Speciale Sanremo 2023

🤩 Le Muse

Per gli Antichi Greci le Muse erano delle sorelle Custodi delle Arti e della Cultura, le quali, grazie al loro canto (durante i banchetti degli Dei), permettevano agli avvenimenti più importanti di non essere dimenticati. Il loro protettore era il dio Apollo. L’unica categoria umana che poteva beneficiare della loro musica era quella degli artisti che ne beneficiavano in ispirazione. Queste sorelle erano: ✒ Calliope (Epica), 📃Clio (Storia), 🎵Euterpe (Lirica, quindi le Canzoni), ♥ Erato (Poesia Amorosa), 🗡Melpomene (Tragedia), ⛪Polimnia (Inni Religiosi o Discorsi in generale) , 🥸 Talia (Commedia), 💃 Tersicore (Danza) e 🌍 Urania (Astronomia)

🎧 La Playlist degli Unicorni

“Alba” di Ultimo → “Impressione (Levar del Sole)” di Claude Monet

Impressionismo 48×63 cm – 1872 – Marmottan Monet di Parigi

“Tango” di Tananai → “Il Maggiordomo Cantante” di Jack Vettriano

Contemporanea – 75×60 cm – 1992 – collezione privata

“Nel bene nel male” di Madame → “Minnie Cunningham” di Walter Sickert

Impressionismo – 76×64 cm – 1892 – Tate di Londra

“Parole dette male” di Giorgia → “Il tradimento delle immagini” di René Magritte

Illusionismo Onirico – 63×94 cm – 1929 – Los Angeles County Museum

“Supereroi” di Mr Rain → “Il Giuramento degli Orazi” di Jacques-Louis David

Neoclassicismo – 330×420 cm – 1784 – Louvre di Parigi

“Due” di Elodie “Le lacrime di Freyja” di Anne Marie Zieberman

Ne avevamo parlato qui

“Quando ti manca il fiato” di Gianluca Grignani → “S. Giuseppe col Bambino” di Guido Reni

Classicismo Seicentesco – 126×101 cm – Ermitage di San Pietroburgo

“Sali (Canto dell’Anima)” di Anna Oxa → “Aurora” di William-Adolphe Bouguereau

Ne avevamo parlato qui.

“Cenere” di Lazza → “Fin d’Arabesque” di Edgar Degas

Impressionismo – 65×36 cm – 1877 – Orsay di Parigi

“Duemilaminuti” di Mara Sattei → “La persistenza della memoria” Salvador Dalì

Surrealismo – 24×33 cm – 1931 – MOMA di New York

“Lasciami” dei Modà → “Sentiero a Louveciennes” di Alfred Sisley

Impressionismo – 38×46 cm – 1873 – Orsay di Parigi

“Furore” di Paola e Chiara → “Salomé” di Franz Von Stuck

Jugendstil – 114×92 cm – 1906 – Lenbachhaus di Monaco di Baviera

“Splash” di Colapesce e Dimartino → “Campo di Grano con Cipressi” di Vincent Van Gogh

Postimpressionismo – 72×91 cm – 1889 – National Gallery di Londra

“Terzo Cuore” di Leo Gassman→ “Famiglia di Saltimbanchi” di Pablo Picasso

Periodo Rosa – 213×229 cm – 1905 – National Gallery di Washington

“Un bel viaggio” degli Articolo 31 → “Love on the road” di Ron Hicks

Contemporanea -30×40 cm – 2011 – collezione privata

“Mare di Guai” di Ariete → “Un uomo e una donna davanti alla luna” di Caspar David Friedrich

Romanticismo – 35×44 cm – 1820 – Alte Nationalgalerie di Berlino

“Lettera 22” dei Cugini Di Campagna → “L’incendio alle Camere dei Lord e dei Comuni” di William Turner

