò sul petto. “Eccoti tuo marito” le disse. La cicatrice di quando era quasi morto sfalsava le simmetrie, però sottopelle il cuore gli batteva ancora forte.
“Potrei non esserne capace…”.
“No, questo mi sembra impossibile…”.
Le tolse lo spillone dai capelli, quello con la quale si era macchiata per sempre di sangue. I ricci corvini le scesero morbidi sulle spalle.
“Non me ne separo mai…”
“Ecco, è così che si fa l’amore…”.
Goffamente, lei fece scivolare lo scialle e il vestito da camera ai suoi piedi per mostrasi a lui, a suo marito. Era bellissima, di una purezza accecante, ma lui non conosceva abbastanza parole per dirglielo, perciò la baciò e basta.

I loro respiri affannati si unirono sul pianerottolo torvo sopra i tetti scuri e i comignoli fumanti del Prà del Castello di Gravedona. Solo la luna crescente a tre quarti avrebbe potuto raccontare cosa era successo fra di loro quella notte, la loro prima notte.

Rimasero a lungo aggrovigliati come capi dello stesso gomitolo incorniciati dagli archi dell’ogiva con la giacca in velluto di Gabriele che faceva loro da coperta. “Hai freddo?” gli domandò lui. “Potremmo andare a letto…” propose lei. D’un tratto la magia si spezzò. “Lena, non vorrei offenderti…” si scusò lui che pareva essersi risvegliato di scatto da un sonno profondo.

“Non voglio che tu stia male per me. È complicato, lo sai. Abbiamo capito che ci viene bene – benissimo direi – e, se lo desideri, possiamo continuare a fare come fanno marito e moglie. Ma non possiamo dormire nella stessa stanza. Non lo capirai ma è perché ti voglio bene”
“La sigaretta di prima. Lo so cosa c’è dentro. Riconosco le erbe al fiuto. Salvia, alloro, camomilla, melissa, alloro, finocchio e valeriana. Servono per calmarti e non dare di stomaco quando ti sembra che il diavolo ti stia strozzando. E ti servono per dormire, ne avresti davvero bisogno. Il geranio invece ti serve per…”. Si dava il caso che Maddalena era una comare e alle comari non si poteva nascondere nulla.
“Quindi saprai bene anche come non rimanere incinta, in caso…” si sincerò. Per lui era una condizione imprescindibile. Non avrebbe messo al mondo nessuno che non avrebbe avuto la garanzia di poter proteggere dal maligno intrinseco alla vita.
“Naturalmente” rispose con il senso dell’ovvio di una donna che, mettendo da parte l’istinto, considera la pratica della realtà. Era nata madre come tutte le altre e come tale proteggeva i suoi figli dall’ingiustizia anche se non sarebbero mai nati.
Raccolse i suoi vestiti per tornare nella sua stanza senza la premura d’indossarli.

“Lena! Ti aspetto, eh?”.
“Ogni notte?”.
“Non per forza di notte! Quando vuoi…”. Le disse insinuante. Gli sembrava come di essersi liberato di un peso, quello di ammettere che si stava innamorando di sua moglie. E che, infondo, non era una colpa.

Da quel momento Gabriele e Maddalena cominciarono ad essere sposati, seguendo la loro liturgia horarum e dilatando i minuti con respiri profondi quando li trascorrevano insieme. Rendendosi conto che, tutto sommato, l’unica cosa che l’Amore richiede è di dargli il suo tempo.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Ovviamente, capitolo del tutto diabolicamente inventato. Le proprietà curative delle piante sono più o meno veritiere but don’t try this at home (in pratica, è come se Gabriele prendesse la pastiglia della pressione, il Lexotan e un po’ di viagra tutti insieme). Prà di Castello a Gravedona al tramonto è una delle visioni più paradisiache dell’Alto Lario che io abbia mai visto. Io mi sono definitivamente innamorata di Gabriele scrivendo il capitolo 11 🥰

10*01 – Una la taia, una la fila, una la fa i capei de paia

*Midseason finale*

Si tratta di una ninnananna in dialetto valtellinese che mi cantava mia nonna materna quando ero piccola. Allude vagamente alle Parche, le quali filano e disfano il Tempo del destino umano – come (sinistro) augurio per i buoni sogni dei propri bambini. Nel titoletto, un verso dell’Orlando Furioso sullo stesso tema mitologico, dall’episodio in cui Astolfo scopre che la Luna è il mondo della follia e del rovescio.

Nessuno si sarebbe mai aspettato che gran parte della politica della Riviera si decidesse a Varenna, lì nella stüa della casa dei Bongioli. Lasciando che gli uomini si divertissero con i loro giochi di potere, la cosa pubblica la maneggiavano le donne, fragili, innocue quanto basta e abbastanza energiche per impastarla senza farla strappare.

Le donne sognavano molto e non stavano dalla parte di nessuno, perché alla guerra preferivano la pratica della vita. Erano le vittime disperate e azzittite a forza dei soprusi dei maschi, dei matrimoni imposti e degli stupri, erano nudi trofei esposti in piazza. Fuori, tra le vie della Riviera, si espandeva la faida come una macchia di pece, mentre loro rammendavano le brache dei loro mariti, padri e fratelli bisbigliando. La stanza, a sud dell’abitazione per sfruttare il calore e la luce in inverno, era completamente rivestita di cembro ed era stata costruita dal Bongiolo, il Buon Giovanni, l’antico avo di quel ramo dei Venini dediti alla falegnameria minuta. La stanza era alimentata dall’esterno da una pigna in ceramica, una stufa che si accendeva appunto con le pigne secche raccolte d’estate. Attorno ad essa vi era un banchetto dove le Comari si riunivano una volta alla settimana.

Dirimpetto alla maiolica decorata in stile moresco con un motivo che ricordava un groviglio di vipere, il blasone della famiglia, vi era un altarino con una statuina di Santa Margherita da Cortona, la patrona delle partorienti. Fuggita incinta con un uomo reticente alle promesse matrimoniali, per espiare il suo peccato, si mise ad aiutare i bisognosi, finché un giorno trovò il suo fidanzato morto ammazzato sotto una quercia. Sia la famiglia di lui, sia suo padre convinto dalla sua matrigna, non la accolsero nella casa natale. Perciò, prese i voti e, in estasi, ricevette il dono di poter scrutare i cuori, ossia la capacità di riappacificare le anime dal rancore. Insieme a una nobildonna avrebbe fondato un ospedale per assistere le partorienti, così come facevano le Comari con le donne della Riviera.

Maddalena sbirciava di tanto in tanto il simulacro sperando che Santa Margherita le spiegasse come dare una svolta al suo matrimonio. Suo padre l’aveva fatta sposare per non farla entrare in convento, ma la sua vita da moglie le pareva un castigo peggiore della clausura. Lei e Gabriele a stento si rivolgevano la parola e, se proprio capitavano uno di fronte all’altra, si salutavano con il garbo e l’educazione di due estranei che si rispettano. Le loro vite non si toccavano mai.

Quella mattina, Maddalena era scesa per prendere il loro batell personale attraccato alla riva sotto i giardini della loro abitazione e si era fatta portare a Varenna. Erano i giorni della merla del gennaio 1656.Le giornate erano miti, perciò l’inverno sarebbe durato ancora a lungo e la primavera sarebbe arrivata in ritardo.

Sul Lago la maggior parte degli spostamenti avveniva via acqua e si viaggiava seduti su una panca posta sotto un una vela rettangolare montata su tre cerchi di legno. I pescatori che remavano ai lati sfruttavano il vento a favore regolare, la breva da nord e il tivàn da sud. Il loro battello era stato un dono di nozze di suo suocero che sopra lo schienale, in caratteri rinascimentali, si era preoccupato di far incidere le loro iniziali GMMS. Le venne d’istinto il gesto di togliere con l’indice ben protetto da un guanto di pelle la rugiada che si era ghiacciata durante la notte nell’incavo della prima lettera.

Il Circolo della Brenta d’Oro era ubicato a Casa Venini, dietro la chiesa di San Giorgio, da quando i Brenta, famiglia comacina, si era unita in matrimonio con i Venini, famiglia varennese particolarmente legata agli Sfondrati.

Le donne Brenta erano state le cape delle Comari fin dalla notte dei tempi, assistendo durante i parti o interrompendoli, tramandandosi di generazione in generazione l’uso di erbe o formule magiche per non far morire le donne per il mistero dei misteri. Le donne devono sanguinare per dare la vita, si raccontava che ripetesse sempre la Comare, la donna Brenta che nel 1629 era stata il primo caso di peste a Varenna. Quel bubbone nero sul seno se l’era portata via nel giro di due giorni.

Le Comari, a dire il vero, non erano protette dal Signore: si ammalavano facilmente di dissenteria e spesso ne morivano. Questa era la loro punizione per non lasciare che il destino facesse il suo corso. Il dottor Serponti di Bellano, che chiamavano solo quando i parti si facevano più duri e diventava più questione di morte che di vita, ricordava loro di stare sempre attente quando preparavano i pentoloni di acqua bollente o le pezze di stoffa imbevute nella camomilla e nell’alloro per placare i dolori e, soprattutto, quando, con le mani unte di olio, entravano dentro il ventre delle partorienti e con l’unghia del mignolo, che portavano lunga e affilata, rompevano la membrana permettendo così al bambino di venire al mondo nel migliore dei modi. Con il decotto di erba brusca raccolta lungo il Fiumelatte, pulivano la mamma e il figlio recitando le formule per far defluire il sangue secondo natura. La gente portava alle Comari il massimo rispetto, riconoscenza e un certo timore. Qualcuno pensava che potessero allontanare anche il malocchio. Il Concilio di Trento aveva persino stabilito che, in caso di pericolo, potevano trovarsi nella necessità di amministrare il battesimo al posto del parroco.

Perciò, il medico veniva interpellato soltanto quando il bambino veniva fuori con la schiena al posto della testa, perché soltanto lui era in grado di compiere la manovra mettendogli le dita nella bocca per girarlo nel verso in cui potesse respirare e piangere, così come si viene al Mondo. Per il resto, se andare in battaglia era una cosa da uomini, il parto era una cosa da donne e solo loro ne avevano l’esperienza di sapere cosa si dovesse fare in caso. Il giorno che un uomo avesse avuto la fica al posto dell’uccello, per le donne sarebbe arrivata la pace, la Comare prediceva con sicurezza anche questo.

Elisabetta Brenta, la Comare Capa in carica, aveva sposato Michele Bongiolo e, grazie a lei, i suoi fratelli si erano potuti applicare alla gestione dei battelli in partenza da Varenna con i Venini; Michele l’aveva sposata anche se lei aveva undici anni di più, tanto che era influente come una matrona. Lui era morto due anni prima e lei ancora si vestiva di nero, benché per le malelingue era morto a causa di qualche erba infestante che lei sapeva trasformare in veleno. Insieme a lei, le altre Venini Bongiole comandavano e decidevano chi dovesse aiutare il parto di chi oppure chi poteva conoscere questo segreto del mestiere oppure no. Erano le figlie di Baldassarre, diventato giallo in viso per la cirrosi, Polissena e Giovanna, sempre livide per le cinghiate del padre ubriaco. Entrambe ricordavano, nei loro nomi, delle eroine sacrificate per propiziare il favore dei Cieli. Elisabetta, loro cugina, era meno influente perché, per quanto nubile esattamente come loro, aveva già una figlia in età da marito. Nel 1636, durante il passaggio delle truppe francesi, era rimasta incinta di Antilla, così battezzata perché il suo bel soldato chiacchierone al momento delle doglie già si trovava tra i Caribes nelle Americhe. Anche Giulia, l’altra cugina, non poteva essere considerata al loro pari perché era figlia di quello zio detto il Manera, l’ultimogenito dei Bongioli, dedito all’alcol, alle puttane e al gioco delle carte. Inoltre, Giulia non era ben vista perché Giuseppe, l’organista, le faceva una corte spietata anche se lei soldi per la dote non li aveva. Fra di loro non scorreva sempre buon sangue per via delle invidie, ma erano le Comari che contavano.

Poi venivano le altre: Maddalena Scotti, sorella di Francesco della Spartivento e moglie dello Zop, Carlo Venini; sua sorella Lucia, invece, aveva sposato il Matteazzo, fratello dello Zop.

C’erano anche le Venini del ramo dei Migazza, la famiglia di Lucia, l’unica che Gabriele avesse mai amato. Elisabetta Scotti, nipote delle suddette Maddalena e Lucia, aveva sposato Giorgio Venini, quello che aveva venduto la moglie al Diavolo. Elisabetta era appena diventata mamma e dirigeva gli affari delle balie. Le Comari si occupavano anche di quelle poveracce che in cambio di soldi allattavano i loro figli, i figli di buona famiglia. C’era anche la moglie dello Storno, il cui marito, sempre dei Migazza, era malvisto perché era un bastian contrario e odiava gli Sfondrati giusto per andar contro al buonsenso. Di fatto, aveva sposato Maddalena Campioni, inclusa nel gruppo più perché era una brava donna che per il suo cognome da nubile.

Maddalena Stampa era entrata a far parte della congrega per via di sua cugina Marta Sabbati, della quale le zie acquisite con il matrimonio erano Maddalena e Lucia Scotti. Marta aveva otto anni in più di Maddalena e stava quasi per partorire. Maddalena avrebbe dovuto assisterla al parto con la supervisione delle zie, in modo da apprendere l’arte e l’idea di vedere una testa che uscisse fuori dalla vagina di sua cugina non le faceva per niente piacere, anzi, le agitava i liquidi nella pancia.

I discorsi che si facevano a bassa voce tra le Comari erano spesso tra i più sboccati. In qualche modo, se in Osteria gli uomini si vantavano di prodezze, attorno alla stufa si sghignazzava del fatto che gli stessi non sapevano nemmeno com’era fatta una donna là sotto. “Per loro è facile, hanno solo quell’arnese che gli si irrigidisce tra le gambe. E poi non sanno nemmeno dove infilarlo”. C’era sempre qualcuna che si lamentava.”Te l’ho raccontato di quella che è venuta qui piangente perché non rimaneva incinta e invece quell’idiota di suo marito sbagliava soltanto entrata?” raccontava ogni volta Polissena come se fosse una cantilena.

“Beh, sicuramente tu Maddalena non avrai questi problemi” le disse Elisabetta Scotti tirando una gomitata alla cugina Marta. Entrambe risero. “Gabriele…”. Il nome di suo marito era sempre pronunciato tra i sospiri. La guardavano con stima perché lei aveva sposato uno che, alla fine, era il meno peggio. Era il migliore amico del dottore che le tirava sempre fuori dai guai – ossia delle accuse di omicidio o di aborto o di stregoneria. Era bellissimo. Era l’unico uomo che avesse mai trattato bene Lucia Venini, che dopo la morte era venerata alla pari di Santa Margherita, anche se da viva tutte la odiavano perché ne erano gelose. Gabriele non faceva promesse che non poteva mantenere e si prendeva solo ciò che era concesso.

“Come rimanere incinta già te lo avrà fatto vedere. Goditelo finché puoi che sicuramente tempo qualche giorno e ci dici che tu sarai la prossima!” disse la Comare Brenta. “Ci sarò io con te” disse sua cugina. “Anche io” rispose la Campioni, sicuramente innamorata di quel Gabriele che un tempo animava la Spartivento insieme a suo fratello. “Lucia diceva sempre che i panini dei Mezzera erano più grossi di quelli dei Migazza!” urlò Giovanna “Si capiva sempre quando era stata con lui prima de nostri incontri…” le andò dietro Polissena.

Chissà, pensava Maddalena, a lei sicuramente lo avrà insegnato cosa succede in un’alcova, anche se si dichiarava illibata. Gabriele guardava tutte tranne lei. Perché per lui non c’era differenza tra il prendere moglie e incassare una taglia.

Quando Gabriele era risorto grazie a suo padre era stato svelato l’arcano: le rose rosse che erano apparse in chiesa come letto per la bara di Lucia erano la sua ultima dichiarazione d’amore.

Ricominciò a lavorare a maglia. Stava facendo finta di realizzare una copertina di lana per i figli di Gabriele. Ogni volta disfaceva il lavoro così non sarebbe mai arrivata alla fine e nessun figlio avrebbe potuto essere coperto. Gabriele non era suo marito, era una guardia che aveva smesso anche di guardarla pur di non rimanere pietrificato.

Ma questo come poteva dirlo alle Comari? Infondo, sempre meglio essere invidiata da quelle che pensavano che lei lo avesse tolto dal mercato degli scapoli abbordabili. Gabriele, sulla carta, era suo.

Tornò a ripensare in silenzio alla lite della mattina con Gabriele. Lei odiava suo padre e lui lo serviva come un cagnolino piuttosto che essere un buon marito.

“Vorrei andare all’incontro con le Comari oggi. Posso continuare a frequentarle?”. Glielo stava chiedendo perché non sapeva bene come comportarsi dato che lui nella Riviera era un ricercato. Sicuramente, a lei non avrebbero torto un capello, già li aveva ricci perché era una Stampa.

“Non devi obbedirmi, devi essermi fedele”. Lei rise per la risposta che trovava fuori luogo. “Maddalena, non fare la puttana in giro!” aggiunse lui .”Altrimenti?” lo provocò. “Cosa vuoi sentirti dire? Che ti gonfio di botte?” perse la pazienza. “Così si aspetterebbe il tuo capo, Nicola Stampa…” non abbassò la lama. “Nicola Stampa, tuo padre, vorrebbe che io ti tenessi a bada in modo che tu non infangassi il vostro buon nome!” fece una breve pausa prima di continuare “E se succedesse? Infondo poco male, perché tu adesso sei Maddalena Mezzera“.

“E invece Gabriele Mezzera cosa si aspetta da me?” gli domandò con le braccia conserte.
“Poche rotture di coglioni?”. A Gabriele non andava più di scherzare.
“Scopati chi vuoi a me non me ne frega!” concluse lei.
“Eh, vorrei crederci… Io mica rimango incinta! Ricordati bene che io i tuoi bastardi non li cresco!” ribadì lui. “Ah tutto qui? E i tuoi?” chiese lei sempre più indispettita.”Per questo io prediligo donne sposate!”.
Maddalena se ne andò sbattendo la porta.

Poco dopo pranzo, praticamente a digiuno tanto che la sua inquietudine metteva il suo stomaco in subbuglio, Maddalena tornò a casa risalendo senza fretta tra i cespugli sempreverdi. Vicino alla serra, l’accolse il piccolo figlio dello stalliere, come un piccolo damerino. “Salve Signola Mezzela”. A lei addolciva sempre il suo modo bambino di voler parlare da adulto. Lei si inchinò pomposa per fargli piacere. “Che nascondi dietro alla schiena?” gli chiese curiosa.

“Un legalo” rispose lui in vena di marachelle.
“Ah, un regalo” si mostrò sorpresa e lui annuì. “E per chi?”. Lui allungò il ditino paffuto verso di lei.

“Per me?” chiese e si toccò lo sterno con la mano. “Sì!” disse il piccolo sgranando gli occhi porgendole una rosa. “E chi me lo manda?”. “Il Signol Gabli… Gabliele”. Gabriele non si faceva mai chiamare per cognome dalla servitù. “Ha detto anche di dile: scuuusa Maddaleeena“. Che razza di stupido, doveva fare tutta quella meravigliosa messa in scena? “E ora dov’è Gabriele?” “Boooh” rispose il bambino e poi corse via lasciando Maddalena con il suo fiore in mano ma certa che, essendo ancora viva, tutto poteva ancora succedere. Doveva solo fargli capire che non aveva bisogno di un uomo che la proteggesse, ma di un uomo che l’amasse.

Din don campanon (Din don fa la campana = segna il tempo) / Quatru dunzèli sul balcun (Quattro
ragazze sul balcone) / Una la taia (Una taglia) / Una la fila (Una fila) / Una la fa i capei de paja/
(Una fa i cappelli di paglia = estate) / Una la ciama San Martin (Una chiama San Martino =
inverno) / Da purtach un pegurin (per portargli un agnello)/ Un pegurin con su la lana (un agnello
coperto di lana) / La macana la fa la nana (la bimba fa la nanna)

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
La descrizione della stüa, locale tipico delle case alpine, è fedele. La storia di Santa Margherita è tratta dalle sue agiografie. Il batell è il nome dialettale della cosiddetta lucia, tipica imbarcazione lariana. Le Comari della famiglia Brenta erano a capo di un gruppo di levatrici veramente esistito e così composto, ma che non avevano un circolo precostituito (l’episodio della Comare morta di peste è vero). Il nome la Brenta d’Oro l’ho inventato ispirandomi al gentilizio dei Brenta. Gli uomini Brenta, grazie ai matrimoni, si occupavano di battelli a Varenna insieme ai Venini Bongioli. Maddalena, di fatto, non ne faceva parte, a differenza di sua cugina Marta. Antilla (Venini), la figlia non riconosciuta del soldato francese, e Giuseppe (Repellino), il fidanzato organista di Giulia (Venini), sono realmente esistiti. Gabriele Mezzera e Giorgio Serponti non avevano nulla a che fare con le Comari.

9*01 – Tanta papa, poca pipa, niente Pèpa

È un detto del Lago di Como. In pratica, si tratta di una ricetta per vivere a lungo: mangiar bene, fumare poco e stare lontano dalle donne cattive. La Pèpa in Lombardia è la donna di picche, nel gioco delle carte. In italiano, è più celebre il proverbio che mette in lista i peggiori peccati che puoi commettere se vuoi farla finita in breve tempo.

I tre corpi principali del palazzo degli Stampa abbracciavano una corte porticata, chiusa all’estremità dal padiglione adibito a serra vicino alle scuderie e, più avanti, dal giardino terrazzato in discesa sempre più ripida fino al lago, addolcita di poco dallo scalone in pietra scura tra i cespugli di bosso. Nel corpo verso ovest, quello più piccolo, risiedevano Maddalena e Gabriele; in quello ad est, invece, Nicola e Drusiana con i loro rispettivi coniugi. L’ala ad ovest aveva anche un piccolo balcone con volte a ogiva che si affacciava sulla piazza angusta verso montagna. Nella parte centrale, raccordata ai due corpi da una loggia a serliana, avevano sede le stanze di rappresentanza, come il salone d’onore e la stanza rivestita di legno, dove Nicola scrocchiava le dita dopo avere espresso le sue decisioni imprescindibili. La corte del palazzo, sotto la balconata, aveva un corridoio con al centro affresco rinascimentale che invocava Maria, San Rocco e San Sebastiano affinché curassero miracolosamente le piaghe della peste. Al piano terra, infine, risiedeva la servitù accanto ai locali di servizio, come le cucine e le lavanderie. Tutta la casa aveva soffitti in legno, pavimenti in cotto lombardo e scale in pietra di Moltrasio.

Chiuso nelle vecchie mura del castello di Gravedona, il palazzo non era lontano da Prà Castello, il belvedere sul Lago che fungeva da piazzetta delle adunanze, immerso e irto nell’atmosfera anzitempo che l’insieme di abitazioni addossate, scalottole e vicoli scoscesi donavano a quel quartiere nobile che sovrastava le coste ghiaiose che davano il nome al borgo.

Nella sua toeletta affacciata verso l’aranciera adorna di vasi di melograni e ciclamini, Maddalena si stava facendo pettinare dalla sua serva Elvira, mentre puntellava sulla ribalta del mobile con lo spillone che le aveva regalato sua nonna al suo quindicesimo compleanno. Dallo specchio, osservava compita la paura riflessa che ancora Elvira nutriva nei suoi confronti. Suo padre le aveva insegnato che la troppa confidenza faceva perdere la riverenza. Non ne avevano più parlato dell’accaduto e non aveva fatto accenno a chiedere scusa. Elvira, del resto non poteva lamentarsi nemmeno se lo avesse desiderato.

“Ahia, fai piano!”. Elvira, troppo energica con la spazzola per togliere un nodo, non si sa se apposta o per vendetta, le aveva tirato i capelli. Si scostò un attimo con un certo timore. Oltre al fatto che da quella bisbetica non sapeva più cosa aspettarsi, adesso era anche la moglie di un assassino. Non andò avanti con il suo lavoro, se non quando Maddalena le fece un gesto con la mano.

L’aiutò anche ad indossare la camicia da notte in lino, quella semplice ma leggera della prima notte di nozze, e le spruzzò qualche goccia di acqua di Neroli, un olio di fiori d’arancio amaro portato di moda sul lago dalla Duchessa Cybo. Le avrebbe voluto dire che aveva una bellezza antica e lontana, mediterranea tra le Alpi, e che il marito ne sarebbe rimasto soddisfatto. Invece, poteva solo limitarsi a guardarla rapita.