Impressionismo – 92×123 cm – 1835 – Cleveland Museum of Art

“Vivo” di Levante → “Maddalena in Estasi” di Caravaggio

Barocco – 106×91 cm – 1606 – collezione privata

“Addio” dei Coma_Cose → “L’Addio” di Lionello Balestrieri

Futurismo – 73×60 cm – 1910 – Scuderie Viscontee di Pavia

“Se poi domani” di LDA → “Venere Rockeby” di Diego Velàsquez

Barocco – 122×175 cm – 1648 – National Gallery di Londra

“Made in Italy” di Rosa Chemical → “Uomo Vitruviano” di Leonardo Da Vinci

Rinascimento – 34×24 cm – 1490 – Gallerie dell’Accademia di Venezia

“Egoista” di Shari → “Medea” di Henri Klagmann

Arte Accademica – 121×82 cm – 1868 – Museo di Belle Arti di Nancy

“Mostro” di gIANMARIA → “Saturno che divora i suoi figli” di Francisco Goya

Romanticismo – 143×81 cm – 1823 – Prado di Madrid

“Non mi va” dei Colla Zio → “La Vestizione” di Edmund Blair Leighton

Arte Accademica – 182×108 cm – 1910 – colezione privata

“Cause Perse” di Sethu → “La Battaglia di San Romano” di Paolo Uccello

Rinascimento – 180×316 cm – 1438 -National Gallery di Londra

“Stupido” di Will → “La Morte di Marat” di Jaques-Louis David

Neoclassicismo – 162×128 cm – 1793 – Museo Reale di Bruxelles

“Polvere” di Olly → “Early Spring in Central Park” di Paul Cornoyer

Impressionismo – 50×60 cm – 1899 – collezione privata

La Canzone Vincitrice

“Due Vite” di Marco Mengoni ➤ Robert Edward Hughes “Danza delle fate la notte del solstizio”

(titolo originale: “Midsummer Eve”) – 1908 – Birmingham Museum

Hughes risente particolarmente dell’influenza dei Preraffaelliti e in particolare di John Everett Millais, che determina anche una grande presenza di fiori nei suoi dipinti. L’artista si è inoltre occupato, come la Confraternita di vari soggetti presi dal repertorio di William Shakespeare, in questo caso è Sogno di Una Notte di Mezza Estate, ossia la rappresentazione di Titania, la Regina delle Fate. Hughes amava molto le storie d’amore incrociate, doppie, le due vite che canta Marco e che sono ben rappresentate dall’atmosfera magica di questo dipinto.

Miss Raincoat

*** per la descrizione delle altre opere seguite il blog nei prossimi mesi 🙂 (perdonate la mancanza – le opere erano troppe per un solo post e anche Sanremo ha una durata estrema – ma continuate a cercare Mr. Raincoat e le scoprirete prestissimo!)

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Michelangelo

Nome Michelangelo Buonarroti per gli amici (quali amici???)sui socials @mik.lagnulus
Nato a Caprese, in provincia di Arezzo (Toscana)
Data nascita/morte 6 marzo 1475 – morto a 89 anni a Roma, non in condizioni abbastanza consone al prestigio artistico che aveva. Dopo i funerali solenni, fu sepolto in Santa Croce.
Segno Zodiacale Pesci
Classe Sociale la sua famiglia faceva parte del patriziato fiorentino, anche se suo padre era caduto un po’ in malora (era il podestà di un Comune piccolo, Caprese). Lui fu il primo a diventare artista in una famiglia di nobili che non si erano mai sporcati le mani. Seguì le orme degli scalpellini famigliari della sua balia. Nonostante tutto, i primi guadagni di Michelangelo servirono a riportare ricchezza in famiglia. Fu per questo, per non dirsi un ricco che lavorava, che per tutta la vita Michelangelo disse che “non ci potevo fare niente se avevo il genio e dovevo farlo sfogare!”. Inoltre ciò gli fece avere anche un rapporto difficile con i soldi.
Stato civile non si sposò mai e non è documentata nessuna delle sue relazioni (esiste una teoria sulla sua presunta omosessualità anche dovuta alla prevalente mascolinità da vero macho delle sue figure). In tarda età si vota a una religiosità piuttosto austera.

Periodo Artistico Rinascimento Italiano. I nudi pongono la naturalità del corpo umano, l’essere umano nella sua purezza essenziale, al centro del Mondo. Fu un periodo di gioia di vivere. Tipo noi dopo il lockdown.
Tecnica e Stile Riflette la sua personalità irascibile, permalosa e sempre insoddisfatta. I suoi colleghi, specie Bramante, temevano la concorrenza e gli tramavano spesso alle spalle. Il suo ambito era la scultura; la pittura, praticamente, fu una sfida. Si può dire che il suo non-finito, cioè il lasciare che le figure rimangano non del tutto emerse dalla pietra appena sbozzata, sia un modo per rendere tridimensionalmente la prospettiva aerea, il particolare sfumato del maestro Da Vinci – e che si contrapponga al super-finito delle sue opere giovanili, marmo modellato come se fosse cera. Il suo preferito era il marmo bianco di Carrara, che andava a scegliere personalmente (A parte per il David, che gli rifilano una sòla che si rompe solo a guardarla).
Temi Spaziano dalla religione cattolica, al neoplatonismo fino al mito classico (ma quasi mai in chiave profana). Tendenzialmente, si rifà al gradimento della committenza (i più importanti i Medici di Firenze e Papa Giulio II – con i quali litiga puntualmente). Fu anche uno dei primi artisti a diventare imprenditore, cioè realizzava le opere e i committenti le compravano. Riprende il pathos, i movimenti drammatici in moviola, dell’arte ellenistica. Il suo pezzo preferito era il Laocoonte, appena riscoperto. Era un anticonformista che se ne fregava, perciò diventa una rockstar.

*Canzone Assegnata : “Me ne Frego” – Achille Lauro (2020)

Elenco delle Opere nel Video

(*in ordine cronologico e non di comparsa nel video)

Bacco

1497 – 203 cm – Bargello di Firenze
Quest’opera vale a Michelangelo la committenza di Jacopo Galli, agente dei Cardinali di Roma. Erano stati vittima della truffa del Cupido Dormiente, realizzato da Michelangelo e spacciato per un reperto archeologico. Volevano questo autore così abile per loro. La statua viene rifiutata. La sensualità del Dio dell’Ebbrezza era un po’ too much. Ma il realismo e la grande conoscenza dei classici è antesignana della carriera che avrebbe fatto questo giovane artista fiorentino…

Tondo Doni

1507 – tempera grassa su tavola – Ø 120 cm – Uffizi di Firenze
Fu eseguito su committenza per le nozze di Angelo Doni e Maddalena Strozzi (lui era un ricco mercante di Firenze). Per aver contestato la fattura, il committente si ritrovò a pagarla il doppio. Viene rappresentato il Cattolicesimo in chiave neoplatonica, come una forza che governa il Mondo che l’Uomo riscopre ma l’ha sempre inconsciamente conosciuta, anche quando era pagano. Maria e Giuseppe, tenerissimi e umani, portano in alto la figura di Gesù, torti in una spirale. La linea curva, derivata dall’amore di Michelangelo per la scultura ellenistica, crea un equilibrio mosso e serpentino – archetipo dell’Arte Tardorinascimentale.

Pietà Vaticana

1499 – 174×195×69 cm – Basilica di San Pietro in Vaticano
Considerata uno dei capolavori di Michelangelo all’unanimità in tutto il Mondo. Michelangelo aveva poco più di vent’anni e gli fu commissionata quest’opera con una dead line di un anno per Santa Petronilla dai Cardinali, grazie al committente Jacopo Galli (che presto disconosce, per fare il figo). Il gruppo piramidale è molto innovativo. Cristo viene privato della sua iconografica rigidità nella morte, è molto umano, e le due figure si fondono insieme in un momento intimo. Questo è un lutto di una Madonna raffigurata giovane poiché,essendo piena di grazia, il suo corpo non viene intaccato nemmeno dalla vecchiaia o dall’estremo dolore (è come se fosse lei la protagonista). Nel 1972 il geologo Laszlo Toth in pochi secondi la colpisce per quindici volte con un martello gridando “I Am Jesus Christ, risen from the death!”.

(*)David

1501 – 520 cm – Galleria dell’Accademia di Firenze
Questa statua è l’ emblema del Rinascimento ed è anche uno dei simboli dell’italianità nel Mondo. Fu concepito per essere collocato in piazza della signoria come simbolo della Repubblica. Il tema del David era radicato nella cultura fiorentina. L’innovazione di Michelangelo sta nel fatto che Golia e la sua testa a mo’ di trofeo non vengono mostrati. Vediamo un David concentrato e che usa l’intelletto per comandare i gesti di forza fisica (e che fisico! / per quanto riguarda il pisellino, nell’Arte Classica solo gli schiavi – cioè solo chi non ha la mentalità formata per manovrarlo – ce l’ha grosso!). Non mostra violenza. Solo schifo verso chi è violento, verso la forza bruta. Un David pronto, con i nervi tesi, giovane e atletico, ossia la sua forza è allenata, veicolata, non come quella di Golia che è distruttiva. Nel 1991 Pietro Cannata, un folle, lo danneggiò con un martello.

Creazione di Adamo

1511 – affresco – 280 x 570 cm – Cappella Sistina in Vaticano
Commissionata da papa Giulio II, è solo una porzione della volta che narra l’Antico Testamento in maniera esaustivissima – forse, la più conosciuta. Michelangelo si inventa la soluzione degli indici alzati prima di entrare in contatto, per dare l’idea della scintilla vitale che passa da Dio alla sua Creatura.Questo riflette la perfezione, la potenza e l’eternità del gesto divino che diventa infinito in quanto non ancora compiuto, congelato nel tempo un attimo prima che avvenga.

Schiavo Morente

1513 – 229 cm – Louvre di Parigi
Appartiene al secondo progetto per la tomba di Giulio II (quando muore gli eredi lo vogliono meno dispendioso) e non viene usato; più precisamente appartiene al gruppo dei Prigioni, che dovevano solo incorniciare il monumento. Doveva dare l’idea di scivolare da un pilastro, languido, mentre sta ritornando alla coscienza dopo il sonno. Riprende il concetto latino: captivus = schiavo = cattivo = schiavo del male. Le figure di Prigioni sono figure tormentate, figli della superbia, uccisi dagli Dei, poiché si sono creduti di più di un Dio. Michelangelo mette a nudo anche il suo tormento interiore.