Cosa mi guardi così imbambolata? Forza, ora lasciami andare a letto!”. Elvira non dormiva con la schiavitù al piano terra, ma in uno stanzino attiguo a quello di Maddalena. “Ora vorrei dormire!”. Maddalena non si sarebbe recata nell’alcova, dove si coricava Gabriele. Elvira la guardò sbalordita.

“Lo abbiamo dovuto fare per colpa tua. Io sarei stata chiusa in convento e lui in una bara, in caso contrario, perciò…”. Lasciò a mezz’aria le sue perifrastiche.

Elvira voleva fare finta di non aver capito. Scosse la testa, perché di più non poteva fare.

“Avanti, Elvira. Tu sei del popolo e in certe cose sei più scaltra di me. Io non sono brutta ma lui è già un uomo fatto. Inoltre, sappiamo bene quali sono i suoi gusti. Quella stronza di zia Drusiana?! E poi quella Lucia Venini… Preferisce le pazze alle vergini!” le disse a un palmo della faccia, come se fosse sorda e non muta. “Di te, Elvira, ha avuto pietà cristiana. Dovevi vederlo quella notte con quanta premura si è sincerato che tu rimanessi viva. Mi guardava come se mi volesse scannare…”.

Si voltò verso il letto e si sedette sopra senza curarsi di essere aggraziata. “Ci andrai tu!” le disse. Quando dava ordini era tale e quale a suo padre. “Non così, vestita da sguattera…”. In realtà, Elvira indossava dei vestiti come i suoi, soltanto più semplici. “Spogliati!” le ordinò. Anche quando era rimasta in sottana non fu soddisfatta. “Tutta!” aggiunse prima di spingerla fuori dalla sua stanza nel corridoio freddo e buio che portava alla porta della stanza di Gabriele, la stanza degli sposi.

***

Dove si trova “Ser Mezzera?”. Il sole era già alto quando Maddalena si era svegliata dal suo sonno di ristoro e aveva scoperto cos’era successo la notte prima. Indossando soltanto la vestaglia azzurra con l’inserto a passanastro della dote che le aveva preparato sua madre, percorse correndo e a piedi scalzi i gradini freddi di pietra rustica che portavano al piano terra, verso il cortile.

“Intende suo marito, signora Mezzera?!” le chiese lo stalliere non riuscendo a capacitarsi di una moglie che non trova il marito dopo la prima notte di nozze. “Mio padre non ti ha forse detto di chiamarmi Signorina Stampa?” gli ricordò i vecchi usi. “Certo, Vossignoria” rispose il giovane servo non del tutto sicuro di avere capito le strane regole di quella famiglia. Era stato assunto per sellare i cavalli di Gabriele Mezzera e di sua moglie, in effetti.

Maddalena aveva un diavolo per i capelli quando, finalmente, dopo averlo cercato in tutte le stanze, lo trovò nelle cucine intento a giocare con i figli piccoli delle cuoche. I suoi capelli spettinati ed arruffati rappresentavano perfettamente il suo stato d’animo.

“Fai colazione con la servitù?” le chiese come se lo avesse sorpreso a uccidere.

“Buongiorno anche a te, mia cara moglie. Hai dormito bene?”. Gabriele non la vedeva da quando erano usciti dalla chiesa. Non aveva partecipato nemmeno al banchetto e aveva accolto con sollievo il fatto che suo suocero l’avesse mandato a minacciare di morte un contadino che non voleva stare ai patti per la vendita dei suoi vitelli. O delle sue pecore, non si ricordava nemmeno più.

“Forse non lo sai, ma in questa casa gli Stampa fanno colazione di sopra, nella sala da pranzo!” gli disse Maddalena, non con poca arroganza.

“Io non faccio Stampa di cognome. E anche tu, non te lo ricordi?” le rispose lui, senza perdere la calma. “Mi prendi in giro?” lei la calma l’aveva già persa. “No, affatto: ieri ci siamo sposati. Guardati, al dito hai un anello!” concluse lui continuando a sorseggiare il suo caffellatte senza fretta.

“Uscite tutte!” ordinò Maddalena indiavolata alle cameriere. “Elvira ha la febbre. Chi mi pettina oggi?” domandò retorica.

“Hai la casa piena di servi, Maddalena…” non riuscì a vedere il problema.
“L’hai lasciata nel corridoio a morire di freddo!” lo incolpò.
“Te ne dovresti occupare tu di fornire alla tua serva l’abbigliamento adeguato per sopravvivere alle notti di gennaio!” ironizzò.
“Ma che insolente! Io ti offro la mia serva e tu la rifiuti?” non colse la battuta.
“Pensavo che tua zia Drusiana ti avesse insegnato come funziona il matrimonio…” le disse quasi sbuffando. In realtà, era molto divertito dalla petulanza di Maddalena.
“Perché non hai sposato lei, allora?” le chiese sempre più stizzita.
“Sei gelosa?” la provocò. Maddalena diventò rossa in viso e, di scatto, afferrò un coltello, uno di quelli con il quale si disossa il pollo. Lo era, ovviamente.
“Posalo, ragazzina. Ché ti fai male!” le consigliò Gabriele ridendo di lei.
Maddalena lasciò cadere la lama nel lavabo e fece per uscire. Lui la prese per un braccio.
“Per chi cazzo mi hai preso? La tua serva? Davvero? Potevo prenderti con la forza, tanto sei mia moglie e non l’ho fatto. Se l’avessi desiderato avresti potuto venire tu, ma non saresti stata costretta…”

Maddalena arricciò le labbra, stava per piangere. “Pensavo avessi gradito” disse sottovoce guardandosi la punta dei piedi. “Maddalena, io ho sposato te e forse tu non hai capito ancora nulla di me”. Lei scosse la testa. E come avrebbe potuto? Suo padre gli aveva fatto sposare uno dei suoi scagnozzi. “Che pensavi? Che avresti sposato un eroe che ti avrebbe trattato come una principessa? Lo sai come mi guadagno da vivere io? Non c’è da vantarsi ad avere come marito uno che cerca di essere l’ultimo che muore in una stanza di criminali. Non ti è andata bene e l’unica cosa che posso fare è dirti di starmi alla larga. Io mi impegnerò a proteggerti, te lo giuro!” le spiegò, un po’ come quando gli adulti spiegano ai bambini che non si devono fare i capricci.

“Come facevamo prima?” gli chiese Maddalena, finalmente guardandolo negli occhi. Non erano né verdi, né azzurri, né grigi – avevano una cromia a sé stante. “Sì, come prima!” rispose lui, cercando di calmarsi. Si ripeteva sempre che non doveva spaventarla.

Per quanto Nicola Stampa si fosse distinto come abile venditore e avesse creato il suo piccolo impero della carne, suo padre Gianantonio era stato pretore della Valsassina. L’altra giurisdizione, oltre la Rivera, dove comandavano i duchi Sfondrati. Eppure, un gravedonese che si rispetti non poteva sostenere il potere imposto. Perciò, il magistrato non ebbe paura di appoggiare la concorrenza, i Serponti, quando ci fu da decidere se i Carganico, accusati di avere ucciso Giorgio Venini, fossero davvero colpevoli. A lui era ben chiaro che era stato il vecchio Duca a pagarli per motivi del tutto arbitrari, ma in quel sistema corrotto era più logico decidere di scarcerarli e prendere una buona uscita per non rivelare il segreto dietro a quell’uccisione. Con quei soldi, suo figlio era diventato il Bechèr di Gravedona e lui era morto sereno nel suo letto.

Gravedona era la capitale delle Tre Pievi, una contea indipendente sin da quando Barbarossa firmò la resa a Costanza dicendo di aver perdonato tutti tranne i perfidi Gravedonesi per la sua sconfitta. Oltre a Gravedona, le altre due pievi erano Dongo e Sorico, entrambe sullo stesso lato del Lario, unite a Colico – in cima al lago a cerniera con la Valtellina – che, per sua volontà, ne adottò gli Statuti. Le Tre Pievi non dovevano fare fede ai Duchi della Riviera ma solo alla Spagna milanese. Ecco perché lì Gabriele era al sicuro. La Spagna era miope, non riusciva a vedere da Milano fino a Como, perciò gli Sfondrati avrebbero dovuto gabbarlo nei loro territori, se lo avessero voluto mettere alla berlina.

Ma, più che Barbarossa, era stato un altro manigoldo, il Medeghino, a rendere Gravedona irredenta, insieme a nessuno e mai in pace. Gravedona non avrebbe mai accettato il dominio straniero, anzi, era il dominio straniero a dover accettarla indomita tra i suoi territori.

Durante le guerre, anzi, le scaramucce avvenute tra il 1525 e il 1532, il Medeghino aveva occupato il Castello di Musso in maniere poco chiare, forse uccidendo qualcuno per conto del Duca di Milano, che era già in Guerra contro le Tre Leghe e con la Valtellina, terre amiche dei francesi e poco amiche tra vicini di casa. Inizialmente, difendendo gli Sforza, per quanto ferito al pene e svilito nella sua mascolinità, stracciò la concorrenza a Dubino, nella Bassa Valtellina, tant’è che gli ambasciatori delle Tre Leghe si recarono a Milano per firmare la pace. Al loro ritorno via lago, il Medeghino li sequestrò a Musso tradendo gli Sforza e cercando potere per sé. Desiderò talmente tanto l’indipendenza da accusare Milano di congiurare alle sue spalle e dichiarandosi un crociato in Valtellina per scacciare i protestanti svizzeri. Dopo la carneficina a Morbegno del 23 marzo, si firmò la pace. Le Tre Leghe persero le Tre Pievi, diventate parte del Ducato di Milano, mantenendo la Valtellina. Il Medeghino, invece, si trasferì in Piemonte dove diventò un brillante mercenario internazionale.

Maddalena era una che causava spesso liti, ma durante la guerra rimaneva zitta e incassava. Lasciava che il nemico parlasse da solo e inciampasse nelle sue debolezze. In lei, nel suo sangue, scorreva l’anima delle Tre Pievi. Da una parte l’antico retaggio della Val Bregaglia da dove proveniva la sua famiglia paterna, accusata di tradimento dal Barbarossa. Dall’altra lo spirito spietato e sanguinario di quel condottiero che aveva cambiato le sorti delle sue terre, inglobate dalla corona spagnola. Maddalena si ribellava soltanto a un mondo che la insultava e che le faceva promesse senza mantenerle. Gabriele gli era sempre sembrato diverso. Certo, un perverso. Ma sadico anche nel dire la verità, per il piacere che l’altro la conoscesse. Lui uccideva, ma mai pugnalando alle spalle. Gabriele, in questo, era onesto. Era certa che, anche se lui non lo volesse – e nemmeno lei, del resto – avrebbe dato garanzia ai voti che aveva fatto dinnanzi all’Eterno, nella buona e nella cattiva sorte. Si guardò ancora la fede all’anulare – nuova, ancora brillante e senza graffi – e, come una carezza a mani nude sulle sue spine, gli chiese “Ti manca la Riviera, vero?”. Lui non rispose alla sua domanda ma le disse “Io il tuo spillone te l’ho restituito!” e poi la lasciò lì, in sospeso, nell’umidità impregnante dei piani inferiori a lei sconosciuti. Non aveva mai sentito i piedi così radicati al suolo.

Una cameriera molto giovane, poco più di una bambina, entrò timida e le domandò se avesse bisogno di qualcosa. “No, non ho più fame…” rispose. “Però, aspetta!” la fermò “Potresti venire su nella mia stanza per pettinarmi, sai stamattina la mia serva personale è indisposta…”.

“Certo, signorina Stampa. Le porto anche qualcosa per colazione, sa non fa bene saltare i pasti adesso che si è sposata…” rispose fin troppo entusiasta per il compito che le era stato assegnato. Di certo, meglio sciogliere i nodi a una pazza piuttosto che spalare il pollino per concimare l’orto, magari, prima o poi, anche ser Mezzera – quanto era affascinante – le avrebbe rivolto la parola. “Si corregga!”. La servitù era così, non lo lasciava intendere, ma riusciva ad ascoltare anche attraverso i muri. “Oh, mi perdoni, forse non dovevo farmi gli affari suoi…” si scusò “Volevo solo ricordarle che sono la signora Mezzera! Ci vediamo tra un attimo, allora?!”. La serva si inchinò e, finalmente, anche Maddalena lasciò la stanza. Le erano stati necessari due giorni per rendersi definitivamente conto che si era sposata.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
La digressione storica su Gravedona e sul Medeghino (Gian Giacomo Medici) sono cronaca. Il padre di Nicola Stampa, Giovanni Antonio, era il Pretore della Valsassina (anche la Valsassina, insieme alla Riviera, era una giurisdizione degli Sfondrati) al momento del processo dei Carganico. Non si sa quale ruolo abbia avuto nella vicenda, ma immaginiamo che la corruzione e le congiure fossero all’ordine del giorno in quel contesto. Casa Stampa si ispira al Bed&Breakfast “Al Castello” di Gravedona e al Municipio, sito in Via Volta vicino al Belvedere di Prà Castello. A Gravedona, lungo il lago, esiste anche Viale Stampa, memore di una delle famiglie più importanti e antiche del borgo.

8*01 – Noli me tangere

È l’espressione rivolta da Gesù risorto alla Maddalena sgomenta e vuol dire “non trattenermi”. Qui i ruoli sono ribaltati nel titoletto, come a ribadire il temperamento poco santo di Maddalena. Inoltre, si fa anche riferimento al fatto più profano che il Gabriele della nostra storia è risorto.

Nel gennaio 1656, il vincolo del matrimonio era saldato dal decreto del tametsi. Quantunque si volesse scappare, dinnanzi a due testimoni e a un parroco che avesse detto “siete marito e moglie”, si doveva accettare la propria sentenza. Il vento di porpora e santità del Concilio di Trento, aveva voluto mettere il veto ai legami clandestini, ma quelli – volersi amare contro tutto e tutti – se li potevano permettere solo i contadini; i ricchi decidevano in base alla convenienza, così che i sentimenti non lasciassero spazio ai malintesi. Ci si sposava per soldi, in pratica. Quantunque, non si doveva dubitare.

Con entrambe le sue mani dinoccolate, Gabriele sollevò con delicatezza dal volto della sua sposa la fiandra finissima puntinata di minuscoli nontiscordardimé a ricamo d’oro. Il suo corpo minuto era stato infilato dentro a un voluminoso abito con un ampio strascico, che pavimentava la chiesa luminosissima dalle sue spalle esili fino a metà navata. Non le doveva calzare giusto, ma soltanto cucirle addosso il suo prezzo, la somma di denaro che il suo promesso aveva dovuto versare al padre in caso di vedovanza. E lei? Lei cosa portava in dote di più prezioso di quello spillone per capelli con la capocchia ornata di perle veneziane dal quale non si separava mai?

Gabriele non lo sapeva, ma Maddalena non portava le scarpe perché l’avevano trascinata al suo cospetto, alla sua festa, con la forza.

Si sforzò di sorriderle – non voleva che lei avesse paura – e le sfiorò la fronte con le labbra, come si baciano i bambini. Lei non emise nemmeno un respiro e rimase impassibile guardando verso l’alto, non in faccia al suo sposo, più verso al Cielo. Non aveva pianto e non lo avrebbe fatto nemmeno in quel momento.

Era passata una settimana abbondante dal giorno del fidanzamento a quello delle nozze. Gabriele si immaginava che anche il suo finto funerale fosse stato così, un’incombenza da dover sbrigare in fretta. Ai lati dell’altare della cappella di famiglia stavano in piedi i testimoni: il dottor Giorgio Serponti, il migliore amico di Gabriele, e Sebastiano Scotti, figlio del suo compagno di ciurma, nonché marito della cugina di Maddalena, Marta, seduta in prima fila con le mani a tenere al riparo il suo stato interessante. Proprio dietro a lei svettava Nicola Stampa, il padre della sposa, con vicino Drusiana, sua sorella e Gusmeo, suo marito e padre di Marta.

Appena dietro, ma saltando una schiera di banchi, da Bellano erano arrivati anche Giacomo Mezzera e sua moglie Caterina, i genitori di Gabriele. Erano giunti in ritardo per via dell’impossibilità di un viaggio sul lago con quel clima rigido; avevano dovuto fare il giro largo con la carrozza scendendo dal Pian di Spagna. La madre di Maddalena, invece, non era potuta venire perché il vento maestrale che precedeva i giorni della merla le stava causando un violento mal di testa che la costringeva a letto al buio. L’unica a versare lacrime di commozione durante la cerimonia fu Elvira, la serva personale di Maddalena, seduta agli ultimi banchi.

La chiesa di Santa Maria delle Grazie era da tutti conosciuta come il Convento, poiché si trovava nel monastero agostiniano che dominava il borgo di Gravedona. Il matrimonio era stato celebrato nella cappella della quale, da secoli vetusti, gli Stampa erano beneficiari. Era dedicata a Sant’Antonio, il patrono degli allevatori, guardingo a trovare tutto ciò che manca con il suo porcellino docile ai piedi. Qualsiasi bambino, però, temeva la sua Madonna del Cifulet. In quella tela una Madonna pasciuta cercava di bastonare un demonio con la foggia di un rapace e la faccia del diavolo al posto del fallo.

Come da accordi, Gabriele era stato pronto a presentarsi da Nicola Stampa quattro inverni prima. Non era mai venuto a meno alle sue promesse e aveva eseguito diligente tutti gli ordini, ma non era stato ricompensato. Anzi, come il Cifulet, era stato castigato.

In quell’occasione il suo nuovo padrone gli disse “Ora che sei tra gli Stampa, ti comporterai da cristiano”. Intendeva che poteva benissimo andare al bordello, ma si doveva dimenticare gli spettacoli in piazza. Nicola Stampa non voleva che qualche marito offeso potesse cercare vendetta. Gli Stampa versano sangue solo se strettamente necessario. Di fatto, Nicola Stampa si occupava di macellerie.

“Dovrò frequentare il catechismo?” chiese Gabriele, con il suo solito fare da strafottente.

Nicola Stampa rise. Non perché lo trovava divertente, ma perché sapeva che – presto – Gabriele avrebbe smesso di fare il simpatico. I suoi bravi dovevano fare paura, non cincischiare come giullari.

“Bene, iniziamo oggi. Lo sai chi è l’Arcangelo Gabriele?”. Nicola sapeva ritorcere le armi dei nemici contro i nemici. Quello smargiasso doveva capire da che parte stare.

“Chi è l’Arcangelo… Gabriele?”. Gabriele non voleva perdere tempo in chiacchiere.
“Come non le sai le preghiere?!” lo stuzzicò Nicola.
Ave Gratia Plena, dominum tecum! Questa?” lo fece contento.

“Ecco, devi stare attento che rimanga tutto così, pieno di grazia perché il Signore è con te!” gli spiegò l’andazzo.

Gabriele provò subito nostalgia per i tempi che aveva passato a fianco dei Serponti sulla Spartivento. Se solo non avesse esitato, se solo non avesse provato umanità… Forse aveva ragione il suo nuovo amico, per fare quello che faceva doveva essere spietato. Ma senza pietà sarebbe stato un animale selvatico nella morsa di una trappola, feroce ma inoffensivo.

Scusi, ser Stampa!?” chiese la parola. Nicola Stampa era un uomo decisamente chiuso al dialogo. Per lui discutere era una perdita d’anticipo che lui voleva avere nell’ottenere quello che pensava.

“Gabriele, l’Arcangelo, disse al profeta Daniele che erano necessarie settanta settimane per la fine della cattività in Babilonia. A me quante ne servono?”. Gabriele conosceva molto bene l’Antico Testamento. Nessuno lo avrebbe mai immaginato, perché lui detestava le dissertazioni teologiche, ma credeva che il Mondo fosse governato da qualcosa di più grande, terribile e inspiegabile. Non lo avresti mai trovato a sgranare il Rosario, ma portava a Dio il giusto rispetto.

“Non dovrai uccidere, qui nelle Tre Pievi non siamo degli animali come nella Riviera. Per noi esiste l’onore!” lo rassicurò. Nicola Stampa era uno di quei sognatori che credeva ancora delle regole. Per esempio, i bambini e le donne non andavano toccati. I codici, secondo lui, servivano per non far perdere la riverenza. Sei un sicario, non uno scavezzacollo.

Nicola Stampa gli spiegò laconico il suo compito. Doveva fare la guardia del corpo a Maddalena,
sua figlia. Era una sciroccata. Bizzarra, distratta e imprevedibile come quel vento che arriva da sud-
est impregnato dell’umidità del Mediterraneo. Però lui ancora non lo sapeva, allora pensò che non
gli fosse andata così male. Si trattava solo di badare che una ragazzina non si tagliasse con il perno
delle sue trottole. O di raccontargli, frattanto, la storia della bella principessa che cadde
addormentata pungendosi con un fuso e del principe che la svegliò con il bacio del vero amore. E
buonanotte.

“Ci siamo intesi?”. Gabriele non aveva ascoltato l’ultima parte, ma era sicuro che Nicola gli avesse
detto che nessuno, lui compreso, doveva guardare sotto le gonne di sua figlia, affinché arrivasse
illibata e vendibile nella sua alcova.

Gabriele annuì.

“Allora puoi andare, ciao Gabriele!” lo congedò mimando con la mano il gesto di lasciare la stanza.
Vaffanculo, Nicola.

Gabriele uscì dalla porta attento a non sbatterla. Aveva appena imparato che fuori si uccideva a mani nude, ma dentro Casa Stampa si viveva in punta di piedi. Dalla penombra di quel pomeriggio inoltrato emerse una donna alta almeno cinque centimetri più di lui, dalla presenza imponente ed esuberante nella sua bellezza. La luce fioca del lume ad olio sopra le loro teste illuminava la sua veste semplice in velluto e la sua liscia chioma rossastra che la facevano apparire apparire pregiata come legno di mogano.

“Forse, non avrei dovuto origliare…” disse, ma senza scusarsi.

Dal modo di vestire Gabriele capì che doveva essere una degli Stampa e non una sguattera. “Con chi ho l’onore di parlare?”domandò.

“Drusiana Stampa, la sorella di Nicola. Tu sei Gabriele, quello nuovo?”. Non menzionò di chi era moglie ma aveva la fede al dito. “O dovrei dire quello che si è quasi fatto uccidere!?”.

“Per questo mi hanno messo a fare la balia? Perché non sono un bravo bravo?” le rispose con un’altra domanda. Gli piacevano le donne poco permalose e abbastanza intelligenti per poterci scherzare.

“Oh, non dovresti prendere il tuo compito così sotto gamba…” lo guardò letteralmente dall’alto al basso.

“Ah, no?”. Era una donna: che cosa ne voleva sapere del pericolo?

“Sai, sono io a dovermi preoccupare che questa famiglia funzioni. Nicola si occupa del denaro e di chi ostacola la nostra ricchezza. Caterina, la madre di Maddalena, pensa a pregare per tutti. Se ne sta murata viva ad aspettare la morte. Maddalena è diventata pericolosa. Per sé stessa, per noi… La definirei ingestibile” gli spiegò.

“Morde? Ha la rabbia?”. Avevano paura di una ragazzina? Suvvia!

“Devi stare attento a non innamorarti di lei! Non solo perché mio fratello venderebbe le tue palle in una delle nostre macellerie, ma soprattutto per te!” lo mise in guardia. “Non c’è problema. Io non posso toccare nessuna, perché qualsiasi cosa che tocco si rompe” la rassicurò.

“Avevo sentito altre storie su di te…” fu scettica.

“Un’altra vita!” si giustificò.

“Lucia, giusto. Si chiamava così!?”. Rimestò dentro la ferita e probabilmente lo fece apposta.

Drusiana Stampa: sorella di Nicola, moglie Gusmeo Sabbati e madre di Marta, otto anni più grande di Maddalena e già sposata con figlio di Francesco Scotti della Spartivento, fratello di Elisabetta, moglie di Giorgio Migazza. Gabbriele aveva partecipato ad entrambi i matrimoni. Al primo come invitato. Alsecondo aveva incontrato Lucia nel confessionale. Ecco dove l’aveva già vista. Era la donna con la quale Lucia si era presa a male parole durante quella notte. Che cosa aveva provocato la lite lo sapevano solo loro. Cose di donne, tagliava corto Lucia quando lui le domandava.

“E se invece una fosse già rotta? Rotta, dico, non pazza” si stava descrivendo.
“Cazzi suoi!”. A Gabriele quegli Stampa e la loro mania di onniscienza stavano già dando sui nervi.

Forse fu così che iniziò tra Drusiana e Gabriele. A lei serviva qualcuno da apostrofare come una badessa e a lui serviva un modo spiccio per farla stare zitta. Se non poteva fare come prima, allora si sarebbe fatto la sorella del Capo. Che, a ben vedere, era già un miglioramento. Durò centocinquantasei settimane.