Mosé

1515 – 235 cm – San Pietro in Vincoli a Roma
Faceva parte del primo progetto per la tomba di Giulio II (siccome era ancora vivo e arzillo, per un po’ si dimentica della commissione). Nel 1542, Michelangelo gli gira la testa (cosa che avrebbe potuto saper fare solo lui! E lui disse “eh, gli stavo parlando e si è girato!”) per veicolare meglio lo sguardo dello spettatore nella chiesa. Il personaggio solenne e biblico, ha uno sguardo “terribile” e pare che Michelangelo gli avesse regalato il suo carattere, severo e irascibile. Le corna sono un’ erronea interpretazione dell’ebraico biblico – le corna sarebbero, invece, dei raggi. La leggenda vuole che Michelangelo, stupito da sé stesso e di quello che riusciva a fare con il marmo, gli chiese “Perché non parli?”.

Leda e il Cigno

1530 – tempera su tavola – 105 x 141 cm – perduta
Alfonso d’Este va a trovare Giulio II per la revoca della scomunica e incontra Michelangelo nella Cappella Sistina. Però ci pensa su una quindicina di anni prima di commissionargli la tela. E poi non la vuole poiché la considera “poca cosa”. Allora, Michelangelo non gliela consegna. L’opera finisce in Francia e viene forse bruciata perché era contraria alla morale. L’opera, del resto, narra l’amplesso tra Zeus trasfigurato in un cigno e Leda. Un classicone del pop-porno rinascimentale.

Aurora

1527 – 155 x 180 cm Sagrestia Nuova di Firenze
Fa parte del gruppo della Tomba di Lorenzo de Medici, tra le Allegorie della Giornata. Aurora si sveglia dal sonno e cerca appoggio con la gamba. Rappresenta un dolore misto alla tristezza. Come se stesse frugando tra le tenebre della Notte.

Notte

1531 – 155 x 150 cm – Sagrestia Nuova di Firenze
Fa parte del gruppo della Tomba di Lorenzo de Medici, tra le Allegorie della Giornata. Ricorda un po’ la tela perduta della Leda. Si torce per osservare lo spettatore. Rappresenta la malinconia. In quanto Notte, rappresenta anche la fertilità, l’oblio e il sonno – gli elementi oscuri del sogno o anche della morte. Il poeta dei Fiori del Male, Baudelaire, la considerava iconica.

Venere e Amore

Realizzato da Pontormo su un disegno di Michelangelo
1533 – olio su tavola – 128 x 194 cm – Galleria dell’Accademia di Firenze

Viene rifiutata dai Medici perché davvero molto molto porno (il pube non è coperto del tutto). Il tema sono gli inganni dell’Amore, che si mostra mascherato di mille volti. Venere è madre e amante di Cupido. I due ripresi nella torsione di un atto sessuale, in pose innaturali e complicate. L’Amore è sporco.

Giudizio Universale

1541 – affresco – 1370 x 1200 cm – Cappella Sistina in Vaticano
Papa Clemente VII commissiona a Michelangelo l’affresco della parete dell’altare della Cappella Sistina. Ne deriva la più grandiosa rappresentazione della Fine dei Tempi. L’opera segna anche la fine dell’epoca Rinascimentale e del pensiero umano forte della sua centralità nel Mondo (ideale espresso nella volta della Cappella Sistina). Subentra l’angoscia che prende i dannati quanto i beati per l’incertezza della nuova fase storica.

Miss Raincoat

Il Complesso di Sant’Antonio a Morbegno

Facciata e Protiro

Il primo nucleo della chiesa, inizialmente dedicata a Santa Marta, esisteva già circa nel 1370 ed era comunemente conosciuto con il nome di Santa Marta in Quadrobbio (ossia “quadrivio“).

La sua storia si interseca con le vicende degli Inquisitori Domenicani provenienti dal Convento di San Giovanni a Como (odierno edificio della stazione ferroviaria), già presenti in Valle per convincere con le buone o con le cattive gli eretici antipapali, ma definitivamente ospiti ben graditi dal 1328, anno in cui scappano dalle lotte tra guelfi e ghibellini a Como e si rifugiano, inizialmente, attorno al San Domenico a Regoledo di Cosio.

A fine Quattrocento, addirittura con l’approvazione degli Sforza, Morbegno decide di ampliare la Santa Marta (* Sant’Antonio, originariamente, era il secondo dedicatario; con l’ampliamento Santa Marta viene mandata in pensione…) e farla diventare il complesso conventuale che avrebbe ospitato i domenicani in una location più consona al loro prestigioso ruolo. Sulla carta, la Comunità di Morbegno si proclamava cattolicamente contenta di poter avere i frati inquisitori in loco, siccome l’eresia stava traviando anche il clero locale e c’era bisogno di una guida spirituale; sul rovescio della pagina, però, non dimentichiamo che ospitare la Sede Inquisitoria dell’intera Valtellina a Morbegno dava lustro alla cittadina! In poco tempo, inoltre, molti valtellinesi cominciarono a recarsi spesso in questa nuova chiesa per partecipare a quei riti tipicamente domenicani, spettacolari e con musica emozionantissima.

Ma ritorniamo all’Arte.

L’esterno della chiesa, realizzato nei primi anni del Cinquecento, si colloca nel Rinascimento Valtellinese (stessi anni dell’Assunta di Morbegno; architettura top del periodo: Il Santuario di Tirano), sebbene il coronamento a forma ondulata ci riporta subito al rifacimento simil-barocco del Seicento. Quindi, si potrebbe dire che ciò che rimane di veramente – ma superbamente – rinascimentale sia il protiro (la struttura di copertura del portale).

Quello che faccio sempre notare ai turisti è questo: in poco spazio, vengono conglobati molti elementi, difficili da cogliere con un solo sguardo distratto. Ecco a cosa servono le guideeh 🙂

Partiamo, insolitamente, dai particolari. Abbiamo quattro colonne snelle, rinforzate da fasce, le quali, rispettivamente portano il tatuaggio di importanti stemmi: lo stemma della famiglia morbegnese Ninguarda, ossia i committenti, lo stemma di Morbegno (chiave e spada, S. Pietro e Paolo – i patroni), la tau di S.Antonio e il cane dei Domenicani. Anche lesene del portale reggono un’Annunciazione sulla parte frontale (con Maria e Arcangelo Gabriele separati, soluzione molto pop-rinascimentale) e sui profili dei ritratti di San Domenico e San Vincenzo (forse il più cattivo degli inquisitori domenicani – non dimentichiamoci che pure in Valtellina qualche strega venne bruciata!). I capitelli delle colonne, infine, sono decorati con sole e teschio, per creare il ciclo infinito di vita e morte – per me, un grande indizio di Rinascimento: finito il lockdown medievale, si vedeva molta luce e molta speranza…

Il mio particolare preferito del protiro è la volta. Lo so, è un mero esercizio di stile dello scultore, però i cassettoni finti sembrano il matelassé di Coco Chanel anche se è stato realizzato con maestria di scalpello sul marmo di Musso.

Le opere di concetto sono quelle delle due lunette.

La lunetta scultorea è stata realizzata da Francesco Ventretta di Piuro (Valchiavenna), il quale realizza tutta la scultura del protiro circa nel 1517. L’artista era cognato di Tommaso Rodari, papà della parte rinascimentale del’Assunta di Morbegno e del Santuario di Tirano, nonché colui che porta il Rinascimento architettonico in Valle. La Pietà che ci lascia il Ventretta è molto drammatica, specie nel volto disperato di Maria e resa ancor più drammatica dal fatto che è stata posta sopra l’Annunciazione.

La lunetta pittorica è stata realizzata da Gaudenzio Ferrari, circa nel 1526 – negli anni in cui era impegnato sul cantiere dell’Assunta di Morbegno. Famoso per i Sacri Monti del Varallo e per la lezione leonardesca che impregna le sue opere, si stabilì a Morbegno dopo le sue seconde nozze con la nostra Maria Foppa, vedova Ninguarda. La sua Natività ha i suoi amabili colori tersi, soprattutto il blu molto ceruleo. Inoltre, un suo marchio di fabbrica sono gli angeli musicanti, tutti uno diverso dall’altro. Due di questi angeli tengono in braccio Gesù Bambino, poiché all’epoca le donne importanti facevano accudire i loro figli dalle balie. In maniera molto rivoluzionaria per l’epoca, Giuseppe si protende verso il centro della scena. In quegli anni, infatti, alla figura del padre putativo era stata riconosciuta la grande missione di avere accettato il disegno divino anche se fosse soltanto un uomo.

Così, anche le due lunette si pongono a simbolo del ciclo della vita e in maniera del tutto positiva rispetto al progetto che dall’alto era stato riservato all’uomo. Per questo motivo, si può dire che non solo la forma ma anche il significato pongono quest’opera al centro del movimento culturale del Rinascimento.