Drusiana lo consolò per Lucia. La sua mancanza era diventata presenza, ma alleviare la sofferenza non vuol dire rendere felice qualcuno. Per amare bisognerebbe guarire, prima. Ma guarire voleva dire perdere l’ultimo filo che lo legava al passato.

Drusiana era una monachetta dotta. Sembrava quieta ma dentro urlava per essere salvata. Era ben calata nelle dinamiche famigliari. Gusmeo, suo marito, teneva i conti per Nicola. Nicola non era un macellaio, ma un bechèr, lui la carne la vendeva. I macellai gli pagavano le tasse in mano a Gusmeo, odiato e intoccabile perché preciso. Non era dissoluto in maniera sfrenata. Voleva un moglie che fosse solo altera, ma lei era anche una madre fertile e questo lo scocciava. Andava al bordello e poi faceva donazioni alle suore. Non amava sedurre. Aveva contratto il male francese, la sifilide. Perciò, lamentava spesso dolori alle ossa, era calvo alla sommità del capo, si grattava spesso come se avesse le pulci fino a scorticarsi e si sturava con il mignolo le orecchie per togliersi il fastidio del ronzio. Lui e la moglie non dormivano più insieme da quando Marta, la loro figlia, si era sposata, anche se si recavano insieme alla santa messa domenicale. Drusiana viveva la vita di un’ape regina.

Nicola sapeva bene che cosa Gabriele andasse a fare nelle stanze private della sorella e non si oppose nemmeno quando, dopo qualche mese, lui portò lì le sue poche cose. In ogni caso, a Casa Stampa le decisioni avvenivano in silenzio assenso. Se andava bene a Nicola, andava bene a tutti – in un modo o nell’altro.

Poi, giunse quell’altra intensa notte tra Natale e San Silvestro del 1655. Giaceva supino in uno stato di dormiveglia. Drusiana, alla sua sinistra, si era rannicchiata in posizione fetale. I piedi freddi premevano sulla sua coscia. In lontananza si sentiva un gruppetto di girovaghi suonatori di piva dalla bergamasca che suonavano i loro stornelli stipati in qualche corte per vendere l’olio d’oliva. L’è ‘l Bambin che porta i belé? L’è la mama che spent i danée? A Gabriele queste canzoni unite alle note acute della zampogna premevano su quel punto del cuore da dove nascono le lacrime. Il Natale gli dava questa sensazione di malinconia atavica e lo odiava. Si sentiva ancora in guerra e non riusciva a dormire.

Bussarono alla porta. Erano Nicola in persona seguito da Gusmeo come un cagnolino. Non aveva mandato altri sgherri al posto suo. Che cosa poteva aver disturbato i suoi sogni di gloria?

“Maddalena ha dato in escandescenza” disse Nicola con la faccia rossa di collera. La giugulare gli sarebbe scoppiata se non si fosse calmato. Gabriele guardò Gusmeo interrogativo. Capitava spesso che quella bambina capricciosa improvvisamente manifestasse la sua rabbia con violenza oppure con atti incontrollati. Talvolta erano anche solo parole, di quelle che non ti aspetteresti uscissero dalla bocca di una ragazza di buona società. “Devi sistemare una situazione” disse Gusmeo. “Ci dispiace averti disturbato” aggiunse, come se non fosse nella stanza da letto di sua moglie.

Gabriele scese le scale con loro, attraversò il cortile loggiato e si diresse verso l’appartamento di Nicola, dove Maddalena aveva residenza. Gli fecero cenno di entrare, loro non lo avrebbero fatto.

Davanti allo spettacolo raccapricciante non riuscì a dire nient’altro. “Che cosa hai combinato?”. Maddalena non disse nulla. “Perché?” aggiunse. Ma non ci fu ancora risposta. In apparenza, era avvenuto tutto per futili motivi. Una banale lite tra ragazze.

Elvira, la serva personale di Maddalena, quella che le sceglieva i vestiti e le scioglieva i nodi dai capelli, giaceva svenuta a terra con uno spillone per capelli conficcato nella lingua.

“Presto, manda a chiamare Giorgio, che cosa fai lì impalata?! Esci e dì a tuo zio di mandare al Convento qualcuno che chiami il dottor Serponti e bada bene che sei stata fortunata che il mio amico si sia messo a fare beneficenza!”. Giorgio, per potergli essere più vicino, si era messo a fare le notti in Convento per assistere le suore più malate o ai parti delle adultere. Si sentiva in colpa per non sopportare più di dormire con sua moglie e, non avendo il coraggio di andare al bordello, si riempiva di lavoro. Questo era il suo modo per comprarsi l’indulgenza.

“Ebbene?”chiese Gabriele quando Giorgio riapparve nel corridoio. Era rimasto ad aspettare fuori dalla stanza. Anche Maddalena era rimasta lì. Non si erano detti una parola e si limitavano entrambi a guardarsi torvi. Giorgio gli porse in mano lo spillone. Simulava un albero cinto da una corda, lo stemma più antico degli Stampa. Maddalena lo aveva ricevuto in dono da sua nonna e ogni mattina si faceva agghindare i suoi fluenti ricci corvini mettendolo a tenerli a bada come una chiave di volta. Sembrava che se non lo portasse sarebbe crollata. “Guarirà ma rimarrà muta!” spiegò Giorgio, che non era uno da iperbolici eufemismi. Gabriele guardò Maddalena – per quanto dispiaciuta, sembrava anche fiera. Non l’ho uccisa, ma l’ho offesa. È davvero una colpa? Non si capacitava della sua crudeltà, ma aveva capito che poteva reggerne il peso sull’anima. “Ora tu vai a dormire da tua madre e io pulirò il sangue dal pavimento. Sparisci dalla mia vista almeno fino a domani!”.

“Grazie Giorgio!”. Giorgio scosse la testa. “Le suore hanno chiesto una piccola penitenza perché il peccato rimanga nel silenzio del confessionale” gli comunicò. “Elvira non potrà più sposarsi per via della sua menomazione, ma…”. A Maddalena era stato risparmiato un processo, però le monache non volevano bruciare all’Inferno a causa sua – tanto, nessuno avrebbe sposato una pazza. “Dovrà farsi suora?” chiese Gabriele. Se non fosse stata la sua condanna a morte, avrebbe riso per tale punizione. Quella Maddalena era l’esasperazione di tutti i vizi di quella famiglia di presuntuosi.

Gabriele fu condotto con urgenza nello studio di Nicola Stampa, l’indomani.

“Sei intelligente, il più intelligente dei miei bravi. Quindi saprai già perché ti trovi qui” lo riempì di false lusinghe.

“Di Maddalena si occuperanno le suore. Quindi, il mio lavoro qui è finito? Mi state licenziando?” cercò di arrivare al dunque.

“Temi per la tua pellaccia, è giusto. Non sei scellerato, questo ti fa onore!” mandò avanti il teatrino del lenocinio. Nicola si riferiva al fatto che senza la sua protezione il Duca l’avrebbe condannato per Alto Tradimento. Come pena, sarebbe stato arso vivo. “Ma voglio dimostrarti che ti voglio bene. Sei parte della nostra famiglia. Vero Drusilla?”.

Gabriele si accorse che anche Drusiana, o Drusilla come la vezzeggiava il fratello, si trovava nella buia stüa di cirmolo. Era muta, come se anche a lei avessero tagliato la lingua. E chi, più di lei, l’aveva accolto nelle stanze fredde di quella casa di carnezzieri?

“Grazie, ser Stampa”. Gabriele cercò di dimostrare riconoscenza.

“Se Maddalena si fidanza non c’è motivo per cui lei si faccia suora. E tu continuerai ad essere la sua guardia anche dopo il matrimonio!” lo rassicurò Nicola.

“Avete già trovato un uomo? Lo devo convincere al silenzio sulla faccenda? Non c’è problema ser Stampa!”. Gabriele non ci credeva, ancora una volta la sorte lo aveva risparmiato. In un’altra vita, era stato sicuramente un gatto. Fu in quel momento che Drusiana rise. Aveva una risata che scoppiettava secca, come tizzoni ardenti sotto le bucce di castagne.

“Gabriele, la sposerai tu!” disse Nicola come ovvietà.

Scosse la testa e rise nervoso. Non poteva chiedergli quello. Lui era lì per uccidere non per sposarsi.

“Sei al nostro servizio!” disse Drusiana.

“Lei è d’accordo?!”. Gabriele si riferiva a Maddalena.

“Lei è mia figlia e fa quello che dico io, è la legge. Oggi faremo affiggere le pubblicazioni, nessuno si opporrà e con l’anno nuovo sarai sposato. Intanto, Drusiana porterà Maddalena in convento e si assicurerà che ci stia. Non vorrei che la gente dicesse che ha consumato prima del matrimonio. Ed Elvira resterà al servizio di Maddalena.” spiegò Nicola.

Gabriele doveva soltanto decidere tra la vita e la morte.

Aveva vissuto quegli anni nella tela del ragno e si era illuso che Drusiana, almeno lei, gli volesse bene. Invece, era solo uno sgherro. Improvvisamente, gli tornò in mente Lucia. I suoi occhi blu troppo aperti che la facevano sembrare stralunata. Lo doveva a lei, doveva salvarsi. Doveva onorare la vita.

“Maddalena Mezzera” disse a bassa voce.

“Come?!” chiese Nicola. Drusiana, invece, aveva capito benissimo e arricciò il naso.

“Diventerà Maddalena Mezzera” ripeté. Nicola sorrise soddisfatto. Gli sembrava, quasi, di avere insegnato qualcosa a Gabriele che, invece, non imparava mai dai suoi errori. Era la sua alterigia che lo avrebbe ucciso definitivamente.

“Nessuno parlerà più” concluse ser Stampa, abbastanza convinto che il marito di sua figlia non sarebbe stato peggio di altri.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Gabriele Mezzera (1595-1665) sposa Maddalena Stampa all’età di 61 anni (lei era nata nel 1628, nel momento delle nozze lei aveva 28 anni – non proprio di primo pelo rispetto alla media). Le differenze sostanziali di età in quell’epoca erano assai diffuse nei matrimoni. Nella narrazione abbiamo semplicemente lasciato trasparire se due persone sono coetanee oppure no. Non ci è dato sapere cosa abbia fatto Gabriele nella sua vita privata prima di Maddalena, sicuramente la vita da bandito non lo aiutava ad essere un buon partito. Maddalena, probabilmente, viene fatta maritare tardi perché non era la primogenita. Ma a noi ci è piaciuto immaginarcela una ribelle, la moglie perfetta per un indomito come Gabriele. La figura di Elvira e il conseguente intrigo , infatti, sono finzione.
La chiesa di Santa Maria delle Grazie, più conosciuta come il Convento, ha una cappella legata alla famiglia Stampa così come la troviamo descritta (con la tela della “Madonna del Cifulet” che potete approfondire qui ). Nicola Stampa e Gabriele erano pressoché coetanei. Drusiana Stampa, la sorella, in realtà, muore nel 1640, l’anno in cui la figlia Marta Sabbati fu Gusmeo sposa Sebastiano Scotti. Gabriele e Maddalena si sposano nel 1656. Maddalena non è rea di nessun misfatto, che io sappia. Elvira è un personaggio inventato. Nicola Stampa si occupava di una rete di macellerie. Su Gusmeo Sabbati non sappiamo nulla, a parte che il suo cognome è uno dei cognomi più notabili di Gravedona (esiste anche una via). Non ci è dato sapere se Gabriele fosse al servizio degli Stampa ma è verosimile dato che sposa la figlia di Nicola e dato anche il suo passato. Maddalena (n.1628) ha due fratelli che qui non sono menzionati: Giovanni Antonio (n.1612, sposerà una Stampa di un altro ramo) e Simone Epifanio (n.1632, sposerà una parente paterna dei Cossoni). La madre di Maddalena è Caterina Mantica. Il Decreto Tametsi sui matrimoni fu emanato nel contesto del Concilio di Trento e fu anche iconicamente trattato dal Manzoni nei Promessi Sposi. Lo stornello degli zampognari citato è “Piva Piva”.

7*01 – Ingenium superat vires

È il motto della famiglia Curti (il lato materno degli Stampa di Gravedona). Significa che l’intelligenza prevale sulle avversità della vita ed è una frase tratta dal “De Arte Gladiatoria Dimicardi” di Filippo Vadi, ossia un trattato medievale sulla scherma. Qui si è voluto anche citare La Divina Commedia di Dante in traduzione. “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, Canto XXVI).

Lucia camminava fiera. Il suo sciabordare le conferiva quella dignità che la sollevava, seppur di un poco impercettibile, dal suolo e i suoi passi parevano frusciare sopra il fango del Mondo. L’aria pungente di gennaio mitigava il sole che rendeva il cielo di quel pomeriggio invernale azzurrissimo, mentre lei stava procedendo dalla Capoana alla Villa dei Serponti come se niente la potesse più scalfire.

Generalmente, il limite che la consuetudine obbligava le donne a tenere il lutto stretto, vestite di nero e rigorosamente senza gioielli, era fissato a sei mesi per le madri e a tre mesi e mezzo per le vedove. Il Duca, però, aveva espresso le sue condoglianze solo a donna Caterina Aureggi. Per gli altri, Gabriele Mezzera non era un figlio e andava rinnegato come un qualsiasi farabutto che si era condannato da solo al patibolo per Alto Tradimento. Ma Lucia non era gli altri.

Il funerale di Gabriele era stato celebrato quasi quattro mesi prima. Al posto del rito funebre, ci fu solo una preghiera veloce all’alba nell’Oratorio di Santa Marta di Bellano. Al Duca non era ancora andata giù, ma avevano partecipato anche tanti nemici. Gabriele Mezzera era molto stimato nel suo genere, quello di chi uccideva a pagamento. A modo di suffragio, si chiese all’Altissimo indulgenza per le sue colpe. Lucia si era unita ai suoi fratelli all’altezza del fianco sinistro della navata recitando l’Eterno Riposo a un palmo di naso dalle statue del Compianto. La Madre avvinta portava la mano sul cuore fermo del Figlio e la Maddalena, dolente ai piedi del cadavere, spariva nelle sue lacrime urlate e nei suoi lunghi capelli color grano.

Non c’era famiglia a Varenna, a parte la sua, che poteva concedersi un abito prezioso e alla moda come quello che stava indossando lei. La gonna ampia e lucente di velluto di Genova, venduto a cinque libbre al palmo, spazzava la
polvere dal selciato insozzando le sue vistose bordature in broccato. In Italia il verdugado, la foggia del guardinfante, ossia la sottana in vimini per far sembrare le donne dei cesti da afferrare dai fianchi, non ebbe lo stesso successo che nell’inamidata corte spagnola. Ciò nonostante, il corsetto con le stecche di ferro teneva stretta la vita e spremeva i seni, stringendoli quel tanto che bastava per far sentire il dolore della bellezza e mostrare caritatevole la nobiltà femminile fuoriuscente dalla scollatura ampia ornata da merletti. Lucia avrebbe potuto sembrare una sposa se i toni del vestito non fossero stati quelli delle terre bruciate ricamate d’oro.

Ma questo suo ondeggiare da volpe, mai impacciata sui suoi passi, sembrò arrestarsi appena si approcciò a salire i gradini in pietra dell’entrata secondaria della Villa dei Serponti, come se avesse un timore ancestrale e, da un momento all’altro, sarebbe sprofondata negli Inferi. Quelle scale conducevano all’ala ancora in restauro del palazzo. Lucia si sfilò uno dei guanti in pelle morbida stando attenta a non rovinare il pizzo macramé del polsino e bussò decisa. Non ottenne nessuna risposta, allora spiò dentro la stanza dalle gelosie che si affacciavano sul ballatoio. Era buio, ma si sentiva qualcuno respirare. Ritornò davanti alla porta di legno massello decorata con losanghe ad intarsio e si appese di nuovo al battente con più forza.

La porta si aprì con un cigolo sordo e ne venne fuori una figura stropicciata, di poco emaciata, con la barba sfatta da giorni e i riccioli folti che la accolse con uno sbadiglio sonoro.

Era Gabriele Mezzera, quello che era stato seppellito. Quando si trattava di lui, Lucia diventava una pazza, era capace di follie che ti fanno chiedere perché le stai facendo, ma le fai lo stesso.

“La mia vedova!” la accolse mostrandole uno dei suoi sorrisi accennati, perché di meglio non sapeva rendere. Lei non sapeva mai come salutarlo. Un bacio? Un abbraccio? Sventolando la mano? Sarebbe stato tutto troppo. O troppo poco. Si spinse soltanto dentro la stanza buia che sapeva di chiuso e di sonno annoiato.

Non si dissero nulla a parte buttarsi subito sopra il letto sfatto.

“Ciao, Pazza!” la salutò lui quando era arrivato quel momento in cui qualsiasi gesto viene fatto solo al fine di sé stesso, non per giochi di seduzione, e come se la stesse guardando per la prima volta. Lei lo accarezzò indugiando con il pollice sulla fossetta destra al lato della bocca. Lui si lamentò un po’ perché le faceva il solletico. “Gà, ti devo dire una cosa!” sussurrò lei, con la bocca ancora impastata d’amore. “Che mi ami di un amore profondo e disperato?” scherzò lui. Gabriele Mezzera a una frase del genere si sarebbe offeso, non glielo si poteva dire anche se fosse stata la verità. Lei si mise seduta, coperta a malapena dal lenzuolo bianco. Sembrava una bambina, più che la mala mujer che tutti si vantavano di aver posseduto. Scosse la testa guardando in basso. “Tempo scaduto?” chiese lui. Ma non era una domanda.

Lucia stava morendo.

Gabriele la guardava in silenzio, non sapendo che dire. Lei non sapeva come consolarlo. Infondo, era lei che aveva paura.

Lucia era malata, ma per la sua malattia non c’era né una causa né una cura e perciò la definivano una pazza. Il prete diceva che era una punizione per le sue malfatte. E il Signor Curato? Lui come si sarebbe giustificato con San Pietro per ciò che faceva in sacrestia?

Era iniziato durante il periodo delle mietiture, in quell’anno in cui lei era una bambina che stava per sbocciare. A maggio, si associava alla febbre reumatica uno stato tipico delle ragazze che si approcciano ad essere maritabili. Il cuore, che le batteva all’impazzata, le causava un forte dolore al torace. Dice che è malata per non mangiar polenta, si cantava ai tempi.

La febbre alta, però, durò una settimana e quando Lucia riuscì a rimettersi in sesto sentiva dentro lei che qualcosa era cambiato, nel suo umore. Era spesso irritabile, vuota e non provava più compassione. L’unica cosa che le faceva sentire qualcosa era accarezzarsi, anche nei suoi punti più oscuri. Era convinta che nessuno l’avrebbe voluta abbracciare senza chiederle nulla in cambio. Era diventata una dolce castagna ben protetta dal suo riccio. Così prese a rendersi prontamente disponibile per uomini o, parimenti, donne. Preferiva che i suoi fratelli la considerassero una poco di buono, che un’inutile sorella malata della quale non si sarebbero mai potuti liberare. Lucia non voleva fare pena.

Erano già passati degli anni quando, frattanto, non riusciva più a governare il suo corpo se si metteva a muovere nei passi di una danza che lei non voleva ballare, perché non ne conosceva il ritmo. Giorgio, suo fratello, la fece visitare da vari specialisti, compreso il dottor Serponti, che, sebbene fosse una zecca al culo, era il più giovane e il miglior specialista delle febbri terzane nell’Alto Lario. Esclusi i paragnosti convinti che andasse annegata nell’acquasanta, tutti i medici furono concordi nel constatare che si trattasse del Ballo di San Vito, l’antica malattia sconosciuta di chi non riesce a stare fermo e va fuori di testa. Dissero anche che l’avrebbe uccisa perché le sarebbero ceduti il cuore o i polmoni, improvvisamente o lentamente, e non si sapeva nemmeno quando. Era arrivata ad essere adulta e si era vissuta la vita anche attraverso quelle cose che una ragazza nubile per bene non avrebbe potuto fare rigorosamente alla luce del sole. Di nascosto, non sarebbe stato abbastanza divertente.

Cercava sempre di essere sobria, di prendere gli spigoli vivi, e soltanto quando il dolore la spaccava in due mesceva alcool e oppio, per cadere in uno stato di euforia inconscia. Per uscire completamente da sé. Ultimamente le mancava spesso il respiro e il suo cuore matto, talvolta, saltava qualche rintocco. Il dottor Serponti le spiegò che presto avrebbe sentito lo stesso dolore al petto che aveva sentito da bambina, mentre i mezzadri si accingevano a raccogliere i cereali maturi.

I suoi fratelli la credevano già morta da un pezzo. Non sarebbe mancata a nessuno. Giorgio si sentiva ferito e risentito: Lucia gli aveva rovinato la vita e la reputazione. Ma era stata la sua prima moglie, l’indemoniata, a infilarsi nel suo letto e a insegnarle bene come funziona il corpo delle donne. Con quella nuova, invece, gli era andata bene perché non era arrivata davvero illibata al matrimonio: Gabriele le aveva insegnato prima come far stare zitto un uomo. Antonio, invece, la vedeva come una bambola rotta. Tendenzialmente, si sentiva addosso tutto il peso della sofferenza delle donne perché la sua si era buttata nel lago. Lucia sapeva che poteva succedere alle donne che sono diventate madri. Si era infilata nel lago con dei sassi nelle tasche e non era colpa di Antonio, non era colpa di nessuno – ma suo fratello non era abbastanza razionale per chiudere la bara empia di una madre degenere che abbandona sua figlia. Se Giorgio le assomigliava molto fisicamente, la malinconia eroica di Antonio era uguale alla sua. Era inguaribile.

“Non vedrò la faccia dei miei fratelli quando resusciterai vicino a Nicola Stampa” cercò di ironizzare Lucia. Gabriele si era scurito in faccia e lei voleva spazzargli via le nuvole dagli occhi. Dentro di lei strisciava il dolore pungente di voler fare qualcosa di impossibile. Le mancava qualcosa che non aveva nemmeno vissuto.

“Ti sei scopata anche lui, vero?”. Gabriele ruppe il silenzio e Lucia alzò le spalle, fintamente innocente.

Per Gabriele era davvero più innocente lei nella sua sincerità, che tante altre bugiarde che aveva avuto sotto di sé. A lei la posizione di sottomissione non piaceva, anche se era l’unica accettata dalla Chiesa. Le altre il peccato lo facevano a metà. “Voto?” le chiese con curiosità maschia. Era stata anche con Tommaso, del resto. Gliel’aveva portata varie volte come bottino, per strapparla agli Sfondrati, senza poter muovere un ciglio, finché Tommaso si era reso conto che Gabriele e Lucia erano… Una coppia? In qualche modo lo erano. “Va beh, contenti voi!” commentò. “L’importante è che non ti fai uccidere dai suoi fratelli!”. Giorgio e Antonio facevano finta di non sapere, perché era uno smacco che la loro sorella preferisse il pane dei Mezzera. O forse perché preferivano che dormisse con lui piuttosto che dover fare le fusa al vecchio Duca.

Lucia non raccontava storie e lui non ne raccontava a lei. Loro erano fedeli così. ” Voto di castità, se Stampa fosse l’ultimo uomo rimasto in terra”. Lucia mentì – non era stato così male – ma agli uomini bisogna sempre dire che con loro è stata o la prima volta o la volta migliore. Gabriele, grazie all’intercessione dei Mornico, aveva avuto quattro mesi abbonati per riprendersi e per presentarsi dal suo nuovo Signore. Lei era andata da lui ogni giorno vestita a lutto come se fosse sua moglie. Era questa la sua vera risposta.

“Non dirò il tuo nome quando morirò!” butto lì lei, senza che le fosse chiesto. Lui non disse niente; intanto, tutto ciò che provava gli bruciava nella gola e nello stomaco come grappa. Non è che la loro relazione fosse segreta perché si vergognassero o temessero ritorsioni. Semplicemente, come tutte le cose intime, era sussurrata tra di loro. Non volevano che i loro sentimenti fossero una vaga motivazione, una chiacchiera, per sfidarsi con un coltello in un rozzo duello rusticano.

“Che vuoi fare oggi? Fumiamo?” le chiese lui, facendo finta che fosse un giorno come gli altri. Lei scosse la testa e lo baciò. Non gliene importava più nulla se si fosse urtato. Lei quel giorno lo voleva vivere da sveglia, anche se lo dovevano trascorrere dentro quella stanza a fare finta di non esistere per gli altri.

Il giorno in cui si erano incontrati – o scontrati, sarebbe meglio dire – Gabriele si era introdotto di sfrodo alla Capoana per avvelenare i cani dei Migazza. Erano due bracchi da caccia, stupidi come i loro padroni. Doveva essere una marachella, non qualcosa per intimidirli.

Lei arrivò quatta da dietro, scalza, con le trecce spettinate e una blusa leggera tenuta attorno ai fianchi da una sopravveste logora, mentre lui stava trafficando nelle tasche per cercare la pozione letale che doveva sciogliersi nell’acqua dei due segugi. “Basta che dai loro un tozzo di pane dei Mezzera!” le consigliò la ragazza.

Sembrava una principessa spodestata. Sembrava un fiore di campo che la brezza estiva smuoveva di poco. Il meriggio rifletteva di arancione il biondo cenere dei suoi capelli lisci che non riuscivano a incorniciare la sua bellezza strabordante al punto di essere offuscata, quasi bacata. Era gracile, vagamente deperita, con la pelle talmente diafana da virare nel cianotico, gli occhi cerulei e sporgenti come quelli degli agoni.

“Perché? Che ha di meglio quello dei tuoi padroni?” le domandò stizzito scambiandola per una serva. Una serva di quei buffoni dei Venini. Lei invece sapeva bene chi aveva davanti, era quello smargiasso di Gabriele Mezzera. Il più gradasso dei bravi di Tommaso Serponti.

Lucia sbuffò e poi si sbottonò velocemente la camicetta fissandolo in attesa di una reazione, dato che la stava guardando con gli occhi spalancati. Non si capiva se per timore o per stupore. “Eh, infatti c’è di meglio!” disse lui che razionalmente sapeva che in quel corpo non c’era nulla di florido, ma che non poteva fare a meno di toccare, se no sarebbe andato ai matti.

Lei gli spostò il largo palmo più a sinistra, per fargli sentire il cuore. Batteva a musica misurata. Gabriele rimase fermo anche quando lei si mise a trafficare con il cavallo dei suoi pantaloni, per sbottonarglieli.

Contro il muro del casino della ragnaia, annerito dalla fuliggine dell’inverno, si sentivano solo le api bottinare tra i fiori chiari della rigogliosa edera che si arrampicava dietro i loro corpi che si muovevano lenti.

Le mise una mano sulla bocca, non doveva sapere nessuno quanto le stava piacendo. Tra le tante cicatrici che Gabriele avrebbe potuto vantarsi di aver collezionato scampando dalla morte, spiccava quella dei denti di Lucia nel punto in cui il pollice mira con l’indice.

“Beh, io devo uccidere i tuoi cani ora…” le ricordò lui, mentre raccoglievano i loro vestiti da terra e si rivestivano a casaccio. Nella fretta, a lei cadde la catenina d’oro sul prato. Lui fece per raccoglierla e, girandosela tra le dita, si accorse che sulla medaglietta portava incisa una vipera, lo stemma della sua famiglia. “Cazzo!” disse guardandola strabiliato. Lei lo guardò interrogativa. Possibile che fosse talmente idiota da non sapere chi si fosse scopato?

“Sei Lucia…?” le chiese senza trovare un epiteto che le si addicesse. “Lucia La Pazza, intendi?” domandò ironica. “Volevo dire Venini ma mia mamma non vuole che io dica le parolacce!” incalzò “Oh, io invece lo so chi sei…” continuò lei con lo stesso tono. “Beh, io sono Gabriele Mezzera, non c’è nulla da aggiungere, no?”. Ormai il gioco delle funi tra di loro era iniziato. “Sei Gabriele Mezzera quello che non riesce a tenersi addosso i calzoni, giusto?” lo prese in giro. “Ne hai avuto la conferma, bionda!” le disse prima di girare sui tacchi. Lei non gli chiese di tornare e lui non glielo promise.

“Oh, ma i cani non li uccidi!?” lo richiamò indietro. “Mi sono scopato la loro sorella, pensi che non basti?” chiese indolente. Lei alzò il dito medio.

Poco tempo dopo, era cominciata a circolare quella voce che nessuno dei due aveva mai né confermato né smentito. Si erano sempre rincontrati così, in balia del fato, per tre anni fatti di pause e riprese, perché non sarebbe mai bastato.

Era stato un gennaio senza neve e particolarmente mite. A parte quel giorno in cui il vento sferzava verso nord, confondendo i nervi.

Gabriele sapeva che Giorgio non arrivava con buone nuove e, appena fu sulla soglia a suo cospetto, battendo i denti dal freddo, non ci fu bisogno di parole per capire. Eppure, Giorgio sapeva che l’umana psiche funzionava così: se non lo senti dire ad alta voce, non pensi sia vero davvero. “Si è addormentata” gli disse. Non aveva sofferto. Tirando un ultimo sospiro, aveva liberato la sua anima dal peso del suo corpo esausto. Avrebbe potuto fare tante domande, ma a Gabriele ne venne in mente soltanto una, anche insolita per un uomo scellerato come lui. “Si è confessata!?”. Giorgio disse di sì e lui rise di gusto. “Che cosa le hai fatto fare, Gabrio?” gli chiese il suo amico accompagnandolo nell’ilarità così tanto in contrasto con la gravità dei fatti. “Vorrai dire: che cosa ha fatto fare lei a me!” continuò a sghignazzare con la mente nel passato ormai remoto. “Se tu non fossi già morto, ti direi di confessarti anche tu!” lo punzecchiò.

Gabriele si infoschì all’improvviso. “Ha detto qualcosa prima di morire?” domandò serio. Giorgio era stato al suo capezzale; Lucia aveva voluto accanto a sé solo l’unico medico di cui si fidava. Erano tempi in cui persino tua madre poteva avvelenarti per via della faida. “Ha detto qualcosa come… tempo scaduto!”. Gabriele sorrise, quella era una frase che li legava. Non si auguravano mai arrivederci quando si salutavano, ma facevano tesoro del poco tempo che potevano concedersi – come un meccanismo ad orologeria, erano destinati ad evolvere negativamente.

“L’amavi, Gabriele?”. Era arrivato il momento della verità. Annuì impercettibilmente perché c’era qualcosa nel provare sentimenti umani che lo faceva vergognare. “Le ho promesso di non dirtelo, ma quella notte, quella in cui sei quasi morto, ha giurato sulla Madonna che se tu non ce l’avessi fatta sarebbe andata in giro a dire che vi eravate sposati in segreto!”. Gabriele sorrise talmente tanto e dopo tanto tempo da sentire tirare la mascella. Per la gente sarebbe solo stata una leggenda da raccontare alle educande più improbe, ma lui non aveva mai vissuto niente di più reale. Realmente, quella donna le aveva messo le mani nelle viscere per fare in modo che non si dissanguasse.

“Quindi, mi sa che per me è arrivato il momento di smettere di villeggiare ai Cipressi!” disse Gabriele, che sapeva che un uomo non poteva farsi fregare dalle sue stesse dimenticanze. I due si abbracciarono a lungo. “Buona fortuna amico mio!” lo salutò Giorgio tenendosi strette anche le sue lacrime. I veri uomini non piangono.

L’indomani Gabriele sarebbe stato a Gravedona, dall’altra parte del Lago, in piedi nello studiolo resinoso degli Stampa a fare finta di essere impassibile. Nel frattempo, la carrozza nera avrebbe trasportato a passo lento il feretro di Lucia dalla Capoana alla chiesa di San Giorgio a Varenna costeggiando il lago. Dietro di lei, la processione l’avrebbe accompagnata come una Santa.

Le donne avrebbero nascosto tra i sospiri di cordoglio quelli di sollievo; gli uomini si sarebbero tolti il cappello in segno di quel rispetto che mai avevano avuto per lei. Ai piedi dell’altare ci sarebbero state mille rose, quanti erano stati i giorni perché Gabriele capisse che cos’è l’amore e che la morte – solo la morte – rende tutto irreversibile ed eterno.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Lucia Venini detta La Pazza è un personaggio realmente esistito (1592-1652). La malattia (che io ho voluto fosse la Còrea) e la sua cronologia me l’hanno fatta scegliere come fantomatica amante-nemica di Gabriele. Il suo vestito è ispirato a un ritratto della Duchessa di Doria di Van Dyck – non per qualche motivo specifico, ma perché Genova era il posto più costoso dove reperire le stoffe nei nostri luoghi a quel tempo. La canzone popolare lombardo-piemontese citata è “La Bella Gigogin”, diventata celebre e metaforica durante l’Indipendenza Italiana, ma ispirata a canti già esistenti. Il “Compianto” di Santa Marta a Bellano è un’opera scultorea rinascimentale piuttosto notevole che potete conoscere clickando qui.

6*01 – El Mal de la Rosa

In spagnolo il “mal de la rosa” è la malattia che, in italiano, chiamiamo “pellagra”. È dovuta a una carenza alimentare o all’alcolismo. Il primo e più evidente sintomo è, appunto, la comparsa di macchie rossastre a forma di fiore.

Agostino, l’oste della Gatta, allungò di nascosto il vino rosso nella brocca di ceramica con dell’acqua da dietro il bancone in rovere schiarito dallo sfregare e dal tempo. Nell’osteria non c’era più nessuno, a parte i due fratelli seduti al tavolo vicino alla porta, dove erano soliti prendere posto. Erano già ubriachi e non ci avrebbero fatto caso alla truffa, specie se a servirli fosse stata Caterina, sua cugina, che indossava una camiciola di filato troppo leggero per intrattenersi a coprire laddove la natura era stata fin troppo generosa, aiutata dal corpetto in broccato allacciato stretto in vita. Dopo aver concesso qualche moina di troppo, la cameriera si era fermata ad aggiustarsi la tipica acconciatura del Lago, impuntata dietro la nuca con una raggiera di spadine d’argento. Dal numero e dal tipo di ornamenti si poteva sapere delle donzelle quanti anni avessero o se appartenessero al papà o al marito. La ragazza era fidanzata in casa anche se la coroncina mentiva di qualche anno sulla sua età effettiva: non aveva diciotto anni ma ventitré e, a quell’età, sarebbe già dovuta essere madre per non essere considerata passata.

Lo stesso discorso non valeva per gli uomini, molti dei quali butterati dall’abuso di alcool. Se l’acqua putrida provocava la febbre terzana, più si frequentava l’osteria, più ci si ricopriva di bolle pruriginose, una specie di lebbra non infettiva. Con la differenza che i lebbrosi si mandavano al lazzaretto, mentre gli uomini con la pellagra tornavano a casa ubriachi marci dalle mogli o, se non ne avevano voglia, si imbucavano in qualche bordello. Per le donne c’erano due strade, quella del convento o il matrimonio. Ovviamente decidevano i capifamiglia, ma spesso il castigo della tonaca era un sollievo. Anche la clausura sfociava in tormento, ma almeno il buon Gesù non era un demente pulcioso con la diarrea pronto a prenderti a cinghiate. Il destino delle donne era comunque uscire fuori di sé. Ed era il motivo per cui anche molte di loro, di nascosto, bevevano più degli uomini.

“Oh, tosa!” la richiamò uno dei due omaccioni seduti al tavolo “Mi hai mica dato il pane del boia?”.

Caterina aveva servito una pagnotta capovolta per sbaglio. C’era questa usanza di dire che le pagnotte girate fossero meno buone poiché destinate a quelli che, per mestiere, tagliavano le teste ai condannati a morte. Agostino la guardò seccato come a dire “proprio a loro!”. I due erano i fratelli Migazza, i panettieri di Fiumelatte, il gruppo di case più a tramonto di Varenna.

Caterina tornò al tavolo e si scusò con false lusinghe.”Ve ne porto un’altra!” fu gentile. Il cliente ha sempre ragione. L’altro fratello, quello che se n’era stato zitto, la congedò, non ce n’era bisogno. Eppure, non si dimenticò di buttare gli occhi dentro la sua scollatura. Mentalmente, ci stava rovistando dentro. Caterina aveva solo un difetto – ed era quello che l’aveva costretta ad essere nubile fino a quel momento – non riusciva a stare zitta. “Com’è andata la festa? Ho sentito che vostra sorella vi ha dato qualche grattacapo!” domandò anche lei infilando il naso in ciò che non le spettava di diritto.

L’insegna dell’Osteria, una gatta trafitta da un pugnale, era l’arma del loro cognome. Scanagatta significava attaccabrighe, una gatta da pelare, una femmina inferocita.

I Migazza non erano solo i frequentatori più assidui della Gatta, ma anche i più importanti. Erano il ramo cadetto della famiglia Venini, quello che abitava alla Capoana, la villa della Duchessa. La si chiamava così anche se Lucrezia Cybo Sfondrati nessuno l’aveva mai vista, nemmeno da viva.

“Assaggialo!”. Era un chiaro invito ad assaggiare qualcos’altro, il pane dei giustizieri, e Caterina non poteva rifiutarsi. Agostino, suo cugino, non era solo l’oste, ma anche il Sindaco di Varenna. I Venini avevano deciso così e lei non poteva permettersi di finire scannata come quella appesa fuori dalla porta dell’Osteria. Ne prese un piccolo pezzo e lo cacciò in bocca deglutendo senza masticare e annuì. “Ti piace eh? Non è mica il pane dei Mezzera!”. Si riferiva al fatto che i Mezzera di Bellano, oltre al fatto che producevano pane, erano anche rivali per la navigazione sul lago con l’altro lato della loro famiglia.

Alludeva sarcastico anche al fatto che Caterina era stata sedotta ed abbandonata da Gabriele Mezzera, al quale aveva concesso il fiore della sua giovinezza – ma lui se ne andava sempre senza fare promesse a nessuna e, come se non ci fosse limite al peggio, aveva giurato fedeltà in silenzio a quella troia debosciata di loro sorella, Lucia Venini. Gabriele Mezzera era una carogna.

Tutti gli uomini che erano tornati in anticipo dalla festa alla Capoana e che si erano accalcati tra le gambe calde della Gatta non parlavano di altro.

Lucia La Pazza si era presentata oscillante e completamente fatta di papavero, buttata dentro in a una sottana dalla quale trasparivano tutte le poche carni che erano rimaste appiccicate sul suo corpo smangiato via dai suoi peccati, con una fiasca di vino in mano. Nessuno osava dirlo, ma sicuramente se l’erano passata tutti di mano in mano come una sciscia persiana quella sera. Nessuno osava dire che come mosche, erano soliti posarsi sulla merda, perché nella loro testa si sentivano fuchi destinati all’ape regina. “L’avete poi trovata!?” si finse preoccupata Caterina. Aveva origliato anche che aveva insultato la moglie di qualcuno o quella moglie aveva insultato lei. Alla fine si erano prese per i capelli. Poi Lucia era sparita. Per un po’ l’avevano anche cercata.

Antonio, il più spiccio tra i fratelli, le rispose “Fa sempre così, poi torna!”. L’altro, decisamente più cauto nel far trapelare le voci, ricordò con una punta di astio “Nostra sorella è malata!”. Solo loro la potevano insultare e Caterina alzò le mani. Ma il suo pensiero non cambiava: non c’era nessun uomo che non sapeva com’era fatta la passera di Lucia Venini, probabilmente anche il prete e qualche donna annoiata.

Agostino lasciò il bancone e si avvicinò al tavolo. Non voleva che nel suo locale le risse portassero grane con la polizia. Aveva la stazza giusta per poter vigilare attento a mitigare le risse. Dalla Gatta si doveva star meglio che a casa.

“A proposito di sorelle, sapete che Caterina per me è come lo fosse…” buttò là l’inizio di una questione. Caterina increspò le labbra. Avrebbe voluto dire la sua riguardo. Era la cugina sguattera che andava maritata. Agostino non l’aveva mai fatta prostituire ma le ricordava spesso che, finché non avesse avuto un marito, il suo ruolo era quello: far pensare agli uomini che si sarebbe data e negarsi giusto in tempo. Non poteva fare altrimenti se no Agostino avrebbe svelato che le maldicenze che circolavano su quello che aveva fatto con Gabriele erano sincere. Anche se quello che le faceva più male era che Gabriele, che non era uno che si vantava delle sue conquiste, negava di averla mai conosciuta.

“Come la sistemiamo la faccenda?” continuò Agostino con senso pragmatico.

Caterina doveva sposare nell’imminenza Simone Brenta. L’uomo era in affari nel mestiere dei battelli con il lato primogenito dei Venini, i Bongioli, ossia la famiglia del quasi-suocero di Agostino. Era tutto pronto, avevano stipulato il contratto per la dote (poca roba) e per la controdote (quel che bastava) e ci avevano anche bevuto su fino ad avere sonno. Il Brenta era anche pronto a tergiversare sul fatto che Caterina avesse fatto la mignotta con quel Mezzera. A tutti stava un po’ sui coglioni perché aveva messo il pisello praticamente dentro a tutte le donne eccetto sua madre, ma si sapeva che era prassi. In qualche modo, le faceva arrivare preparate alle nozze. E a tutti faceva anche un po’ pena perché, se si fosse trattato di quella cagna in calore di Lucia Venini, diventava ancora più stupido di come in realtà già era venuto fuori dal buco sbagliato di sua madre.

L’unico piccolo e sostanziale problema l’aveva creato il signor curato, il prete che li avrebbe dovuti sposare. Cerca e ricerca, lui il certificato di morte della prima moglie non lo aveva trovato e perciò si rifiutava di sposarli.

Agostino non poteva chiedere aiuto ai Venini di Varenna, perché non voleva rovinare il suo fidanzamento con Laura, allora aveva pensato di domandare aiuto ai confini di Fiumelatte. I Migazza, tra le cose, erano anche i suoi fornitori di pane ed era abituato a negoziarci.

Erano entrambi due uomini rudi e collerici e facevano paura. Non erano buoni come il pane, nonostante il loro soprannome li richiamasse a una generosa mollica. Il nostro pane è morbido, mica come quello dei Pasquin di Bellano – che è tutto crosta. Si vendevano così e la concorrenza ricordava loro A tua sorella piace. Dovresti chiedere a tua moglie come ci piace, si difendevano.

Antonio, il minore tra i due, era deformato da un grosso ventre, ma era anche alto, perciò la sua robustezza lo rendeva imponente. Mancava di finezza. Era apprezzabilmente dotato di franchezza e naturalezza sia nell’insultarti sia nel raccontarti, senza fronzoli, qualsiasi crudeltà. Sua moglie si era buttata nel lago due anni dopo la nascita di loro figlia, che quell’anno aveva fatto tredici anni ed era stata mandata dalle suore a Lenno in attesa di maritarsi. Antonio non si era più risposato e, con le sue mani grandi, aveva paura di toccare qualsiasi cosa di parvenza muliebre, a parte le prostitute e la pasta per il pane. Era lui ad occuparsi delle faccende pratiche alla Forneria Migazza.

Giorgio, invece, si occupava delle finanze. Si chiamava come lo zio avvelenato da quei traditori dei Carganico– che stavano marcendo in carcere in Valsassina, anche se grazie alla loro amicizia con i Serponti i tafferugli si stavano prendendo molto spazio sugli spalti e non erano ancora stati condannati. Antonio chiudeva un occhio su quello che faceva Lucia. Giorgio incolpava più lei che i maschi. Insomma, il pane fa gola ma non si regala a tutti. Se Antonio era più schietto, abbaiava e mordeva, Giorgio era più capace di celare l’odio dietro a una maschera di spietata freddezza e ostentato compiacimento. Le rughe e qualche filo bianco tra i peli di barba scura incolta, permettevano di intuire che Giorgio era il più vecchio, ma era il più attraente e sfrenatamente vivace tra i due. La sua prima moglie gli aveva dato non pochi problemi. Appena dopo il matrimonio aveva cominciato a manifestare i primi segni di squilibrio. Non sembrava molto contenta di essersi sposata e piangeva di continuo o si provocava il vomito con le dita. Cominciava tutto con una sensazione di intorpidimento, poi di non sentirsi più nel suo corpo, infine non si riconosceva nemmeno allo specchio. Giorgio pagò un padre confessore domenicano del Sant’Antonio di Morbegno, in Valtellina, dove erano specializzati con gli esorcismi alle streghe, ma la situazione non migliorò. Parlava spesso da sola o con sé stessa e sosteneva che c’era un’altra sé stessa che la guardava e che le diceva cosa doveva fare. Il Demonio l’aveva presa.

Anche sua sorella Lucia non stava bene. Il suo temperamento era irascibile fin dalla nascita, non era una che stava agli scherzi, ma a poi aveva preso anche a muoversi a scatti incontrollabili o a tenere lo sguardo fisso. Il medico aveva sentenziato che il suo era un male sconosciuto, che poteva morire oggi o tra un secolo. Lucia aveva capito che non poteva né sposarsi né farsi suora, allora aveva abbracciato la vita di una selvatica. Ciò nonostante, a quei tempi ancora non la odiava e si confidò con lei. Lui era convinto che almeno sua moglie poteva guarire. Lui, da marito, doveva sistemarla.

“Giorgio, cosa vuoi aggiustare? A lei non piace quello che hai nei calzoni!” gli rispose in quel suo modo sadico di essere spontanea. “Non dire sciocchezze!” le disse. “Non dico sciocchezze!” confermò lei.

Lucia non andò oltre e Giorgio domandò a sua moglie. “Ti ho promesso davanti a Dio che non ti avrei mai mentito, Giorgio”, glielo confessò senza provare a mentire. Era successo solo una volta: era stata con Lucia, sua sorella. Cominciò l’inquisizione. “Ti ha obbligata?”. Scosse la testa. “Ti è piaciuto”. Annuì colpevole. Fu morboso e volle sapere tutti i particolari. Com’era successo, quando, che cosa era stato fatto e da chi. Non chiese il perché, non voleva saperlo. Quella volta fu lui a vomitare. Non si parlarono più e la moglie si lasciò morire di fame chiusa nella sua stanza. Sugli atti di morte c’è scritto che era posseduta. E questo era il motivo per cui odiava sua sorella e che lei, sentendosi non guardata, le combinava sempre più grosse, tipo farsi ingroppare dall’amico dei Serponti. Gabriele Mezzera non piaceva ai suoi fratelli e non solo per il suo cognome. Era uno che faceva casino per non prendersi le sue responsabilità. Gabriele Mezzera non era un pericolo per i Venini, ma per sé stesso – perciò non lo avevano ancora ucciso di botte. I suoi fratelli erano convinti che Lucia lo facesse per ripicca. Le donne fanno sempre così, le pazze.

Giorgio si era appena risposato. Francesco Scotti, un altro dei bravi di Tommaso Serponti, aveva venduto per quattro soldi una figlia. Era stato fortunato. A questa giovane ragazza piaceva quello che aveva nei pantaloni, forse anche troppo, tant’è che, a differenza di suo fratello, non si doveva fermare al bordello prima di tornare alla Capoana. Anche se Caterina Scanagatta… Magari avrebbe potuto convincerla a fare compagnia a lui e alla sua mogliettina. Stava pensando a questo mentre Agostino gli stava per porre una domanda di cui sapeva già la risposta: no.

“Il prete dice che il certificato è andato perso. Ma è possibile, se c’è salterà fuori!”. Lo diceva rivolgendosi ad Antonio, che tra i due era il più intortabile. “Non te lo ricordi, Antonio, il funerale?”.

“Sì, me lo ricordo faceva caldissimo. Infatti il Simone aveva fatto chiudere la bara per evitare la puzza e si era fatto il funerale in fretta” si perse in chiacchiere. “Di cosa era morta?” chiese Caterina impicciandosi. “Non so. Un incidente in casa…” disse Antonio. “Allora potreste testimoniare voi davanti al prete” propose Agostino quasi già pensando di averla nel sacco. Giorgio li ascoltava massaggiandosi la barba.

Simone Brenta era uno che accettava di sposare una mezza puttana – pensava che potesse permettersi di fare la preziosa, mentre in realtà non era così appetibile da valere la fatica di prendersela con la forza – per cancellare la parola vedovo dal suo stato civile. Se avessero aperto quella bara non ci avrebbero trovato nessuno, ci scommetteva le palle. Sua moglie era ancora viva? Era scappata? Era morta? E se era morta dov’era il suo cadavere? Chi l’aveva uccisa? Come l’aveva uccisa? Era stato lui?

Non era un buon momento per dar fastidio al Duca che aveva scelto i Venini appunto per non scomodarlo per sciocchezze di Varenna. Al Duca non interessava andare a nozze.

Antonio stava già allungando la mano in segno di pace fatta, ma Giorgio rimase con le braccia conserte. “No, non lo faremo!”. Agostino rimase attonito. “Mi terrò tutto l’incasso sul pane!” obbiettò. “O forse non te ne daremo più e sarai costretto ad offrire tua cugina sui tavoli” fu più chiaro Giorgio. “Ma come ti permetti? Ma vai a dirlo a tua sorella, che magari le piace” si intromise Caterina. Antonio era sul punto di sputarle in faccia.”No, no, non c’è bisogno” disse Agostino timoroso e vile. “Caterina se tu sei gentile magari con Giorgio…” fu ancora più ignobile. Giorgio ci pensò a cosa avrebbe fatto volentieri con Caterina ma non lo mostrò nemmeno con la coda dell’occhio e sventolò la mano destra per fare vedere la fede. Antonio, che Lucia l’avrebbe difesa a spada tratta solo in quanto sua sorella, disse “Sai qual è la differenza tra te e mia sorella? Che lei non lo fa per ottenere qualcosa, ma perché le piace!”. Niente, quel matrimonio non si sarebbe celebrato.