Umberto Saba

“Ed è il pensiero della Morte che, infine, aiuta a Vivere”

Miss Raincoat

“La Madonna della Seggiola” di Raffaello Sanzio

Certo, dire che Babbo Natale non esiste non è una bella notizia. Anzi, è una brutta notizia. D’altra parte cosa si dovrebbe dire? Che ci sono le prove scientifiche dell’esistenza di Babbo Natale? E che esistono le testimonianze di milioni di persone che hanno trovato giocattoli sotto il camino o sotto l’albero?Piero Angela

Questa non è soltanto la tela più bella del Rinascimento, del Raffaello nazionale e del tema Sacra Famiglia/Natale/Compleanno di Gesù, ma un vero e proprio simbolo di italianità. Infatti, Napoleone se l’era portata in Francia nel 1797 con varie altre 99 opere e fu riportata in Italia durante la spedizione post 1815, assegnata allo scultore Antonio Canova dal cardinale Ettore Consalvi. Ricordiamo che Canova aveva conosciuto bene Napoleone e la sua famiglia, essendone lo scultore ufficiale: oltre a ricordarci delle sue Tre Grazie o di Amore&Psiche, infatti, ne è celebre la Paolina “Borghese” Bonaparte.

In origine, comunque, il dipinto faceva parte della collezione della Famiglia Medici e fu commissionato da papa Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici. Possiamo affermare con sicurezza che la sedia nella composizione, detta appunto camerale,  facesse  parte della camera da letto di Palazzo Pitti/Uffizi. Le Sacre Famiglie su supporto tondo erano un oggetto di collezionismo per le case borghesi fiorentine (anche Michelangelo realizzò il famoso Tondo Doni per Agnolo Doni) e si ordinavano in onore di Matrimoni o Battesimi. Cronologicamente, il dipinto venne realizzato dopo l’intervento di Raffaello nelle sale vaticane, con un’ispirazione michelangiolesca (plasticità anatomica e dettagli curati), anche se il nervosismo e la perfezione di posa (il troppo-finito) michelangoleschi sono stemperati dalla dolcezza tipica raffaelliana.

Ciò che rende la Madonna della Seggiola inconfondibile e iconica (Ingres prende spunto da questa per le sue Odalische nell’Ottocento, per esempio)è la cura per i dettagli ricercati. L’oro brilla, i ricami sono alla moda, i colori sono accostati secondo un accordo caldo/freddo e l’anatomia, specie nel gomito del bambino, è esatta…

Inoltre, dietro alla bellezza formale, esiste un’analisi geometrica che basa la composizione sulla forma tonda del supporto pittorico. Grazie a questa correzione ottica, il Bambino sembra ancora più teneramente cicciottello e la Madonna, scivolando in avanti e sollevando una gamba, suggerisce il dondolio curvo del cullare.

In realtà, la scena è molto semplice. Maria guarda verso lo spettatore stringendo Gesù Bambino in un abbraccio materno; affiorando dallo sfondo scuro, il San Giovannino rivolge un gesto di preghiera a Maria (porta il bastone a forma di croce, che lo identifica come precursore di Cristo).

Il sentimento che prevale è la dolcezza, palpabile nel gesto delle teste di madre e figlio che si toccano. Raffaello è noto per aver umanizzato i Santi, rendendoli simili a noi mortali nelle emozioni positive, ma privati dalla corruzione di quelle negative. La firma di questo artista, del resto è la delicatezza: ha saputo rappresentare la morbidezza, la leggerezza e la sensibilità.  Raffaello dimostra il buon gusto senza ostentarlo: la Madonna della Seggiola non è né il sorriso enigmatico della Monnalisa né la tartaruga parlante del David, del resto.

Per Natale guardami almeno una volta come Raffaello dipingeva la sua Fornarina, oh Mr Raincoat!!!

**Palazzo Pitti (Firenze), 1514
Gossip su Fornarina/Margherita Luti

Buon Natale!!!

❤ Miss Raincoat

Il Complesso di Sant’Antonio (in Mostra)

Durante la 110ª Mostra del Bitto , ho avuto l’onore di essere tra le guide dei presidi FAI che facevano da corollario all’evento che ha ancora una volta coronato e confermato la vocazione turistica della mia amatissima Morbegno. 

Cominciamo con il dire che il Sant’Antonio non è un monumento che si riesce a guardare nella sua interezza cogliendo una sintesi, perché è frutto di un susseguirsi di anni, di varie mani e di varie teste, sia laiche sia monastiche.

Detto questo, bisogna sapere che, per quanto nasca sulle spoglie di una primitiva chiesetta alle porte della cittadina, intitolata a S. Marta, proietta Morbegno oltre l’orizzonte provinciale. Infatti, fu un convento che, da una parte fu chiesto a gran voce dalla Comunità, ma dall’altra ospitò in un luogo definitivo i frati domenicani espulsi da Como durante le lotte tra guelfi e ghibellini.

La Chiesa viene consacrata nel 1504. In facciata, ciò che rimane dello stile originario rinascimentale è il protiro, che si compone di due lunette: in quella scultorea troviamo una Pietà molto drammatica di Francesco Ventretta, alunno dei famosi fratelli Rodari; in quella pittorica un Presepio di Gaudenzio Ferrari, considerato un alto esempio del Rinascimento Valtellinese, specie per i colori molto tersi.