“Piano con le parole!” disse Agostino. Antonio fu sul punto di picchiarlo, ma un garzone entrò con gli occhi sgranati.

“Gabriele Mezzera è morto!” urlò con tutta l’aria che aveva nei polmoni.

Il ragazzo raccontò che era stato ucciso dalla guardia personale del Duca alla Sfondrata. Serponti si chiamò estraneo ai fatti ma sicuramente era una mossa della sua ciurma. Sembrava solo impossibile che quella volpe scaltra del Mezzera si fosse fatto uccidere proprio lì, nella casamatta.

“Come morto? Come lo sai?”. Caterina mostrò le lacrime del suo amore non corrisposto. Agostino non poteva cacciargliele dentro per il buon nome. “L’ha detto il dottor Serponti. Tornava dalla Villa dei Cipressi. Ha detto che l’ha ricucito, sembrava tornato in sesto, si è pure risvegliato, e poi all’improvviso si è riaddormentato. Per sempre!”.

Caterina ingoiò l’amara notizia e finse disinteresse. “Allora viva il Duca!”. Insieme a lei, Agostino alzò un calice. “Viva il Duca!”. Giorgio si chiamò fuori. “Noi dobbiamo andare!”. Non pensava ad Ercole Sfondrati, ma al fatto che sua sorella non si trovava più. La odiava ma non fino a tal punto.

Prima di uscire, si accostò ad Agostino e gli sussurrò all’orecchio “Sei il Sindaco di Varenna, Scanagatta. Non te lo dimenticare e agisci in tal senso. Non vorrei tu finissi come la tua gatta, bada bene…” e si strisciò il dito sul collo.

Nell’oscurità della taverna non si erano accorti che stava per nascere il sole. Dall’acqua del Lago risaliva la foschia pallida che avrebbe, a poco, estinto le ombre dei presunti eroi immarcescibili della notte.

“Che fai? Non vieni?” chiese Giorgio ad Antonio. “Non si sposa più, va consolata!” rise. “Oggi si scopa gratis!” aggiunse. Giorgio fece di no con la testa e sorrise.

Il garzone uscì dalla Gatta si avvicinò ai due. Voleva che gli sganciassero qualche moneta perché lui parlasse e, una volta soddisfatto della mancia, disse “Vostra sorella Lucia vi manda a dire di andare a farvi fottere!”. Tirarono un sospiro: il malanimo di Lucia nei loro confronti provava che era ancora viva e, per questo, sarebbe tornata a casa.

“Tu? La vai a cercare?” gli domandò Antonio. “No, torno alla Capoana. Se è là sta piangendo. Se non è là vuole piangere da sola” fu concreto . “Starà bene. È una Venini” lo rassicurò. Lucia era più Venini di qualsiasi capofamiglia di quella stirpe.

Giorgio fece per andarsene. “Giò!” lo richiamò suo fratello e lui si voltò. “Auguri!”. Lo guardò stranito, non capendo come potesse saperlo. Non ci volle tanto per realizzare che era stata Lucia. Giorgio e sua moglie non lo avevano ancora annunciato, ma aspettavano un bambino. “Ha detto la Lucia che si vedeva dalla faccia di tua moglie che eri riuscito a mirare il bersaglio!”. Giorgio non sorrideva mai, ma quando lo faceva gli si allargava tutta la bocca fino alle guance. Maledetta puttana!

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Gli Scanagatta di Varenna erano degli osti con avi pescatori (anche se non sappiamo il nome dell’Osteria, a Varenna esiste una via Contrada dell’Oste). Agostino Scanagatta fu anche Sindaco di Varenna. L’acconciatura di Caterina Scanagatta, sua cugina, è parte integrante dell’abito tradizionale delle donne del Lago di Como. Simone Brenta doveva sposare Caterina, ma non si trovava il certificato di morte della sua prima moglie e le nozze non si celebrarono. I Venini “Migazza” di Fiumelatte, residenti alla Capoana, erano molto vicini ai Duchi e fratelli di Lucia “La Pazza”. Erano degli omoni corpulenti, molti dei quali morti alcolizzati o con la pellagra; le loro compagne e le loro sorelle, spesso, morirono in circostanze poco chiare o erano definite malate di mente. L’appellativo Migazza era dovuto alla loro attività nel campo della panificazione (vuol dire “mollica grande”); l’altro lato della famiglia Venini, i cosiddetti Bongioli di Varenna Centro, si occupava di falegnameria e di battelli a Varenna – la navigazione e il pane erano anche le “materie prime” per le attività dei Mezzera a Bellano. Le storie su Giorgio e Antonio Venini sono da ritenersi verità: la moglie di Antonio fu definita “pazza” e morì lasciando indietro la figlioletta; la moglie di Giorgio jr. “indemoniata”, soffriva di frequenti crisi di vomito e fu sottoposta all’esorcismo (il Sant’Antonio di Morbegno era il convento domenicano e sede inquisitoria più famoso in circolo). Giorgio si sposò con la figlia di Francesco Scotti nel 1640 e lei rimase incinta nel 1645 – qui vengono un po’ ritardati i tempi a fine narrativo.

5*01 – Cùpel!

Nel dialetto dell’Alto Lario era il motto associato ai briganti, i quali per secoli impaurirono gli abitanti della zona e ne diventarono leggenda. “Cùpel”, ossia “accoppalo” deriva da “coppino”(intendendo la nuca) e, quindi, dall’atto di staccare la testa a qualcuno al fine provocarne una morte violenta e quantomeno istantanea.

“A me basta solo questo per sentirmi viva: io e te e questi momenti strappati alla quotidianità”.


Una voce impastata e condita con troppo miele cercava di trattenere la dipartita del suo amante da sotto le lenzuola aggrovigliate. Dalle vetrate appena scostate del bovindo, le quattro stelle orientali i davano alla fuga inseguite dai tre cacciatori d’orse. Era il mito più antico a cui l’umanità faceva riferimento dacché quella era la costellazione che, dalla notte dei tempi, rischiarava la rotta dei marinai. L’uomo che aveva condiviso con lei il suo letto nuziale non mostrò nessuna voglia di aggiungere melassa alle sue parole d’amore, ma non se ne curò poiché lui non lo faceva mai, guardava sempre altrove. Lei era ottusamente sicura che lui celasse i suoi veri sentimenti dietro alla sua scontrosità; lui pensava che discutere con lei non fosse possibile siccome gracchiava – chiudendo le vocali e increspando la bocca come facevano le signore – frasi che estrapolava dalla Bibbia rendendole prestanti al secolo.

“Va beh, ciao!”. Gabriele salutò distratto Masina, la capricciosa e giovane moglie del capitano della Spartivento. Si era alzato dal letto di scatto, come se si fosse ricordato all’improvviso di dover fare qualcosa d’importante. Avevano, per così dire, una tresca – anche se il loro rapporto era dispari: per lui era un’ennesima porta aperta, per lei era una ragione per svegliarsi la mattina.

“Non ti vesti?” le domandò, più per curiosità che per preoccupazione, dato che che lui, invece, non si era nemmeno svestito per affaccendarsi. Qualche volta le faceva ribrezzo anche nuda, era solo un corpo che aveva già conosciuto – ed era assai raro che lui non si ingolosisse davanti alla generosità di un corpo femminile. “Tanto mio marito non torna, dovete andare a uccidere il Duca, no?!” rispose languida. Avrebbe potuto spiegarle che le cose non erano così semplici o ardimentose. Che l’unico a uccidere un povero cristo sarebbe stato lui. Il Duca, che aveva parenti nello Stato Pontificio, non sarebbe mai morto; se ne sarebbe stato, probabilmente, un po’ in carcere, poi l’avrebbero liberato e messo a capo di qualche piccolo marchesato, magari giù nelle Sicilie. Tuttavia, la sua interlocutrice era superficiale in un modo a dir poco sconcertante. Nel suo piccolo impero di soldatini esisteva solo lei, nella sua nuvola rosa di fandonie e vittimismo. Per lei o le cose erano semplici o erano noiose e non stava a sentire nessuno che non parlasse di lei paragonandola a una protomartire cristiana.

Lo braccava incessantemente e, ogni tanto, lui si dava per farla smettere. Se ne andava in giro con quell’espressione da vedova di guerra, per farlo sentire in colpa. Se la trovava dappertutto. Se non se la filava prima faceva l’offesa, cercava vendetta, dopo diventava dolce, adulatoria, gli mandava regali e lettere piene d’amore scritte con quei pochi rudimenti di grammatica che aveva imparato da nubile dalle suore. Si era inimicata un sacco di donne, comprese le sue sorelle, perché raccontava un sacco di bugie per far credere a tutti che fosse una moglie irreprensibile. Raccontava come verità anche le favole che si sognava sulla loro presunta storia d’amore, perché le altre la invidiassero. Pagava ex voto a suo nome, perché non morisse oppure perché davvero morisse e potesse piangere il suo eroe. Questa faccenda era arrivata alle orecchie addirittura della di lui madre, che pure su Lucia Venini aveva sempre chiuso bocca e orecchie. Glielo lo mandò a dire con suo padre, ser Giacomo Mezzera. “Gabriele, tua madre pensa che, insomma, la Tommasina del Cola… Cioè non voglio dire niente, sei un ragazzo… Ma essendo la Tommasina sposata con un Serponti…” tergiversava rammentandogli gerarchie e codici d’onore. “Ha rotto il cazzo, lo so! Che ci andasse a parlare la mamma, io non so più che fare!” propose una soluzione spiccia. La situazione non
piaceva nemmeno a lui ma non sapeva come uscirne. Vivo, per esempio?

Prima che Gabriele potesse lasciare la stanza, la Masina gli buttò dietro la fiele amara del suo rammarico. Poteva passare dall’essere premurosa all’essere sadica in un baleno.

“Sai, l’altro giorno ho incontrato Donna Caterina al Rosario delle cinque. Mica sono scema, che cosa ci viene una di Bellano a messa a Mandello? Non sarà lei a dirci cosa dobbiamo fare…” fremeva con l’atteggiamento altero di un cavallo andaluso. A Gabriele non piaceva quando nominavano invano sua madre o il nome della sua famiglia. “Invece sì!” si voltò per dirglielo guardandola negli occhi, talmente neri e dilatati che non se ne distingueva più la pupilla. “Ti facevo un uomo maturo!” disse paonazza in viso, quasi trasfigurata dall’astio. “Eh, invece…” fece spallucce lui, che dalla questione non era mai stato scalfito, siccome la questione nemmeno esisteva.

“Vai con la Venini perché…” voleva pungerlo, però lui non le permise di finire la frase. Lucia Venini La Pazza è una puttana – avrebbe voluto dire. “Perché è più brava di te?!” fu mordente lui mimando il gesto di avere la bocca piena. “Vai al Diavolo, stavolta è davvero finita!” gli urlò lei, ma lui non era già più in quella stanza che odorava di amore stantio. Saltò dalla finestra in mezzo alle galline, le quali per lo spavento si agglomerarono in un indistinto batuffolo bianco crocchiante. “Eh, magari ti levassi dalle palle!” disse a bassa voce. Era più forte di lui, non riusciva ad essere scortese abbastanza per farsi odiare. Controllò nelle tasche di non aver perso il tabacco e raccolse un uovo
dal pagliaio, dato che non aveva cenato.

Gabriele si specchiò sulla vetrata incrostata a losanghe per sistemarsi i ricci ribelli e poi entrò nell’Osteria Colombo di Mandello. Era la cantina dove la ciurma si riuniva prima delle incursioni e il suo nome derivava dal latino Columbus, il cui significato alludeva all’innocenza. Questo cognome fittizio veniva assegnato agli infanti abbandonati nei brefotrofi, privi di peccati per la loro condizione. Il suo primo oste, difatti, era un bambino che era stato salvato dal rogo di Barbarossa all’Isola Comacina. I suoi genitori erano morti tra le fiamme e lui era stato portato in salvo dall’altra sponda da degli sconosciuti che ne ebbero pietà. Ed era un po’ come si sentiva lui, allo sbaraglio tra le folate sferzanti della breva di una sera di fine agosto – un profugo.

Un imberbe garzone muscoloso con l’espressione di qualcuno che ha preso troppe botte in testa gli chiese “Parola d’Ordine?”. Cazzo, la parola d’ordine. Se non fosse andato a perdere risorse dalla Masina avrebbe potuto partecipare ai vespri e lì, facendo finta di confessarsi, gliel’avrebbero comunicata. Cambiavano sempre chiesa, orari, liturgia perché non ci si poteva fidare di nessuno, nemmeno dei Santi. “Dai, guapo! Sono il Gabriele…” cercò di farla franca. “Se non sai la parola non puoi entrare…”. Il ragazzo era ligio al suo lavoro che non voleva perdere a causa di un mascalzone. “Dai, fai il bravo!” gli schiacciò l’occhiolino, ma non troppo. Il ragazzo non diede segno di cedimento. Era più giovane ma in quanto a stazza era almeno tre volte più massiccio di Gabriele. “Non la so perché mi stavo scopando tua sorella. E’ questa la parolina magica?” a mali estremi estremi rimedi. L’energumeno con la barbetta da becco fece per caricarlo, ma almeno si era tolto dall’entrata. Qualche volta, era meglio avere i riflessi pronti, più che essere forti.

“Che succede qui? Problemi?”. Era il Cola, il Capitano. “Il bocia dice che non posso entrare perché non so la cosa… la parola d’ordine!” fece lo spaccone. Il Cola rise e poi si rivolse al ragazzo. “Laga stà! Il Gabriele è fatto così, le regole gli fanno venire mal di pancia! Ma lui scherza, eh! Figurati che la tua sorella ci dà retta a un perditempo come lui…”.

Il Cola lo prese dalla collottola e lo trascinò dentro con gli altri. L’odore di acquavite e miasmi si mischiava a quello dell’umidità delle pareti in pietra tra le quali rimbalzavano le urla dei canti debosciati dei maschi che si ubriacavano per non sentire la paura. “Allora, vecio? Qual è la parola d’ordine?” chiese Gabriele per far conversazione.

“Com’è che non sei venuto a messa?” gli domandò il suo superiore. “Non mi sentivo molto devoto a San Lorenzo oggi…” la buttò sull’ironia. Dalla massa indistinta di bisbocce un simpaticone urlò “Era più devoto alla Santa Fagiana!” e qualcun altro a ruota “Un brindisi per la moglie del Cola!”. “Hai voglia di giocare, eh? Ti trastullerai ancora quando ti avrò tagliato l’uccello e te lo avrò fatto ingoiare?” lo minacciò non poco inacidito. Ah, lo aveva saputo. Però, una così se non me la fossi chiavata io l’avrebbe fatto un altro, suvvia… Gabriele non fece tempo a pensare una risposta che l’altro gli aveva già tirato un pugno. Sentì il sangue colare dal labbro. Rise ma non reagì, perché sentiva di dover portare rispetto a un uomo più anziano, anziano e cornuto. Avrebbe dovuto ricordarlo anche al Cariboni, che era troppo ubriaco per pensare a che non ne valesse la pena di mettergli le mani addosso in sua difesa. Stiamo parlando di un povero vecchio che si è sposato la Masina…

Finì che, per diletto e senza sapere il perché, tutta la ciurma si calo in una rissa. Era sempre così quando si alzava troppo il gomito : una parola diventava una miccia, un motivo come un altro per prendersi a cazzotti, finché il Carlitta non scolava l’ultima pinta e decideva che fosse venuto il momento di di placare gli animi. “Piantatela, sono dicerie! Se fosse così don Mezzera dovrebbe avere cento cazzi! Vero Ga’?” disse alzandosi con tutta calma dalla sedia traballante da dove si stava godendo il pessimo spettacolo. Gabriele non confermò, lui non mentiva. “Ha la moglie zoccola e se la prende con me?” allungò il brodo. “Dai, Cola lo sanno tutti che Gabriele…” il Carlitta cercò ulteriormente di fare l’Azzeccagarbugli. “Gabriele preferisce le pazze, dai Capitano!” si sgolò un mozzo tra la folla sghignazzando. Il Cola ci penso un attimo e poi guardò Gabriele con compassione. “L’hai fatto per innervosirmi, giovane. Bella mossa!” esclamò il Cola, rasserenandosi. Non ci voleva credere e dava del suo agli altri. Lucia era La Pazza, ma non si comportava da pazza per avere un briciolo di attenzioni distratte. Gabriele amava tutte le donne, eccetto quelle che si mettevano in ridicolo. Hai mai visto una calamita che si mette a fare le capriole prima di combaciare con l’altra? No, perché non ne ha bisogno, ci pensa la natura. “Gabriele, con la Lucia ce la siamo spassata tutti. Non è ora che ti scegli una tuselina da sposare?” gli domandò il Cola. La condizione che si richiedeva a una donna per sposarsi era possibilmente non essere mai stata con nessun altro, altrimenti era rotta. Quindi la pretendevi giovane e ingravidabile. Se ti andava bene era gestibile, se no giù botte. Funzionava così anche per le capre e Gabriele non si sentiva un buon pastore. Nella noia, le assaggiava tutte, come un lupo. E poi c’era Lucia, da lei ritornava sempre perché da lui non pretendeva niente. Onestamente, non si capiva mai niente di cosa passasse nella testa ingarbugliata di quella donna e probabilmente il suo fascino era tutto lì, nella sua inquietudine. “Una delle tue figlie? Posso aspettare anche qualche anno, eh!” buttò là una delle sue risposte. Il Cola stava per reagire, ma il campanile di San Lorenzo suonò la mezzanotte. “E’ già oggi, dobbiamo andare…Ti picchio dopo!” disse l’uomo ormai scalfito dall’esperienza che c’erano cose più importanti a cui pensare di una moglie infedele in quel mercoledì ventitrè agosto milleseicentocinquantuno.

La ciurma, ai vertici, era composta da mercenari sbandati attratti dalla fama dell’eroicità e dall’utilizzo delle armi bianche, spade, coltelli e qualsiasi oggetto contundente. Tendenzialmente, bastava che qualcuno gli desse uno scopo, meglio se sanguinario, e loro, senza scrupoli, eseguivano gli ordini. Non combattevano per i soldi, in quanto erano cadetti nobili o altoborghesi. La pirateria era la loro passione, un’emozione violenta in contrasto con l’obiettività della ragione umana, la quale ribolliva nelle loro viscere insieme all’acqua arzente – la grappa.

Il Cola, Nicola Serponti, era il cugino di Tommaso e Giorgio. Poteva sembrare scorbutico, ma tornava sempre sui suoi passi per motivare i compagni con la carota e con il bastone. Il suo Primo Ufficiale era il Campioni, minaccioso forse più del Cola, ma lo faceva spesso ragionare quando si incaponiva.

Gabriele era il Quartiermastro e si occupava di organizzare e far filar dritta la truppa. Spesso gli erano affidati compiti o manovre ardite. Era combattente, stacanovista, scaltro e affidabile. Forse, non sempre si distingueva per morigeratezza e, quindi, il Cariboni, sempre se non era ubriaco, gli guardava le spalle. Non c’era nessuno che più potesse sintetizzare nel suo animo il concetto di pirateria più del Cariboni. Era narcisista, caotico e allegro e non era stato in guerra per scelta. Nato corsaro ed era l’anima combattiva della Spartivento.

Infine, c’erano lo Scotti e il Carlitta. Il primo era imprevedibile quanto esilarante. Non nascondeva di essersi unito alla ciurma perché puntava ad arricchirsi, ma era anche pacifico – non litigava mai con nessuno – e trovava sempre una barzelletta da raccontare. Il Carlitta, Carlo Pensa, era un tipo a cui piaceva osservare e ascoltare. Sapeva tutto ciò che avveniva nella Riviera e puntava a sposarsi con una ricca vedova, non gli importava di che partito fosse. “Le donne c’entrano con la politica come le mutande in un bordello”, diceva.

Il Carlitta, spesso, stimolava anche il buon senso e i mozzi l’avevano soprannominato il Prevedello, ossia il prete mancato. Quando s’ipotizzò che ci fosse bisogno di un maestro d’ascia, qualcuno che conoscesse il legno e dove tagliarlo, fu lui ad accogliere nella ciurma il Napoli, un tale Andrea Ruggeri che era arrivato a Varenna durante la guerra e poi si era fermato perché aveva messo incinta una ragazza. Agli altri non piaceva. Era scontroso, emotivo, benché spesso avesse dei lampi di genio. Parlava nel suo dialetto e nessuno lo capiva, quindi era il personaggio più controverso di tutta la combriccola, per quanto si desse davvero da fare per essere utile.

La restante parte, quella più numerosa, erano i cialtroni, miserabili e fuorilegge attratti dai guadagni facili, dediti all’osteria e alle risse. Erano una ventina di mozzi di età compresa tra i sette e i quindici anni. Spesso Gabriele ne era infastidito perché attraevano gli sguardi delle guardie. Comunque, anche se sembravano una masnada di omaccioni muscolosi, brutali, indomabili, solitari, orgogliosi e arroganti, erano soprattutto persone, degli esseri umani che detestavano le ingiustizie. Il popolo li temeva e li osannava al contempo, perciò erano diventati leggenda.

Da Bellagio, il Duca Ercole Sfondrati difendeva e sorvegliava il Lago disponendo di due correbiesse, delle speciali imbarcazioni che si incrociavano nella caccia ai pirati con più di venti rematori e sessanta soldati ciascuna senza interruzione.

I pirati non sempre erano dediti ad abusi, omicidi e sopraffazioni per ciurlare. Molto più spesso si occupavano di frode alla Corona, il contrabbando. Un mastro muratore doveva mediamente lavorare venti giornate per poter pagare le gabelle, le tasse di dazio per le merci alimentari. Si pagava per non morire di fame e bisognava anche ringraziare il Duca? I briganti facevano entrare le derrate di sfrodo e poi si facevano pagare per l’incomodo, infondo loro rischiavano grosso mentre rubavano ai ricchi per dare ai poveri.

E poi c’era la faida. C’era chi stava con i Duchi e chi non voleva stare con i Duchi. Nessuno li amava per davvero. I contrasti andavano oltre la politica, ai morsi della miseria, e riaccendevano le luci sull’antica notte in cui i Comacini erano fuggiti dall’Isola del San Giovanni. Distruzioni, saccheggi, incendi e morte: non passava giorno che ne fosse sprovvisto. Ormai, non ci si ricordava nemmeno più il motivo di tanto odio, tanto che era diventato essenza.

Potevano essere definiti briganti del lago o pirati insubri, ma a loro piaceva di più il termine spagnolo, bravi, significava feroci e selvaggi – come gli animali che popolavano i boschi di mezzacosta. Erano uomini armati e pagati al servizio di signorotti locali, guardie del corpo ed esecutori prezzolati di delitti e malvagità a loro nome, “ma se ti beccano è colpa tua”.

Tommaso Serponti, il loro Signore, era sdegnato dalla prepotenza e anche invidioso del potere degli Sfondrati. Richiamava i suoi bravi ai soprusi tramite la protezione e palate di soldi, mentre aizzava il popolo. Giustificava rapine, violenze, vendette con la beneficenza.

Non a caso, il loro covo era a Mandello. Le Tre Leghe, gli Svizzeri, l’avevano rasa al suolo ancor prima che la Spagna milanese le facesse giurare fedeltà, peggiorando la situazione di malcontento. In questi casi si china la testa o si lecca i piedi. Mandello, invece, decise di partorire briganti.

Il vento increspava appena le acque scure del lago sulla quale la Spartivento dondolava piano. Ciò nonostante, Gabriele provava una lontana sensazione di disturbo. Gli occhi gli dicevano che era fermo, ma il resto del corpo gli mandava un segnale d’allarme. Respirava profondamente per non dare di stomaco. Napoli gli si avvicinò, anche un po’ troppo per i suoi gusti. “Pensi alla guagliona?”gli chiese nel suo dialetto che non capiva e si rifiutava di capire. “Alla ragazza, can’ ‘e piecur’!?” gli tradusse insultandolo. “Ma vaffanculo!” gli rispose a tono. Anche il Campioni si avvicinò, il suo passo era talmente leggero che ti si presentava davanti sempre a sorpresa. “Mezzera, stai tranquillo. Non ne sbagli una tu, cadi sempre in piedi…” alludeva anche alla moglie del Cola. “Dai chiediamo allo Scotti se ce ne racconta una!” propose per stemperare la tensione. Lo Scotti cominciò a raccontare una delle sue storielle sulla Duchessa. Tutti risero ma Gabriele non stava ascoltando. Chiunque su quella barca era sicuro che l’indomani avrebbero brindato alla vittoria. Anche il Cola che gli aveva appena dato una pacca sulle spalle. Cosa sarebbe successo quando Tommaso Serponti avrebbe regnato sui paesi del Lago? Sarebbe cambiato tutto.