L’interno della chiesa è l’ambiente che ha più risentito del radicale restauro barocco “grossolano” del 1663, il quale, non solo ha snaturato la leggerezza elegante rinascimentale con l’aggiunta di stucchi e arzigogoli, ma ha sostituito anche la copertura a capriate con una volta a crociera, la quale nasconde parte degli affreschi. Tuttavia, la struttura, un’ ampia aula con otto cappelle voltate a botte,  rimane a testimoniare un luogo studiato per le prediche appassionate tipiche dell’ambiente domenicano. Oggi, l’edificio è un Auditorium ed è “spoglio” per via della confisca napoleonica del 1798, che vide statue, dipinti, marmi, reliquiari andare all’asta . Comunque, dobbiamo pensare che, fin dalla sua costruzione l’impegno sostenuto per la decorazione costituì una vera e propria gara per il patriziato morbegnese e morbegnasco.

La mia cappella preferita è la prima di sinistra, del 1515 e dedicata a S. Caterina d’Alessandria, protettrice delle fidanzate e dei notai, di patronato dei Vicedomini. In essa si declinano la ricchezza cromatica del Cinquecento Lombardo.

Le altre cappelle di sinistra sono dedicate a Natività e Adorazione dei Magi, ai SS. Domenico e Pietro martire (dedicatario Convento e patrono degli emicranici) e ai S.Vincenzo/Beato Andrea Griego da Peschiera (le sue reliquie sono esposte nella parrocchiale di Morbegno) – Le cappelle di sinistra sono da datare tutte tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento (quella del S. Vincenzo è curiosamente del 1492, anno in cui Colombo scoprì l’America); a destra, la parte che presenta un sacco di emergenze anche addirittura dell’antica chiesa di S. Marta, troviamo S. Antonio abate, S. Martino, S. Domenico e S. M. Maddalena. 

Dalla chiesa si accede al chiostro Nord del 1485, seguito dal Sud del 1514 (costruito come spazio accessorio, in uno stile più “spensierato”).

Lo spazio, contraddistinto da una certa essenzialità monastica, si compone di un quadrato di 22 colonne in marmo di Musso che compongono archi arrecanti i colori domenicani (rosso, bianco e nero); sull’ala nord troviamo una meridiana con  la citazione eloquente “sicut umbra vita fugit“.

Appena usciti dalla chiesa ci troviamo in un angolo detto atrio, perché da lì ci entravano i frati. Vincenzo de Barberis, pittore cinquecentesco e maestro di Cipriano Valorsa, ci lascia due dipinti datati 1576, con una coloristica vivace inconfondibile e che riprendono gli stessi due temi delle lunette in facciata.

Quasi tutte le pareti del chiostro sono ricoperte da riquadri inerenti la vita e i miracoli di San Domenico, sempre in stile cinquecentesco, accompagnati da didascalie in rima in lingua volgare. Sulla parete nord troviamo un’interessante affresco seicentesco che riguarda la legittimazione dell’ordine domenicano da parte dei SS. Pietro e Paolo, patroni di Morbegno.

La visita si conclude nel Capitolo (stanza riservata alle riunioni e al Tribunale dell’Inquisizione) e nel Refettorio, ambi i due decorati con interessanti declinazioni del tema della Crocifissione con i Santi.

collage

E’ molto difficile riassumere in un singolo post tutto quello che conosco e amo di questo meraviglioso luogo d’arte che, più che una lettura, meriterebbe una passeggiata in loco (magari con me) !!!

Spero, comunque, di aver destato il vostro interesse!!! 

❤ Miss Raincoat 

 

Mordi&Fuggi a Mantova

Le città d’arte non dovrebbero mai essere visitate di fretta. Di fretta e di domenica. Ma che cosa si può vedere di Casa Gonzaga se si ha poco tempo a disposizione?
Mattino: Palazzo Te

Entrata : dalle 9,oo alle 18,oo – prezzo intero: 9,oo€ e gratis fino agli 11 anni (uh, peccato averli sorpassati da poco!)

L’edificio è l’icona dello stile rinascimentale (ca. 1530) di Giulio Romano, commissionato da Federico Gonzaga (il quale voleva “un luogo di onesto ozio”, infatti il Romano s’ispira al modello della villa romana). Il monumento fonde l’arte rinascimentale alla cultura classica in una serie di ambienti dai nomi straordinari: Camera di Ovidio, delle Imprese, del Sole, Loggia delle Muse, dei Cavalli, di Psiche, dei Venti, delle Aquile, Loggia di Davide, degli Stucchi, degli Imperatori, dei Giganti, delle Grottesche, dei Candelabri, delle Cariatidi, e delle Vittorie.