Tirò su con il naso, ormai era un gesto di riflesso. Il Cariboni, suo cugino, che aveva appena vomitato quello che si era bevuto in un secchio da far vuotare all’ultimo arrivato tra i mozzi (i pivelli andavano battezzati – se fossero resistiti, sarebbero anche rimasti), lo raggiunse sul parapetto e gli domandò “Tutto bene, Gabrio?”. Aveva notato che si era tolto dall’amalgama come l’olio dall’acqua. Si voltò verso il compagno di avventure e annuì mordendosi il labbro. Stava cambiando davvero tutto? E lui lo voleva davvero? I suoi demoni senza volto, probabilmente, non se ne sarebbero andati via ribaltando il loro mondo che se ne stava a filo delle acque. Oggi lui era un pirata e domani che scusa avrebbe trovato?

Stavano risalendo al buio verso nord-est, infilandosi tra il passaggio di una corrabiessa e l’altra. A tentoni, dovevano anche evitare di schiantarsi sulle rocce o di sbagliare rotta. La Spartivento prendeva proprio il nome dallo sperone estremo di Bellagio, il punto un cui il lago si divideva nei due rami. L’imbarcazione era stata armata dai Pensa, la famiglia del Carlitta – celebre famiglia di barcaroli di Mandello – per i Venini. Dopo l’affondamento precoce, fu lasciata al suo destino abbandonata malsana nei pressi del porticciolo privato della Leliana. Fu rimessa in sesto durante una sola estate dalla ciurma che decise che il loro vessillo rosso sangue doveva essere un teschio con la clessidra. Tic toc, hai il tempo contato. Non hai quartiere se incontri gli spavaldi bucanieri della Spartivento che procedono al ritmo del loro motto: Cupel! Cupel!

Tommaso Serponti aveva scelto dal calendario proprio il ventitré perché la famiglia ducale o chi era considerato affine si trovava alla Capoana per la Festa di Fine Estate. Sottraevano le leccornie ai mezzadri per celebrare la fine dei raccolti, prima della vendemmia. Ercole Sfondrati non partecipava agli eventi mondani un po’ perché era decrepito, un po’ perché dopo la morte della duchessa si era ritirato alla vita ascetica francescana sull’istmo di Bellagio dove stava attenta la sua Sfondrata.

“Ci siamo!”.

Il Capitano ordinò di fermarsi un po’ prima del porto della Sfondrata. Gabriele si sarebbe dovuto avvicinare dall’alto, inoltrandosi nel boschetto di lecci. Avrebbe dovuto fare fuori la guardia personale del Duca e portarla sulla Spartivento. Poi, si sarebbero diretti a Varenna e l’avrebbero messa a fuoco. A quel punto, il Duca si sarebbe svegliato con la luna storta.

Il leccio è una specie del mediterraneo, ma non disdegna nessun clima mite. Può sopravvivere a lungo negli anni ma ci mette molto a crescere, scurendo la sua corteccia. Anche se è uno degli ultimi alberi a fiorire durante la primavera, le api sono ghiotte del suo nettare. In un paio di mesi si sarebbero potute vendemmiare le sue ghiande. Le radici sue penetrano a fondo e la pianta resiste in siccità. Il suo legno è molto difficile da lavorare e, a contatto con il ferro, diventa blu. Pensava a questo Gabriele mentre cercava di spostarsi senza fare rumore sul muschio reso scivoloso dalla rugiada. Regnava il silenzio a parte il canto malinconico e aggressivo del maschio della civetta che, ad intervalli cadenzati, annunciava sciagure. Gabriele si rovistò l’inguine per allontanare il malocchio.

Ad un tratto, lo vide. Il suo obiettivo stava ciondolando avanti e indietro davanti all’entrata secondaria della villa, dove si trovava lo scalone che portava alle stanze private di Ercole.

Si avvicinò quatto. Era la sua specialità. Arrivare dietro alle spalle delle persone e fare “buh”.

La guardia trasalì. Gabriele lo mise al muro e gli tappò le fauci. “Shh, se no il tuo padrone si sveglia!” gli bisbigliò a un centimetro dal naso, come se lo stesse per baciare. Un’altra sua specialità era fare parapiglia senza emettere alcun suono. Con l’altra mano sfoderò il suo pugnale. Mirava al collo. Ci sarebbero voluti solo dodici secondi per farlo dissanguare. Inoltre, lo scagnozzo era smilzo e non ci sarebbe voluto molto sforzo per caricarselo in spalla come un sacco di farina e portarlo sulla barca. Tremava. Se l’era fatta sotto. Lo guardò negli occhi. Era un ragazzino, al pari di lui quando era partito per la guerra e qualcuno, per la prima volta, gli aveva detto di uccidere se non voleva farsi uccidere. Gli tolse la mano dalla bocca. “Vuoi dire qualcosa prima di morire?”. Quello gli calcò un calcio in mezzo alle gambe e lo pugnalò sotto le costole. “Sì, Gabriele Mezzera, voglio dirti che Sua Grazia ti saluta!”. Bravo, Gabriele! Bravo, scemo! Gabriele perse subito i sensi e non fece in tempo nemmeno a chiedere scusa a sua madre.

***

In una delle stanze da letto dell’ultimo piano di Villa dei Cipressi il dottor Giorgio trafficava con ago e filo alla luce fioca di un lume ad olio. “Tutto bene Lucia, hai bisogno di un attimo?” chiese alla pallida ragazza che si stava improvvisando infermiera vicino a lui . Lucia era zuppa di sangue fino ai gomiti. Annuì, ma stava per svenire. Aveva visto molte donne partorire anche in maniera dolorosa, ma non aveva mai tenuto mai le mani premute su una ferita guizzante di un uomo. “Passami l’acquavite, ora!” le ordinò facendo finta di sapere quello che stava facendo. Giorgio la stappò, ne bevve un sorso e poi la passò a Lucia. “Bevi, non sarà un bello spettacolo” le consigliò.
Gabriele, un corpo che sudava freddo con il cuore all’impazzata, si lamentava in uno stato di frenesia e giaceva con il petto ricucito longitudinalmente dal fianco destro fino all’ombelico. “Ventitré punti, vedi a volte il fato!” rise per non piangere Giorgio, che ad ogni gugliata aveva urlato mentalmente insieme al suo amico. Lucia, intanto, gli stringeva una pezza tra i denti perché nessuno avrebbe dovuto sentirlo. “Potrebbe bruciare un po’…” disse il dottore al suo paziente. Lucia si avvicinò per tappargli ancora la bocca. Giorgio fece di no con la testa. Gridare l’avrebbe aiutato a lenire il dolore. Giorgio chiuse gli occhi e versò l’alcool sull’imbastitura per disinfettarla. Gabriele emise un urlo disumano e poi, per un po’, si addormentò quasi morto. Aveva la febbre alta e qualche volta tremava talmente tanto da far muovere il letto. “Si riprenderà?” chiese Lucia. “Se passa la nottata sicuramente. L’ha preso di sguincio, non si sarebbe mai fatto colpire al cuore, sempre se ne ha uno!”. Giorgio non era molto sicuro, ma non poteva pensare di perdere il suo amico. Era uno di quei casi in cui la scienza non poteva aiutarlo.

Si erano addormentati tutti lì. Avevano passato ore estenuanti. Lucia si era accoccolata vicino a Gabriele, mentre Giorgio russava supino ai suoi piedi. “Oh, vi siete scolati tutta la grappa?”. Giorgio si svegliò di soprassalto. Gabriele pareva come resuscitato. Gli misurò la febbre, era sparita anche quella. Quello stronzo sapeva fregare anche la morte.

“Dai, riposa adesso, pezzo di infame – te la sei cavata anche stavolta!”. Eppure, Gabriele non voleva riposare.

“Ho sbagliato, dovrei chiedere perdono a Tommaso!” si rammaricò “Non mi sono concentrato abbastanza”. Omise il fatto che aveva tentennato perché, per la prima volta dopo tanto tempo, aveva provato pietà e non voleva ammetterlo nemmeno a sé stesso.

“Tommaso ha già aggiustato tutto!” tagliò corto Lucia. “Ti pensano tutti morto!”.

Gabriele li guardò attonito, non capiva.

“Tommaso ha dichiarato che lui non c’entra nulla con il colpo e sta facendo finta di cercare la banda a Bellano!” spiegò Giorgio. “A Bellano?”. Gabriele non riusciva ad orientarsi. “Eh, lui è il Capitano di Bellano… Tutti gli sbirri sono in allerta nei loro Comuni e lui è uno sbirro almeno in parvenza!” fu più chiaro.

“Sì, ma non ti preoccupare sono tutti alla Grigna, scenderanno tra una settimana nascosti tra le vacche durante la transumanza. Per quel tempo ci saranno già nuove storie da raccontare e tutti si saranno dimenticati di Gabriele Mezzera – pace all’anima sua – che ha cercato di staccare il collo alla guardia del Duca” lo rassicurò Lucia e Giorgio annuì. “Povero coglione!” aggiunse la ragazza. Con le dita Lucia mostrò le misure della guardia che, a suo dire, non lo rendevano così virile come si sentiva per pensare di essere riuscito a uccidere Gabriele. Gabriele? Gabriele poteva essere ucciso? “A proposito della tua presunta morte, mi sono permesso di avvisare la tua famiglia attraverso i Mornico” aggiunse Giorgio. Gabriele annuì. “Non celebreranno i tuoi funerali per dichiararsi innocenti. Tua madre porterà il lutto”. Gabriele annuì di nuovo, più sicuro. “E, per quanto riguarda i Mornico…” continuò.

“No!”. Gabriele già aveva inteso e non voleva. “L’ha deciso Tommaso!” gli disse Giorgio. “Io non posso, ho giurato fedeltà ai Serponti!” si lamentò Gabriele. “E’ troppo rischioso. Questa è la tua occasione per risorgere dalle tue stesse ceneri” cercò di farlo ragionare.

“Ma al diavolo Tommaso! Non è rischioso per lui! L’avete mandato a uccidersi voi! Lo deve fare per sé! Lo deve fare per non morire! Gabriele, cazzo, pentiti!”. Gabriele si voltò verso Lucia. Non si sarebbe messa a piangere, ma gli occhi erano rossi e pieni di lacrime. Non l’aveva mai sentita parlare così. Non voleva che piangesse.

Gabriele sospirò. Sapeva che il suo amico Tommaso aveva dovuto fare così. Grazie ai Mornico sarebbe passato dalla parte di chi è incazzato a quella di vuole fare soltanto scena. A completa guarigione, avrebbe dovuto presentarsi a Gravedona da Nicola Stampa. Avrebbe fatto durare la sua convalescenza il più a lungo possibile, ergo.

“Ho sbagliato il colpo, non so più fare il macellaio che cosa vuole Ser Stampa da me?” chiese Gabriele a Giorgio. “Dice che ha un compito che può assegnare solo a te, ma ne vuole parlare solo con te!” gli comunicò quello che sapeva. I due uomini si guardarono negli occhi come a suggellare tacitamente l’amicizia che li avrebbe legati per sempre, al di là delle guerre private.

“Va bene, ora vi lascio da soli…” si congedò Giorgio. “Dovresti…” sorrise Gabriele sornione. “Dovresti riposare…” lo apostrofò. “Allora, te lo posso lasciare? La ferita va lavata con la grappa ogni due o tre ore, cambia la benda ma non stringerla troppo…” rammentò a Lucia “E cospargila di miele!” aggiunse. “Sì, me l’hai detto cento volte. Sono pazza non sorda!” si irritò lei. Sull’uscio ricordò loro anche di non esagerare con l’oppio.

“La ferita te la medico, ma per il labbro dovrei dartene un altro io che magari il Cola non è riuscito ad essere tanto specifico!” sbottò Lucia appena sentì Giorgio uscire dal cancello. “E tu come lo sai?” le domandò Gabriele “Non sono gelosa, ma se ti fai le pettegole puoi anche dimenticarti che esisto!” sentenziò senza guardarlo. “Se tu mi avessi detto che quello sfigato ti aveva messo le mani addosso ti avrei portato il suo cuore su un piatto d’argento!” si gonfiò il petto. “E chi ha detto che è stato lui a mettermi le mani addosso?” fu sibillina lei. “Dai, un ragazzino, Lucia che cazz’…” perse le staffe. “Dovresti imparare a scegliere se ti vuoi ritrovare tutti i denti in bocca!” gli consigliò leziosa. Lucia La Pazza non si teneva le mutande addosso. Un po’ come Gabrio Mezzera, ma lui era un uomo ed era diverso.

“Sai che cosa vorrei in bocca!?” le domandò sboccato. “Ma…” esitò lei. “Sono malato, l’ha detto Giorgio, devi curarmi…” la incoraggiò lui. “Beh, se l’ha detto Giorgio…”. si arrese lei, che non aveva nemmeno il desiderio di combattere.

Avere la sua carne sotto i polpastrelli poteva fargli dimenticare tutto. Il dolore lancinante che lo colpiva a frustate sul torace, la vergogna di avere fallito e la paura di rimanere da solo di notte in un bosco quasi esanime in balia dei lupi o delle guardie del Duca, che tanto era uguale. Lucia pesava poco più della sua anima e con il suo corpo indulgente premuto sopra il suo, finalmente, si sentiva al sicuro.

“Ti ho rovinato la festa, pazza?” le domandò giocando con un dito con i suoi lunghi capelli d’oro arruffati “Gliel’avevo già rovinata io…” sbuffò. A proposito di storie che si sarebbero raccontate, Lucia si era presentata alla festa piuttosto alticcia e in camicia da notte. Le dicevano che era una pazza, tanto valeva comportarsi come tale. Era il suo modo per ottenere la libertà di poter fare quello che voleva con il minimo sforzo, come galleggiare sull’acqua.

“Hai avuto paura per me stavolta,eh?” le domandò con la boria che alcune specie di uccelli hanno durante le danze di corteggiamento “Macché, tu sei un morto che cammina!” mentì Lucia che non poteva permettersi di mostrare compiacenza. Infondo, i Mezzera e i Venini erano nemici giurati.

Passarono lentamente le prime ore rosa dell’alba insieme ad accarezzarsi le cicatrici, ma quando Gabriele si risvegliò e il sole era già alto nel cielo, lei se n’era già andata. Maledetta puttana!

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Ercole Sfondrati, in realtà, morì nel 1637 e perciò non poteva essere vivo durante l’agguato del 1651; regnava suo figlio Valeriano, ma al fine della narrazione mi sembrava più emblematica la figura di Ercole. Ercole aveva impiegato davvero le correbiesse per contrastare i contrabbandieri. Le cronologie attestano che il pirata Gabriele Mezzera, insieme ad altri ventinove briganti, fece parte del colpo notturno (andato male) del 23.08.1651 che terrorizzò tutto il Lago. Era un’azione legata alla faida e, in seguito, andrà a servizio degli Stampa di Gravedona. Probabilmente era un ex mercenario spagnolo. La ciurma della Spartivento è un’invenzione. Il nome l’ho scelto ispirandomi a Punta Spartivento (all’altezza di Bellagio, divide il Lago di Como in due rami). Il vessillo che ho inventato è poi diventato il “logo” di questa saga. Il Cola e la Masina sono personaggi totalmente inventati. I Cariboni erano una famiglia di Bellano legata ai Mezzera e ai Serponti, ma il Cariboni è un cugino inventato. Campioni, Carlitta (con questo soprannome vagamente ispanico) e Scotti – sebbene non fossero pirati – sono persone realmente esistite. Anche Andrea Ruggeri di Napoli, con la sua storia famigliare, è esistito: era un soldato napoletano che aveva fatto amicizia con i Serponti. L’Osteria Colombo di Bellano esiste ma non è legata a questa storia. Mandello era davvero il covo natio dei briganti del Lario.

4*01 – Non plus ultra

Secondo la leggenda, ai limiti estremi del Mondo Antico vi erano delle colonne sulle quali era incisa, in latino, la frase “non [si va] più avanti di qui”. Chi le avrebbe oltrepassate, come Ulisse, sarebbe sprofondato negli Inferi. Qui si gioca anche con il nome di Ercole Sfondrati, Duca della Riviera.

“Vogliamo leccare le palle ai Duchi o dimostrare lealtà al Re? Siamo ancora comacini o vogliamo diventare come i varennesi?”. La voce di mio fratello Tommaso, capitano delle milizie di Bellano, tuonava da dietro la porta d’ingresso del salone della Villa dei Cipressi. Benché a Bellano lui fosse il garante dell’ordine pubblico, nella villa di famiglia ubicata a Varenna, il borgo confinante, aizzava i suoi uomini – gli amici e gli amici dei suoi amici – contro il potere imposto. Per quanto gli Sfondrati agissero secondo la propria morale, avevano giurato di essere fedeli alla Corona Spagnola e si erano guadagnati il loro privilegio nella Riviera. Se volevi leccare le palle, andava al tuo gusto personale, ma se lo facevi era gesto gradito. In ogni caso, loro comandavano legittimamente; la Spagna era lontana e, probabilmente, anche un po’ miope. E ai Serponti non restava che organizzarsi alla meglio.

La nostra spelonca si ergeva leggermente più arretrata dalla villa di Lelio Mornico e dalla Capoana, abitata a scrocco dai Venini. Non si mostrava bella, bensì pittoresca, diversa, disordinata e nascondeva qualcosa di turpe nelle sue travi portanti. Si affacciava sul lago e l’acqua era stata portata a scorrere anche al suo interno. Chi vi entrava sapeva che non lo doveva fare con il timore di una ritorsione, ma perché era naturale e pulito, come il fluire di un fiume tra le rocce. Chi stava dalla parte dei Serponti lo faceva perché sapeva che era cosa buona e giusta. I cipressi, alti e secolari nel nostro giardino sempreverde, erano gli alberi sacri ad Apollo e vegliavano sul dolore che provano i mortali davanti all’immensità della vita eterna.

“Ci stiamo forse dimenticando che per la corona c’è spazio solo su una testa? Che cosa c’è oltre le Colonne d’Ercole? C’è quello che ancora non sappiamo! Viva il Re e Viva i Trastamara, che Dio non mi salvi se verrò meno al mio giuramento!”. Tommaso non era un uomo di particolare coraggio, eppure sapeva parlare davanti alle folle e istigare la violenza facendo leva sulle emozioni più basse degli uomini, quelle che vanno dalla pancia in giù. Sapeva fare coraggio agli altri per esaudire i suoi desideri. Io mi chiamo Giorgio, come il nostro bisnonno che ha giurato per sé e per la progenie di rimanere fedele alla Spagna. Era diventato un Segretario Regio e si occupava di quelle cose che non si possono dire in giro, anche se quando le hai raccontate non sono già più al sicuro. Se prendi per il culo il Re la pena per alto tradimento è il rogo, ma se tradisci Dio – beh, sei fottuto. Che Dio abbia pena degli Sfondrati, allora! Io non tradivo. Non perché mio nonno l’avesse promesso al Re, ma perché ero un medico dottore. Dio è verità e la Verità è tale non per sua natura, bensì per la Ragione, la quale non si inganna e non può ingannare. Menti agli altri e mentirai anche a te stesso.

Tommaso aveva appena finito la sua invettiva. Stava caricando gli animi dei suoi sgherri per il colpo di mercoledì 23 agosto 1651. Non era la prima volta, ma sarebbe stata quella buona, rapidi e di soppianto, non se lo aspetteranno. Sarebbero approdati alla Sfondrata di Bellagio via lago, di notte e nel buio più totale. Non avrebbero ucciso, se non per difesa. Poi, al ritorno, avrebbero appiccato il fuoco ad ogni porto, così che nessuno avesse potuto aiutare il Duca a fuggire. Avevamo imparato tutto dagli errori di Barbarossa. Non deve morire nessuno, il popolo è sacro e dobbiamo soltanto ricordare loro che la Spagna c’è e che i Serponti sono dalla loro parte.

Nessuno lo poteva sapere: mio fratello basava la sua vittoria certa soprattutto sull’aiuto dei suoi informatori di fiducia, i Mornico. Non stavano con nessuno, ma i Serponti prestavano loro i soldi facendo qualche sconto sugli interessi. Senza la loro ricchezza non avrebbero potuto proclamare la loro imparzialità. Eppure, in qualche modo, chiunque è schiavo di qualcosa o di qualcuno.

I più erano d’accordo, esultavano, applaudivano e manifestavano il loro entusiasmo. Sembravano bestie esacerbate pronte alla strage. Tuttavia, nel fragore irruppe un pugno sul tavolo.

Le nocche chiuse appartenevano a Gabriele Mezzera. Non era il capo della banda dei Serponti, ma il più eroico. Litigava in continuazione con mio fratello a causa delle loro idee contrastanti e dei loro caratteri troppo simili. Gabriele era il mio amico fraterno, non mi fidavo di nessuno eccetto che di lui. Gabriele non metteva fronzoli alla verità, te la proponeva sbozzata, anche se le schegge ti avrebbero ferito. Aveva un temperamento sanguigno. Tutti i suoi vizi e le sue virtù volgevano verso sfumature intense.

Scostai di poco la porta, io non facevo parte della banda – suturavo solo le ferite di chi si ammaccava alla stregua di un barbiere o redigevo falsi certificati di morte improvvisa per chi ci lasciava le penne – perciò, non ero invitato alle loro adunate e mi toccava origliare. Mentre tutti gli altri erano passati alla parte dei comizi che più importava, ossia all’ubriacarsi a nostre spese, Tommaso e Gabriele discutevano in disparte.

“Gabriele, ho affidato a te questo compito perché è solo di te che mi posso fidare. Sei l’unico capace di rimanere lucido…” lo stava adulando e Gabriele lo sapeva – lo si capiva da come arricciava il naso, senza smettere di guardarlo dritto negli occhi con le braccia conserte. “Sarai come Ulisse, andrai oltre!” diventò iperbolico. “Andrò all’Inferno se ucciderò un uomo!” si fece uscire dalle mascelle serrate dalla rabbia. Non era il primo essere umano che ammazzava, ma quella volta era stato chiesto solo a lui e solo lui sarebbe stato sporco di sangue. “Dobbiamo farlo, Gabriele. Devi uccidere la guardia personale di Ercole, se non lo farai lui non si muoverà e il nostro sforzo, lo sforzo di tutti, sarà stato vano!”. In pratica, Gabriele avrebbe dovuto aprire la strada a mio fratello. Se tutto fosse andato bene – e mio fratello ne era certo – sarebbe stato il capitano Serponti a mozzare e a consegnare al Re la testa di Ercole Sfondrati e i Serponti sarebbero diventati i sudditi buoni della Riviera. “Te ne sarò riconoscente per sempre, è la nostra ultima battaglia!”. Stava citando Cicerone e il fatto che è normale che un uomo di senno abbia paura prima di andare in guerra. Solo che, come dicevo prima, mio fratello era un abile stratega e sapeva che mai Gabriele avrebbe accettato che qualcuno lo definisse un cagasotto. “Va bene, facciamolo!” gli disse Gabriele annuendo, tuttavia non meno rigido. Con la punta del suo pugnale si incise l’indice destro e ne fece colare il sangue vivo nel vino rosso dentro al suo calice; Tommaso imitò il suo gesto ed entrambi fecero un sorso dallo stesso bicchiere. Il patto era stato fatto.

Gabriele si affrettò velocemente verso la porta e io scesi alla stessa velocità i gradini che portavano al centro del patio. Non volevo che mi beccassero a spiare, io che mi credevo al di sopra dei loro piani violenti grazie a Ippocrate.

L’estate stava quasi volgendo alla fine. Presto sarebbe iniziata la stagione delle gelate notturne che rendevano dolci le castagne da fare arrostire sulla brace. Il tramonto infuocato non durò che pochi minuti per scurirsi e diventare viola e poi nero all’improvviso. Le lucciole danzavano luminose come stelle impazzite tra le felci nella fase di corteggiamento che precedeva l’accoppiamento. L’aria odorava di qualcosa di necessario e ancestrale, di muschio e di legno bagnato. Ci sono due cose nella vita per cui è necessaria la follia: l’amore e la guerra. Tutto il resto è tiepido, non arde abbastanza. Al freddo, il cuore congela.

“Ah, sei qui!?” mi chiese Gabriele arrestando all’improvviso la sua marcia spedita verso il cancello della Villa e i miei pensieri sullo scorrere inesorabile delle stagioni. “Non rimani con loro a festeggiare? Ti perdi il meglio!” feci finta di non sapere nulla del suo disappunto. Tommaso era il re delle feste, quasi un buffone; Gabriele era un tipo solitario e ribelle. In questo, non si somigliavano. Amava il prossimo, ma a debita distanza. Non mi rivelò il motivo del suo turbamento, non era da lui. “Combattiamo per noia, non perché davvero ci importa di come gli Sfondrati trattano la gente. Loro, Voi… Che cambierebbe? Se ti fai chiavare tre volte dalla stessa persona vuol dire che un po’ ti piace, no?” mi domandò retorico.

Ci eravamo conosciuti in Valtellina, durante la Guerra. Nostro padre era il Capitano delle Truppe Regie di Bellano. Eravamo partiti ragazzi ed eravamo tornati uomini. Io ero diventato un medico, cercavo di non farli morire, mio fratello aveva ereditato il titolo di Capitano, arrestava chi li uccideva, e Gabriele uno dei nostri bravi, seccava chi cercava di farci fuori. Eravamo la Bellano che contava, insomma. Il padre di Gabriele, ser Mezzera, commerciava pane ed era abbastanza ricco per non avere bisogno dei soldi dei Serponti, dato che sua moglie era un’ Aureggi e la sua famiglia maneggiava il monopolio del grano. “Non si vive di solo pane, ma se tanto mi dà tanto…” diceva Gabriele che i soldi non se li era mai dovuti sudare. Viveva inseguendo il suo fuoco fatuo, ma non era chiaro a nessuno – forse e soprattutto nemmeno a lui – dove lo avrebbe portato. Vivevamo da privilegiati su una scacchiera di alabastro dove era necessario capire dove stare per non finire con un coltello tra le costole. Non c’era abbastanza tempo per innamorarsi. Solo chi non aveva nulla da perdere poteva vivere senza pensieri.

“Sono un po’ preoccupato per te, Gabrio!” gli confidai a denti stretti. “Che sarà mai, ne devo solo sgozzare uno!”. Nascondeva ogni suo sentimento dietro a un cinismo tagliente come le lame che sapeva usare con una precisione da chirurgo. “E lo fai perché ti annoi!”. Lo canzonai perché infondo lo sapevamo bene che se lui non sarebbe stato dei nostri, non sarebbe stato nessuno. Era ricco, ma non aveva un buon nome. I Mezzera non erano nobili di rango, ma lo erano diventati grazie ad abili contrattazioni matrimoniali. Fece spallucce, lui alla gloria non ci pensava mai. La guerra gli aveva fatto solo scoprire il dolore. Non ci credeva più nel potere e sosteneva che chiunque fosse arrivato ad avere uno scettro in mano, diventava un despota bieco.

Ogni uomo del lago era stato in guerra. Pochi ne erano tornati vivi davvero. Alcuni erano menomati nel fisico. Altri avevano riportato ferite più invisibili, eccedevano di bile nera. Tuttavia, non era d’uso ammettere che la guerra ti avesse fatto male, la guerra ti rende virile, meno debole delle donne che si pungono con il fuso e piangono.

Gabriele appariva come un passero in gabbia e dal fronte si era portato appresso solo quello che da bambino gli faceva paura, morire da solo. “Davvero, Ga’ sono preoccupato per la tua salute”gli ripetei più ad alta voce. “Valà! Sto benissimo, guardami! Le donne si prenderebbero a sberloni per succhiare questo cazzo da assassino!” cercò di fare una battuta per rassicurarmi.

Questo era vero: Gabriele, a differenza mia, aveva molto successo tra il gentil sesso. Neanche doveva fare lo sforzo, arrivavano loro da lui. Qualche volta, le convinceva a dare retta a me. Lui sosteneva che le donne erano come delle fragranti pagnotte, anche se dopo qualche giorno diventavano rafferme e, comunque, in quel caso ci potevi fare la zuppa. Per me erano come serpi: o avevi l’antidoto o saresti morto tra gli spasmi a causa loro. Mi ero sposato qualche anno prima, con una brava ragazza che mi aveva scelto la mia famiglia. Ero fedele e tornavo sempre a casa per occuparmi della mia famiglia, però come tutti gli uomini non avrei disdegnato nuove conoscenze passeggere.

Gabriele non era bello, anzi era piuttosto ombroso, ma tutto nel suo corpo – i riccioli indomabili, lo sguardo grigio e il sorriso che richiamava un ghigno – alludeva alla sua eterna insoddisfazione e all’incapacità di stare fermo, la quale lo rendeva piacente perché non rimaneva mai dove lo lasciavi. Io mi prendevo tutte le responsabilità sulle spalle, volevo essere un uomo che proteggeva le donne; Gabriele le rispettava – però non le toccava con i guanti, come se fossero state fatte di cristallo.

Tirò fuori dal taschino del panciotto la scatolina di metallo dell’Erba della Regina, ne sistemò un mucchietto di polvere sul dorso della mano e lo aspirò con il naso, con un gesto netto ed esperto. Gliel’avevo prescritta io per placare le sue emicranie ma – diceva lui – se stava un giorno senza prenderla non andava più di corpo. Il tabacco era il motivo perché gli colava sempre il moccio e lui ne dipendeva alla pari dei neonati che faticano con lo svezzamento.

“I tuoi sintomi sono aumentati, vero?”. La mano sinistra, quella del diavolo, gli tremava e, qualche volta, al buio vedeva dei lampi di luce, allucinazioni improvvise, e strizzava gli occhi. Potevo percepire a distanza che il suo cuore batteva talmente forte da provocargli la nausea. “Ora mi passa” mi disse una bugia. Sarebbe passato e poi sarebbe anche ritornato. Aveva paura. Sapevo che in un’epoca futura sarebbe stato lecito, ma nella nostra no. Nella nostra epoca si sfidava la Sorte sapendo che ti poteva colpire da dietro. Si mangiava guardinghi per paura di essere avvelenati. Si dormiva da svegli per paura di essere presi durante un bel sogno. Gabriele si distraeva con i suoi istinti più feroci. Non era né irresponsabile, né aggressivo, né megalomane – era soltanto uno che voleva scappare.

“Hasta luego , Jorge! Me voy!”. Indossò il mantello non perché avesse freddo, ma perché stava andando a fare qualcosa di più pericoloso che presentarsi armati alla Sfondrata. Si stava incamminando nell’oscurità verso la Capoana, dove abitava Lucia Venini che non lo aspettava – non era una donna dai lunghi sospiri – ma che avrebbe gradito la sua visita. La sua famiglia era la più prossima ai nostri nemici, quelli che Gabriele sgozzava a mani nude. Cercavo di dissuaderlo in ogni modo, ma non c’ero mai riuscito. “Sai che ho sentito che è stata anche con…”. Lucia era nubile enessuno l’avrebbe sposata perché ormai tutti si erano tolti lo sfizio di sapere com’era fatta sotto le vesti. Gabriele non mi fece finire la frase. Questo lo sapeva anche lui, ma sapere con chi lo faceva innervosire. “Non è mia moglie, non sono suo marito!” ringhiò. Anche perché come marito, in quanto a fedeltà, avrebbe fatto acqua da tutte le parti. Non sapeva nascondersi. “Che gusto c’è? Va con tutti! Non te la devi nemmeno conquistare…” pensavo fosse quella la parte più divertente. “Anche con te?” mi domandò pieno di boria. Non aspettò la mia risposta “Eh, allora non con tutti!” tagliò corto. Ci fu una pausa, quasi come per scusarsi della scortesia.

“Non è una puttana, non ci va per soldi. Lucia è malata. Ha il suo male incurabile…” cercò di giustificarsi. “Lo sai come la chiamano?” gli chiesi per infierire. “La chiamano Lucia La Pazza” mi rispose con la sua tipica sicurezza nel combinare cazzate. “Alla tua età potresti già essere padre…” gli ricordai vagamente zelante. Mia moglie aveva già partorito due volte e mi aspettava a casa con il pancione. “Non voglio gente che pianga sopra la mia tomba!”. Era quello il suo punto di vista, ci considerava degli irresponsabili che agivano secondo costume. “Lucia è l’unica che non ne farebbe tante se io morissi domani o se uccidessi suo fratello o se suo fratello uccidesse me. Lei sa che la nostra esistenza ha queste regole, che oggi non è ieri e nemmeno domani!”. Appunto, Lucia era una pazza.

“E tua madre? A lei non ci pensi?” sfoderai l’ultimo asso in mio possesso. “Lei ha già molte cose alle quali pensare con le valtellinesi che hanno sposato i miei fratelli!”. Ci scappò da ridere. “In effetti, meglio la Pazza che una valtellinese!” non potei che essere d’accordo. “Meglio un ladro sulla porta!” sottolineò lui. Dei Valtellinesi non ci si poteva fidare, si erano uccisi tra di loro per qualche pernacchia di troppo e si accoppiavano cattolici con eretici, bastava non perdere le terre. La Valtellina era Sodoma, almeno quanto Varenna era Gomorra. Ma eravamo troppo lontani anche dal Cielo, non solo da Madrid, per finire sotto una pioggia di lava…

“Gabriele, stai attento! I suoi fratelli sono il doppio di te di stazza!”. Non mi restava che rammentargli questo, tanto avrebbe comunque fatto di testa sua. Di durissima testa sua. “I suoi fratelli non muovono un dito nemmeno quando all’Osteria chiamano loro sorella pazza e io potrei morire tra qualche giorno: è l’ultimo desiderio di un condannato a morte”. Il suo ragionamento non faceva una piega.

Ero preoccupato e, in contemporanea, lo invidiavo. Maneggiava la morte sapendo che quando non ci sarebbe più stato, non sarebbe più stato un suo problema, ma intanto che era qui non si dimenticava di vivere.

Avevo giurato che il mio tenore di vita sarebbe stato regolato per il bene dei malati, che non avrei mai somministrato ad alcuno, neppure se richiesto, farmaci mortali o abortivi e che ne avrei custodito la vita con innocenza e purezza. Mi lavavo frequentemente le mani per evitare che le malattie si diffondessero e, dove la scienza non poteva, le congiungevo per pregare.

Gabriele, invece, non pregava e non giurava – sapeva che in tutto c’era una crepa, e non vi entrava soltanto la luce. Sapeva che era inutile mettersi di traverso con il destino.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
I Serponti, presenti sia a Bellano sia a Varenna, erano a capo della faida contro gli Sfondrati. Tommaso era il capitano di Bellano, Giorgio era uno stimato medico che scrisse vari trattati sui salassi e sul vaiolo. Il loro avo Giorgio era Segretario Regio. Erano anche degli strozzini. Non ci è dato sapere se fossero amici dei Mezzera, i ricchi imprenditori panettieri di Bellano. I Mezzera non erano nobili, ma borghesi sposati con donne nobili, per esempio la mamma di Gabriele Mezzera, Caterina Aureggi, della famiglia di Bellagio che gestiva il monopolio del grano. Lucia – detta “La Pazza” Venini – è davvero esistita. Le cronache non ci danno le motivazioni della sua malattia mentale, ma sappiamo che varie donne Venini furono considerate neurodivergenti. Non ebbe nessuna relazione con Gabriele, dato che non erano di famiglie “amiche”, ma non mi piaceva pensarli soli nel loro tormento. Ercole Sfondrati, in realtà, morì nel 1637 e perciò non poteva essere vivo durante l’agguato del 1651; regnava suo figlio Valeriano, ma al fine della narrazione mi sembrava più emblematica la figura di Ercole.

3*01 – Ora & Labora

“Ora et labora” è una locuzione latina, generalmente associata alla regola benedettina. La vita nel monastero insegnava la pazienza di una vita scandita equilibratamente tra momenti di preghiera individuale e lavoro collettivo, principalmente atto a dissodare terreni incolti.

Dopo aver seccato con le sue mani il primogenito che gli aveva dato solo scocciature e si era anche chiavato sua moglie, Filippo il Prudente riuscì a far sgravare a una sua nipote asburgica un figlio savio da ben indirizzare, il secondo dei Filippi, il Pio, che fu il padre di Filippo il Grande, colui che firmò per esteso sulle tombe mai scavate del Sacro Macello di Valtellina.

Mediocre e insignificante, a dispetto del nome, fu un monarca miserabile con l’unica virtù della stupidità, la quale gli permetteva di preferire la caccia al buon governo. Nessuno sceglieva di andare in Guerra perché credeva in qualche sua filippica, ma perché in tempi di guerra l’unico modo di non morire di fame era effettivamente andare in guerra. In seguito, i mercenari tornavano a casa con il bottino giustificando le loro ammaccature, l’assenza, i figli illegittimi e ogni atrocità commessa con la fedeltà al Re – con il più spergiuri il più tu menti. Nel Giorno del Giudizio le
nostre colpe non saranno fatte pagare a nessun altro, anche quelle dei tempi di carestia in cui ci saremmo venduti pure Maria Vergine. Chi è diventato ricco, lo ha fatto a discapito di qualcun altro. Puoi raccontare bugie a chiunque, anche a te stesso, ma davanti a Dio devi essere onesto. Quando prego, io mi metto in ginocchio.

Filippo siglò il declino della monarchia spagnola. Un debole, un ragazzino individualista a capo di una corte debosciata, impassibile statua della dignità regale in pubblico e scanzonato amante di frivole attrici nel privato, rese una moda assistere alle tauromachie. O il torero mata, uccide, o il toro sbrana il torero. Mi è stato raccontato che l’animale viene aizzato tramite un drappo di colore rosso, così per il gusto di rendere tutto, anche la morte, un gioco. Ho conosciuto il Re di persona e le sue parole mi risuonano spesso tra tempia e tempia, in quei giorni di breva in cui l’emicrania mi spezza le membra in due.

In una Milano in cui i nobili erano per la maggioranza infrancesiti, si sarebbero aspettati di vedere al potere uno che, per lo meno, parlasse italiano. Invece no, è stato messo il Duca di Fèria, Gomez Suarez, con la pelle di pece come tutti quelli di Cordova, terra strappata dai cattolici ai musulmani. “Pagali” gli dissi. Le Tre Leghe avevano promulgato una legge che permetteva ai valtellinesi di abbracciare quella stupida eresia di quei villici che, a forza di inverni rigidi, sragionavano. A noi la Valtellina ci serviva attaccata alla penisola, doveva essere il nostro passaggio gratuito verso l’Austria. Sapevamo che i nobili valtellinesi non vedevano l’ora di scacciare i dominatori stranieri che li avevano ridotti al lastrico: si sentivano i mezzadri dei loro mezzadri. Sapevamo che quell’arciprete troppo zelante se l’era andata a cercare e che il popolino se l’era presa a cuore. Allora decisi che Milano, finalmente, doveva fruttare. “Pagali, Gomez, è l’unico modo di aizzarli! Manca loro solo il denaro per esaudire il loro desiderio di incominciare la guerra al posto nostro!”. Prima lettera di San Paolo ai Corinzi: Fare la carità è la più grande delle Virtù. Così, nel cuore della notte, la notte più calda del luglio 1620, come macellai ne uccisero a centinaia e aprirono le danze al conflitto che ancora non aveva toccato la scacchiera italiana. Cattolici contro Protestanti, la Spagna o la Francia? Mi correggo, la Fede cieca in qualcosa di più Alto ci serviva per convincerci che, se il Mondo non ci bastava non era un peccato contro Iddio Onnipotente. Lo diceva anche mio nonno – o qualcosa del genere.

La Politica? Oh, no. I Mornico ne parlano e la frequentano da molto vicino, però non ne hanno mai avuto bisogno. Non stiamo con nessuno perché noi siamo già qualcuno. Non per i soldi, per la fama o qualche altra accozzaglia di becere cose terrene, ma perché non abbiamo eguali e perciò siamo il metro di tutti i paragoni. E solo Dio può pesare la nostra anima. Non a caso, i Mornico vengono chiamati in causa quando c’è da lavare via il sangue di cento e più cento anni di faide. Perché noi, i Mornico di Villa Monastero, siamo intoccabili.

Non siamo nati a Varenna, ma di Varenna conosciamo il marmo nero che si estrae nelle cave di Grumo con martello e scalpello e che vendiamo caro al pezzo. È molto richiesto perché il nero, in quanto non è bianco, affascina e dà subito all’occhio. Sotto al bianco puoi nascondere il nero e non viceversa e Varenna è così, non nasconde le sue macchie per scelta. Nata bianca, è finita per divertirsi ad essere nera e neanche il suo fiume color latte riuscirà a candeggiarla.

La Leliana, la nostra villa, detta Villa Monastero, è la più bella villa di Varenna dopo la Capoana. L’aveva acquistata mio padre Paolo, quando era diventato un monastero senza più suore. Io, tornato dalla guerra, l’ho trasformata in un giaciglio all’altezza della mia posizione in società e sulla sua loggia adagiata in mezzo al giardino rinomato per varietà di specie arboree, ospito gratuitamente le persone che mi stanno simpatiche, quelle che cercano di essere come me. Le ho dato il mio nome, Lelio. Di origine latina, significa sinistro oppure scherzoso – come più vi garba.

Tu sentiti piccolo ma fai vedere agli altri che sei grande, perché gli altri fiutano la paura. In natura il leone e l’aquila imperano non perché hanno particolari caratteristiche, ma perché il loro comportamento in relazione agli altri li fa predominare, uno sulla terra e l’altro in cielo.

Imperversava la peste. Dicono che Dio l’abbia mandata per ripulirci dai peccati, soprattutto per quelli che ci inducono a sentirci sempre tristi, a non credere nella Provvidenza. La chiamano la Morte Nera. Se ne ammala uno e ne muoiono due appresso. La porta l’opale, la pietra maledetta, la preferita delle donne che si fanno adornare di gioielli: quando un appestato la indossa, si illumina di fuoco ma al sopraggiungere della morte si spegne, quasi si scolorisce, come se il peccato che ti ha scurito il sangue ha finalmente smesso di tormentarti. Molti dei pochi rimasti in vita erano fuggiti in campagna o in montagna. Chi come me era rimasto nel borgo, viveva trincerato in casa, provviste permettendo. L’orrore si intensificava giorno dopo giorno. Da mesi non si celebravano più i riti funebri, tant’è che si seppellivano i morti nei giardini…

Ma non era la malattia che mi faceva paura. Quella, nel prenderti, ti avrebbe tolto il senno e in poco tempo ti avrebbe portato via senza che tu te ne accorgessi. Mi faceva ribrezzo il dilagare della povertà. La povertà chiama degrado. La gente, quando è povera, perde colore, bellezza e dignità. La gente povera ruba. Ruba a me perché posseggo quello che loro non hanno, ciò che non li farebbe morire di fame. Il settimo comandamento proibisce di arrecare danno al prossimo e ai suoi beni. I ladri marciranno all’Inferno.

Quindi, quando il mio mezzadro cominciò a dare segni di respiro corto e tosse, decisi di tenerlo nella mia casa, così da poter trattenere il suo cadavere e allontanare i ladri tramite il fetore. Lo sistemai comodo in un letto ad aspettare la sua ora, neanche fosse un mio congiunto. Dopo due settimane, ancora non si sentiva l’odore di morte e si scoprì che era vivo. Alla Leliana resuscitavano anche i morti, allora?

Pensavo così, ma quando la peste finì fu un lutto a rendermi mesto. Improvvisamente, morì mia nipote, la figlia di mia sorella. La piccola Livia si era sposata a Firenze con un tale che veniva dalle nostre parti ma gestiva affari lì. Ad aprile mi aveva scritto perché cercava una ragazza come dama. La voleva del Lago perché a Firenze non riusciva ad ambientarsi. Avrei chiesto aiuto agli Sfondrati, ma a settembre Livia morì improvvisamente. Lo seppi solo molto più tardi del funerale, poiché il marito mi avvisò solo a novembre. Mi raccontò mesto che era ammalata di tisi da tempo. Da tempo? Ma quali fandonie? Me l’avevano uccisa! Ormai era stata seppellita e quando una figlia si dona in moglie, non appartiene più alla sua famiglia. Non gli scrissi altro che accettavo la notizia anche se non poteva pensare di farmi fesso. Tanto con la sua coscienza era lui che ci doveva andare a letto.

Di mio figlio Alfonso diranno che avrà venduto sua figlia che portava il mio stesso nome per la pace di Varenna. Che gli fece sposare Matteo Stampa per mettere fine alle lotte intestine che stavano riducendo la popolazione a un livello di terrore molto più sottile rispetto a quello trascinato dalla peste.

La politica? Ancora con questa storia? Noi non ne abbiamo bisogno. La gloria appartiene agli dei e l’uomo non si può spingere oltre ai suoi limiti. Quante giovenche dovrai sacrificare ancora per smettere di avere paura della morte?

Stringo la cinghia di corda costellata di nodi attorno alla coscia. Il mio dolore non deve essere estremo, ma costante. La mia anima corrotta è innamorata di Dio. Dio mi chiede di purificarmi dai mie peccati laddove l’acqua non basta. Questo è il modo in cui la preghiera mi dà gioia. Quando il corpo è troppo pasciuto, allora diventa fragile. Presuntuoso nel benessere, diventa disperato davanti alle afflizioni. Domino la carne. Ciò ha risvegliato in me il desiderio di essere devoto. Dominando prepotentemente il corpo, sopporto la rassegnazione e prospero.

Ama gli uomini per quello che sono. Ora pro nobis peccatoribus, adesso e nell’ora della nostra morte – Amen.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Lelio Mornico è stato davvero un personaggio losco. A parte il cilicio, tutte le dichiarazioni presenti in questo episodio sono estrapolabili dalla sua corrispondenza, compresa la morte assurda di sua nipote o l’episodio del mezzadro. I Mornico, ricchi anche grazie al marmo nero, erano una sorta di influencers dei loro tempi. Filippo il Grande e il duca di Feria furono le “menti spagnole” del Sacro Macello di Valtellina.

2*01 – Negligit ima

Negligit ima” (dal latino “Ignora quello che sta in basso”) era il motto della famiglia Di Capua. Si tratta di una libera citazione degli scritti classici sulle caratteristiche dell’Uccello del Paradiso – il quale, secondo la leggenda, non avendo le zampe, non si posa mai a terra e diviene simbolo del distacco da ciò che non è celeste o divino. In realtà, erano gli indigeni sudamericani a privarli degli arti a scopi prettamente ornamentali.

Esiste un volatile coloratissimo che è stato portato in Europa dagli Spagnoli in ritorno dalle Americhe. Non ha le zampe per posarsi, si ciba di sola rugiada e accompagna le anime dei buoni nell’Aldilà. Viene chiamato Uccello del Paradiso e vola elevandosi sopra al Mondo, rifiutandone le bassezze. Guarda in alto, Lucrezia, e cerca le tue risposte.

Vengo da dove nacque Arunte, l’aruspice che, osservando il volo degli uccelli, predisse le guerre e le vittorie di Cesare, tra i marmi bianchi sopra Carrara, da dove anche io potevo osservare le stelle da bambina. Sono la scellerata che avuto pietà di chi era già stato condannato dalla giustizia divina.

Mio padre, Alberico Cybo di Malaspina, fu il primo principe di Massa Carrara. Regnò senza predecessori con il dono della longevità. Era nato l’ultimo giorno di febbraio, in un anno non bisestile e la libertà dalla malasorte fu il suo motto. Massa, sotto di lui, diventò la Massa Cybea di opere pubbliche, giardini e fontane. Era anche duca d’Aiello, Ferentillo, barone di Paduli e Signore di Monteleone: dalla Toscana alla Calabria non c’era territorio senza persone che lo chiamassero per nome. Alla sera, quando i contadini tornavano dai campi era a lui che dovevano augurare la buonanotte.

Sua madre, la dispotica Ricciarda Malaspina, se ne stette con le mani in mano quando Giulio, il fratello maggiore, venne decapitato ventenne per complotto. Perciò, Alberico venne investito da Carlo V, il Re di Spagna, quattro anni prima dell’età legale di venticinque anni. La mania di potere di mia nonna finì nelle sue ceneri un anno dopo il primo matrimonio di mio padre con Elisabetta della Rovere, figlia del Duca d’Urbino, che mise al mondo Alberico II, al quale sarebbe toccata Massa se non fosse morto vent’anni prima di papà.

Mio padre aveva nel cuore una cosa che mia nonna non gli aveva insegnato, credeva nel valore dell’amicizia. Sapeva come non arrivare alla guerra, anche con quegli arrampicatori dei Medici che spadroneggiavano sul resto della Toscana, che anche i servi lo sapevano che discendevano da un cenciaiolo. Si erano montati la testa, ciò nonostante mio padre sapeva da che parte prenderli e di ciò se ne accorse anche il nuovo Re, Filippo, che frequentava spesso la nostra dimora. Non lo conobbi, ma di lui decantavano la preveggenza, la capacità di intuire gli sviluppi futuri di una situazione che, si dà il caso, sia un sostantivo del tutto femminile. Era un sovrano che mi sarebbe piaciuto incontrare, sedurre e sposare, nelle mie fantasie, prima che il matrimonio mi tagliasse le ali. A mio padre, che era un uomo dedito a sparare, anche solo a salve, sarebbe piaciuto diventare un Grande di Spagna, era una carica per i più importanti nobili, quelli più vicini al Re. Questo non avvenne mai e, comunque, rimase fedele e grato ai Trastamara.

La sua seconda moglie fu Isabella di Capua, mia madre. Mio nonno, originario di Termoli, era un semplice mercenario che, come ricompensa ebbe un pezzo del Regno di Napoli e una moglie napoletana degli Ayerbo, ai quali era stata riconosciuta una lontana parentela con i Trastamara. Fu lei, che veniva dalle terre napoletane, a insegnare a mio padre a non guardare mai in basso. In basso ci sei già stato. Lo diceva spesso anche a me, quando non ero ancora capace di tenere il portamento.Spalle indietro, petto in fuori e testa alta: sei una principessa, Lucrezia. I cristiani l’ hanno da sapé che tu non calpesti la loro sfaccimma. Con il peso di una vita intera che non avevo ancora vissuto
sul collo, mi rammentavo Dante e i contadini carraresi, i quali hanno il loro modo speciale di frantumare le zolle, con la roncola che, solitamente, si usa per potare. Per rimanere leggero, in volo, devi essere pronto a sacrificare qualcosa, anche te stesso talvolta.

Eravamo tutte femmine, tranne mio fratello minore, Ferrante, al quale passavo tre anni. Più grande di me di un anno c’era Eleonora, futura duchessa d’Eboli e dopo di me, un anno più grande di Ferrante, Caterina, che prese i voti. Ferrante, nato il 26 febbraio come i più perversi folli nati sotto il segno dei Pesci, diventò marchese d’Aiello e nemmeno lui riuscì ad arrivare a vedere il funerale di nostro padre.

Io, a differenza delle mie sorelle che continuarono a godere del sole e dell’acqua di mare, fui promessa a un chiattillo di Milano, il nipote di papa Gregorio XIV, o meglio, lo zio Nicolò, lo stesso papa che ci concesse di coniare una moneta con la nostra faccia dei Cybo stampigliata sulla testa.

Diventai moglie di Ercole Sfondrati. Secondo mia madre mi era andata bene perché non era così tanto più vecchio di me, di solo sette anni, e proveniva da Milano, la terra straniera più vicina alla Spagna. Ottenni di poter vivere a Roma, siccome Ercole era il preferito dello zio pontefice che gli aveva regalato anche il Ducato di Montemarciano. Ercole non aveva la cazzimma, era cattivo e non voleva nasconderlo. Gli piaceva che gli altri lo ritenessero un uomo da temere e questo gli portava più rinunce che successi, ma i suoi successi brillavano come diamanti. Purtroppo, era poco furbo e perciò incapace di farsi voler bene. A differenza di mio padre, raccoglieva solo invidia e se ne doveva guardare le spalle.

Ad Ercole non piaceva nulla che albergasse sotto la Pianura Padana. Suo padre aveva ottenuto nel 1558 anche la Riviera, il ducato del lago di Como. Mi disse che dove lui aveva autorità esisteva un paese, Varenna, che poteva fare invidia ai lidi del Marchesato d’Aiello, a Cosenza, dove il duca era mio fratello, con il quale lui si sentiva di dover essere rivale. Così, come dono di matrimonio mi regalò una villa, la Capoana di Varenna, in onore al mio cognome materno. Gli veniva comunque strano riconoscermi principessa; per lui ero la sua duchessa, ma io non potevo guardare in basso. Scrissero della mia bomboniera sul Lario “prende il nome da dove viene la bella donna che, dopo tante vittorie, incatena il cuore del domatore d’Alpe”. A facc’ ro cazz!

Era un periodo in cui si azzuffavano tutti i regni del Vecchio Mondo, perché la Francia e la Spagna non trovavano accordi e, come quando si gioca a scacchi, si erano mandate avanti le pedine. Il duca Sfondrati si era sposato dopo, quando si era ritirato dalle sue fatiche militari. La Capoana non era che un crotto, una cantina umida immersa tra gli erbaggi con un porticciolo a picco sul lago. Era amministrata dalla famiglia Venini, dacché non ci passavo che le mie estati aspettando che mio marito mi raggiungesse da Bellagio, dalla Sfondrata – la sua villa. Vivevamo separati come se io fossi solo un’appendice della famiglia, quella da mettere incinta frattanto. Io morii nel 1607 a Roma e le nostre strazianti nozze non durarono che due anni.

Il mio fu un matrimonio senza sfarzo e se non fossi un mero puntino sull’albero genealogico degli Sfondrati, si sarebbero perse le mie tracce nella linea inesorabile di questa storia. Portavo in dote lo stretto necessario per non annegare. “Un matrimonio infelice porta all’estinzione” mi lamentai con mio marito, il quale non sapeva che a casa mia a mia madre era permesso di esprimere il suo punto di vista, anche quando diventava petulante. Mio padre tendeva ad avere, come si suol dire, le orecchie da mercante; Ercole, invece, si infastidiva anche per il minimo ronzio. Mi sbeffeggiò con la sua risata roca, gutturale, quasi un latrato di un cane rabbioso. “Pensi che per rimanere incinta tu abbia bisogno di essere felice?” mi chiese retorico. “Da quanto ne so, basta che tu respiri!” chiuse laconico. L’idea che i sudditi si erano fatti di me è che io pensassi di avere dell’oro in mezzo alle gambe e che fossi io a spingere mio marito a cercare delle donne più accoglienti, che fossero fatte di semplice carne. Per Ercole, ciò che non aveva consistenza non esisteva – per esempio, i miei pensieri. “I matrimoni si fanno perché vanno fatti”. Per lui acquistare bestiame o una moglie faceva lo stesso. Se io avessi provato a ricordargli che ero effettivamente una principessa, lui ribadiva il logoro fatto di essere il nipote del papa. Era come giocare a briscola, un po’ devi essere capace, un po’ devi avere fortuna. Si cercava di non perdere, a volte anche barando. Ercole amava un detto: o mangi questa minestra o salti la finestra. Non alludeva al divorzio, benché vivessimo sotto tetti diversi, ma al mio suicidio. Così, all’Inferno ci sarei finita solo io e a lui sarebbe bastato farsi il segno della croce.

Con Ercole non conobbi che tepore, né l’amore, né la violenza. Mi obbligava a dormire con la porta aperta, in modo che i miei sogni fossero perturbati dall’evenienza che lui potesse piombare nel mio letto. Non avevo paura, solo l’eventualità mi causava incomodo, mi disturbava il sonno. Quando lui arrivava, bastava contare fino a duecento e poi tutto era finito. Alle sue amanti intimava con parole, soldi o botte – dipende dall’indole – di andare in giro a raccontare che Sua Grazia avesse tutti i crismi per figliare. Anche quella era una piccola libertà che avevano le altre donne di mio marito, potevano spettegolare tra di loro. Non erano né i giudizi severi, né la solitudine a dolermi nel cuore, ma il senso di vuoto. Io non sentivo niente.

Ercole era fatto così e così sarebbe rimasto, imperituro nelle stagioni, non prevedeva né crescita né cambiamento, poiché si considerava un uomo fatto, con le radici ben piantate in terra e il resto era tutta eresia. Si riempiva la bocca di parole come carità, compassione e pietà, ma solo perché considerava il resto delle persone tranne lui dei miserabili, non perché non avessero lustro bensì perché splendevano meno di lui al buio. Lui, che rifuggiva la ridondanza e non tagliava mai il vino con l’acqua, nel suo dialetto insubre li definiva dei “marcioni”, indecenti, percependo il lezzo di chi se la fa sotto a luci spente.

Talvolta mi trovavo stupita a giustificarlo, soprattutto con mio fratello Ferrante. Lo rassicuravo sul fatto che gli uomini di Milano erano così, asciutti, parchi di sentimentalismi o teatrini alla napoletana. In realtà, era un uomo talmente spigoloso da risultare tagliente. Non mi aveva mai percossa, ma mio fratello riusciva a vedere i lividi del mio animo.

Ferrante odiava Ercole a priori. Non per gelosia o perché fosse un pessimo marito per sua sorella, altresì perché ne odiava i principi. “Non mangia per non cagare” diceva lui che, invece, mangiava i fioroni e ne nascondeva le bucce sotto le gabbe persiane poiché non aveva voglia di buttarle via. Ercole, invece, diceva che avrebbe dovuto andare a cargare i monti, a portare le capre negli alpeggi durante l’estate, per accorgersi come si sta al mondo. Non era colpa nostra: eravamo stati educati con l’idea che prosperare fosse più importante che funzionare, temevamo lo scuornu, l’umiliazione. Perciò, abituati a stare in apnea, ci piacevano le cose che tolgono il fiato, gli applausi. “Nu tignusu!” lo descriveva Ferrante. Era un etimo che in Calabria sintetizzava il suo essere gretto, taccagno e rivoltante – un ricettacolo di pidocchi.

Anche se stimavo Ferrante e mi mancava la mia famiglia, mi ero abituata alla mia vita. Ogni sera scrivevo una lettera d’addio e ogni mattina la stracciavo. Evidentemente, mi mancava il coraggio di saltare la finestra. Non sapendo respirare, sentivo raspare l’aria giù per la gola a ogni fiatata e mi faceva più male di essere presa a frustate.

Ercole mi faceva vivere un’intimità umiliante per ricordarmi che ero un’ingrata, un’aristocratica arrogante delle Terre Matte, che rifiutava di considerare un principe quell’uomo che qualsiasi delle zotiche nobili del lago, delle contadinelle vestite a festa, smaniava per avere tra le cosce – specie quelle galline dalla cresta floscia di Varenna, le quali si consideravano le discendenti delle matrone patrizie e volevano insegnare a me, mediterranea di rango, come essere una buona moglie.

Ferrante sapeva come funzionavano le cose nel mio matrimonio e così funzionava anche il suo e quello di tutti. “Cercati anche tu della compagnia!”. Sosteneva che tolto il grillo, ci si toglieva anche il frinire nella testa. Sottintese che doveva essere una mia idea e che, nel caso non fossi stata abbastanza scaltra da non farmi scoprire, lui non doveva essere chiamato in causa. Anche se l’adulterio, oltre ad essere un peccato, era anche un reato punibile con l’annegamento per le donne, mi prese una brama incredibile. La mia vita cominciò a muoversi in una direzione: lo dovevo fare per forza. Finalmente, il mio cuore ritornò a battere più veloce.

D’estate, la Capoana sapeva di fieno e fragole. Il profumo era dolce e caldo, profondo e calmante, quasi ipnotico – risvegliava in me l’eccitazione atavica di aver ritrovato qualcosa di caro perso e quasi dimenticato. Quando giungevo qui da Roma, stanca del viaggio più dell’inverno, venivo accolta come un’ospite importante e non come la padrona. La mia villeggiatura orbitava silenziosa e ordinata attorno agli amministratori della villa, i Venini, i sottoposti a mio marito a Varenna. A quei tempi, il conte era Giorgio Venini.

Giorgio aveva la bellezza instabile della sua famiglia. Avevano, in generale, dei bei lineamenti, ma ognuno di loro aveva questo o quell’altro difetto che stonava nella melodia. Lui, ad esempio, aveva i tratti somatici dei normanni: pelle chiara, occhi azzurri e linee poco morbide. Avrebbe potuto sembrare un Lord, se non fosse stato che il suo naso dal profilo continuo fosse un pelo troppo grande e gli dava un aspetto quasi temibile, rendendo severa la sua espressione anche quando volesse esprimere gioia.

Il Conte aveva una moglie ancora giovane, che eppure nascondeva tra i folti capelli corvini i segni di una bellezza ormai sfiorita, come se avesse passato troppo tempo al vento e al sole. Lodava mio marito con le stesse lusinghe insistite e leziose di qualsiasi sua amante, alle quali rispondevo miagolando per ricordare loro che oltre alle corna portavo anche la corona – è questione di qualche vocale, solo aria in bocca. Loro, per mantenere lo stato di grazia, in bocca ci si dovevano infilare qualcos’altro.

Con Giorgio (o per Giorgio) aveva messo al mondo due marmocchi che giocavano spensierati a rincorrersi insieme ai miei, quando Ercole mi permetteva di tenerli con me lontano da lui. Loro erano maschi e io li avevo solo partoriti in uno scenario in cui loro dovevano diventare degli Sfondrati. Non riuscii ad accompagnarlo nell’età adulta, ma l’unico che mi assomigliava era Francesco.

Durante la sua giovinezza avrebbe sperperato tutti gli averi nella terra primigenia, Napoli – che si concedeva al vizio della perdizione – e sarebbe stato costretto alla monacazione. Da frate, avrebbe preso il nome di Placido, per piacere a suo padre. Ma nemmeno da bambino Francesco piaceva agli altri. Era capriccioso, ma non forte. Per ripicca, gli altri bambini lo convincevano a mettersi nei guai. Non era calmo e dormiva poco, anche quando lo tenevo al sicuro nella mia pancia. In cuor suo, sapeva che l’unico modo di non sopperire era quello di distinguersi, diventare tempesta nella calma apparente.

Per esempio, Francesco come tutti i bambini del lago, per necessità, aveva imparato a nuotare. Era il più bravo tra i suoi fratelli, persino di Valeriano anche se Ercole non lo avrebbe mai ammesso – perché era il primogenito. Semplicemente, voleva non saperlo fare e si ostinava a comportarsi come se non ne avesse l’abilità. Un giorno, insieme ai suoi fratelli e ai piccoli Venini, si mise a giocare a una sfida di tuffi sul pontile in legno dell’imbarcadero della Capoana. Francesco, come gli altri si tuffò, ma una volta in acqua si lasciò annegare. I bambini corsero nel giardino dove io stavo ricamando sotto un tiglio intrattenendomi al sollazzo. Piagnucolavano sommessamente che
Francesco si stava rifiutando di nuotare. Non sarebbe morto, perché avrebbe prevalso l’istinto di sopravvivenza sulla boria dell’ostinazione.

Giorgio Venini, richiamato all’esterno dai pianti, si precipitò verso il lago e io appresso a lui. Non esitò. Si tolse la camicia, le bretelle e i calzoni proprio davanti a me e si tuffò per salvare mio figlio. La sua fisicità era concreta. Il rilievo dei suoi muscoli lo faceva sembrare forte, insomma, virile. Non c’era nulla in lui che non era mascolino. Furono solo dei secondi, ma mi dimenticai che mio figlio stava annegando.

Portammo Francesco in una stanza. In poche ore si era già ripreso ed era ritornato a giocare con gli altri. Fu solo un grande spavento per noi adulti. “Giorgio, la ringrazio è stato davvero coraggioso” mi congedai. “Non si preoccupi, è ciò che avrebbe fatto qualsiasi padre…” si sminuì male e nell’intento ci mise un accento di gagliardia. “Ecco, appunto, se potesse non farne parola con Sua Grazia…”. Annuì, anche se Ercole l’avrebbe saputo comunque. Non mi avrebbe punita perché venire alla Capoana sarebbe stato un incomodo; avrebbe raccontato ai miei figli cose spiacevoli sul mio conto per convincerli a non più venire da me. Ma io ero la mamma e Francesco riusciva sempre a
convincere gli altri due di questa sacrosanta verità. “Se posso essere indiscreto…” iniziò una domanda “Potrei domandarle perché Francesco talvolta ha questi atteggiamenti opposti alla sua incolumità?” e la finì senza averne il permesso. Potevo non rispondere, ma non esitai. “Cerca di provocare in me una reazione, crede che sua madre viva in catatonia e ogni tanto cerca di scuotermi per vedere se non è rimasto da solo contro tutti!”. Giorgio mi guardò senza capire, spesso il cervello maschile è meno tarato di quello femminile, poiché ha meccanismi più rozzi. Glielo spiegai, come avevo spiegato a Francesco che se fosse annegato davvero sarei morta appresso a lui. “Francesco sa”. Mi bastò dire quello. Una principessa non avrebbe mai umiliato un marito che, per motivi feudali, non poteva opporsi al fatto che il suo Signore avesse adocchiato sua moglie. Mio figlio sapeva e non capiva perché non urlassi, perché più mi denigravano più io ero gentile. Perché suo padre tradiva me e io venivo considerata la carnefice. Più una cosa è semplice, più non la si capisce.

Non scelsi Giorgio Venini perché era aitante, piuttosto perché era un uomo che mi faceva pena. Non era rapace, non si appropriava dei beni altrui con violenza o inganno. Chiedeva sempre per piacere. Camminava in punta di piedi. Se si muoveva da una stanza all’altra non lo sentivi. Mio marito gli fotteva la moglie sotto gli occhi, letteralmente. Non potevo umiliare lei, perché era la preferita di mio marito, allora ricordai le gerarchie a lui. Si sentiva al di sopra di tutti, stoico, nel sopportare. Allora avrebbe anche potuto sopportare il mio peso sopra di sé mentre lo trattavo come mio marito ordinava al fattore di trattare gli stalloni.

Mi feci trovare completamente nuda, nella sua stanza da letto, con le gambe spalancate perché non avesse alcunché dubbio su cosa dovesse fare. Più che sorpreso, sembrava stizzito. “Lucrezia? Si è ammattita?” abbaiò. Giravano voci sul fatto che noi imparentati con i Trastamara avessimo dei problemi con i nervi. “Al Conte, forse, non piacciono le donne?” gli chiesi beffarda senza il minimo ritegno di avere il tutto il mio corpo alla sua mercé. Non rispose. “In cosa non ti piaccio, Giorgio?” lo chiamai per nome. Fu quello il momento in cui il suo sguardo si posò su di me e su ciò che mi rendeva piena e voluttuosa come un capitello ionico e, in un lampo, lo distolse. “Non posso” disse, senza parlare di volontà. “Non puoi perché sei sposato o perché io sono sposata con Ercole Sfondrati?” ero curiosa. Giorgio cercò di dire qualcosa ma ne venne fuori solo un mugugno. “Fai diventare il motivo per cui non puoi quello per il quale lo vuoi”. Non mi fu necessario aggiungere altro. Per qualche ora, in tutte le posizioni proibite dal catechismo, Giorgio mi palesò in silenzio quali erano i crismi di cui si beava Ercole.

“Vi è piaciuto?” mi domandò mentre mi rivestivo. Ormai, non era più utile rimanere nuda al suo cospetto. Non risposi, mia madre mi aveva spiegato di non farlo. Se dici di sì o se dici di no, sicuramente ti farai desiderare di meno. “Sul serio, vi è piaciuto?” mi domandò di nuovo. Era sdraiato tra le lenzuola umide, sfatte loro e sfatto lui, e si sorreggeva il capo con il polso destro. La luce che ficcava il naso tra le fessure delle gelosie illuminava di radente la polvere sul comodino di legno di ciliegio e la sua barba riccia. Lo guardai negli occhi color azzurro pioggia, e annuii. Mi era piaciuto, ma non ne ero stata appagata al completo e, per questo, mi sentivo totalmente insoddisfatta. Venne il mio turno. “E a Voi?”. Ci trattavamo con riverenza, anche se non c’era più nulla di distinto per riserbo tra di noi. Giorgio aveva una piccola cicatrice al lato dell’ombelico, una ferita da lama mal cicatrizzata. “Cambiare a volte è bello, è divertente ma ciò non toglie che sia sbagliato!” rispose come avrebbe risposto qualsiasi uomo di qualsiasi epoca. Un giorno, anche sulla luna, il primo uomo si sarebbe curato di piantare una bandierina piuttosto che godersi la meraviglia. Lo decisi all’istante. Non avrei mai frequentato lo stesso letto per più di una volta. Io non sarei stata sciocca come Ercole, non avrei avuto una preferenza, per me tutti erano uguali come la perifrastica passiva. “Giorgio, è stato un errore!” glielo dissi io prima che lo dicesse lui, amputandolo nell’orgoglio di essere quello che dà.

Il giorno dopo incontrai la moglie di Giorgio nel corridoio che portava alla mia stanza. Una macchia blu contornava la sua guancia, sforando verso il labbro tumefatto. Stavo per chiederle cosa le fosse successo. “Puttana!” mi definì. “Come scusa?” la richiamai all’obbedienza. “Ce l’ha abbastanza grosso per le vacche terrone mio marito?”. Alludeva alle dimensioni di mio marito e a quelle delle sue corna. Ne venne fuori che Giorgio si era vantato con un tale in Osteria, che l’aveva raccontato all’amante e che questa l’aveva riportato alla moglie di Giorgio. La tale l’aveva raccontato ad Ercole. Ma siccome solo Ercole pensava di avere il diritto di definirmi una vacca terrona, in caso (anche se non l’avrebbe fatto perché ero la moglie del Duca, ero milanese anche io e sicuramente più spagnola di lui) allora l’aveva riempita di botte e poi se l’era anche chiavata. Ercole decise che le cose erano andate diversamente. Lucrezia è una stolta ragazzina viziata della quale Giorgio Venini, al quale era stato ordinato di prendersi cura della sua psiche instabile, si è approfittato. Lucrezia è stata stuprata. Lucrezia appartiene ad Ercole. Giorgio Venini ha oltraggiato il Duca.

Ercole non aveva né amici né amanti, solo insetti parassiti che vivevano in funzione di lui. Ai tempi la famiglia più avversa al potere che i Venini avevano ricevuto dagli Sfondrati erano i Carganico. Scrisse una lettera anonima al loro capofamiglia rivelando i punti deboli della sicurezza della Capoana. Si tenne la moglie di Giorgio per lui. Glielo fece sapere così “Mentre io ti sto scopando, i Carganico stanno avvelenando quel porco di tuo marito e quegli inutili mocciosi dei tuoi figli. Non si sa bene chi ti ha ingravidata, ma almeno siamo sicuri che la sua stirpe è scorticata. Contenta? Orasei libera di essere mia e non di quell’idiota che preferisce una tamarra a te!”. La donna, un po’ per la paura di dover mendicare e un po’ per la paura di essere uccisa, rimase fedele ad Ercole. I Venini, pensando che l’omicidio fosse da imputare ai Carganico, diventarono ancora più riconoscenti ad Ercole. Io, non volendo più fingere cordoglio sopra le bare aperte di uomini che avevo ammorbato, decisi che mi sarei messa a pregare notte e giorno perché Santo Stefano mi permettesse di scagliare la prima pietra o di murarmi viva.

Era già autunno inoltrato quando sfruttai l’ultima bella giornata del novembre 1607 per tornare a Roma. Smisi di respirare qualche giorno dopo, per apparente morte naturale. Mi si era infranto il cuore, dissero i medici della curia papale, anche se erano gli unici che potevano distinguere la chiamata d’Iddio a sé alla morte invisibile. Potevo anche non essere avvezza alla vita come tutti sostenevano, ma tutti noi beviamo ciò che è insapore e incolore senza farci domande, solo per dissetarci. Gli uomini si sfidano a duello quando si tratta d’onore e le donne? La moglie di Giorgio trovò un modo atroce per celare le tracce della sua colpa. Non eravamo mai state rivali in amore, Giorgio od Ercole non amavano altro che sé stessi e il pugnale dentro la loro guaina, però – per un mio capriccio – i suoi figli erano morti tra gli spasmi, soli. Mi uccise con una morte incolore, inodore e insapore, così come è stata la mia vita. Non ho mai guardato in basso, perché ero destinata ad altro.

Chi è stata Lucrezia? Una rosa con le spine che prova ad innestarsi su un albero. Ora Lucrezia si libra libera tra i silfi. Lucrezia è sospesa nell’aria e ulula tra gli spifferi della Capoana durante i temporali estivi.

Miss Raincoat
© 2024 Patrizia Rondinelli – Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Le ricostruzioni delle genealogie Cybo e Sfondrati è veritiera. Lucrezia Cybo morì davvero pochi anni dopo il suo matrimonio a Roma; dopo la sua morte Ercole si trasferì alla Sfondrata di Bellagio vicino alla quale fece costruire una chiesa francescana e seguì uno stile di vita asciutto. La Capoana, suo regalo di nozze, fu a sempre amministrata dai Venini di Fiumelatte. La liason tra Lucrezia e Giorgio è un’invenzione, così come l’episodio dell’incidente (Francesco, fatto monacare con il nome di Placido perché prodigo, invece, è esistito). Giorgio Venini fu davvero ucciso dai fratelli Carganico, avversi agli Sfondrati, ma non per via di una tresca con Lucrezia. Ironia della sorte: io e Ferrante Cybo siamo nati lo stesso giorno, il 26 febbraio. La pronuncia esatta di “Cybo” è [cibo], ma è anche accettata [sibò] – pena capitale per chi legge [saibo] 🙂