Pomeriggio : Piazza Sordello e Palazzo Ducale

Come raggiungere Piazza Sordello da Viale Te : Bus 8 Cappelletta a 3 min da Viale Te * 4 fermate*  a 800 mt Piazza Sordello  – la corsa dura 13 min e si effettua ogni mezz’ora e costa 1,40€

Questa piazza è la più importante di Mantova in quanto è stata, sin dal Medioevo, il fulcro della vita religiosa e politica: su di essa si affacciano il Duomo, il Palazzo Vescovile, il Palazzo del Capitano, il Palazzo Ducale, la Torre della Gabbia e Palazzo Castiglioni.

Per via di un lungo pranzo succulento home made (i tortelli di zucca li ho amati, sappiatelo!!!), ho preferito ammirare la Piazza nel suo insieme e dedicarmi alla visita del Palazzo Ducale. 

Al pomeriggio il Palazzo Ducale è aperto dalle 13, 45 alle 19,15 ed il biglietto costa 12,oo €.

  • Castello di San Giorgio con la Camera degli Sposi (non è obbligatorio prenotare se non si è un gruppo)

Tra il 1395 e il 1406, è edificato per volere di Ludovico II Gonzaga, diventando la residenza della famiglia.  Nella torre di nord-est, Andrea Mantegna affresca dal 1465 al 1474 la celebre Camera Picta o Camera degli Sposi; al piano nobile si trovano anche il primo Studiolo di Isabella d’Este, consorte di Francesco II (unica nobildonna italiana ad avere un proprio studiolo con anche un giardino segreto)

  • Corte Vecchia (senza l’Appartamento di Isabella, dacché non è possibile – non ho capito se per l’orario o per il giorno)

Alla morte di Francesco II (1519), Isabella d’Este si trasferisce dal Castello in Corte Vecchia. L’appartamento vedovile  – che non ho potuto vedere – comprenderebbe alcune magnifiche stanze affrescate. Negli anni Ottanta del Cinquecento il duca Guglielmo , nipote di Isabella, trasforma gli ambienti di Corte Vecchia con il Refettorio, affacciato al Giardino Pensile, e la Sala dello Specchio, destinata alla musica, prospiciente il Cortile delle Otto Facce. Sul rivellino di San Nicolò, Guglielmo fa edificare l’Appartamento grande di Castello con le sale dedicate ai Capitani, ai Marchesi e ai Duchi Gonzaga, alle quali si accede dalla maestosa Sala di Manto. Dal 1563, viene aggiunta la chiesa palatina di Santa Barbara, ancora oggi perno visivo del palazzo, collegata sia all’Appartamento Grande di Castello, sia al corridore di Santa Barbara.

❤ Miss Raincoat

Il mio segreto è una memoria che agisce a volte per terribilità. Isolata, immobile, sul punto di scattare, sto al centro di correnti vorticose che girano a spirali in questa stanza dove i miei cento orologi sgranano battiti diversi in diversi timbri. Se alzo il capo li vedo fiammeggiare, e ad ogni tocco di fuoco corrisponde un’immagine. Sempre sono trascinata fuori di me dalla tempesta di vivere. Che cosa è il tempo, e perché deve considerarsi passato? Fino a quando viviamo esiste un solo tempo, il presente. Una forza struggente mi prende alle viscere: costruttiva o devastatrice non mi è dato di sapere; è senza regola, almeno apparente ” – Isabella d’Este

Tratto da “Rinascimento Privato” di Maria Bellonci

Il San Simone e Giuda a Valle di Colorina

Un paio di anni fa, durante una mostra di cimeli di caccia, ho scoperto che una chiesetta sconsacrata, sulla strada dalla frazione dove abito al centro municipale, possedesse anche un interno capace di stimolare la mia curiosità, poco risvegliata da quelle corna esposte così alla mercé di tutti. — Eh sì, detesto ambo i tradimenti e la caccia per procurarsi gingilli da esposizione, sia in senso stretto sia in senso figurato!

La chiesa di Valle, consacrata fino al compimento dell’attiguo Santuario del Divin Prigioniero (costruito dopo la Prima Guerra Mondiale) è riportata sul resoconto della Visita Pastorale Ninguarda, perciò esisteva già nel Cinquecento come entità, benché la sua forma odierna è del 1795. La Comunità, difatti, voleva spostare l’edificio originario perché  troppo vicino al torrente Presio e pericolosamente lontano dal borgo. Per ragioni del tutto pecuniarie, però, a metà dell’abbattimento della vecchia struttura, si dovette procedere a ricostruirla lì dov’era. Cornuti e mazziati!

Come dedicazione, è “sorella” del San Giacomo a Selvetta, lungo la stessa mulattiera che portava verso Sondrio (anche Valle, originariamente, dipendeva dalla Matrice di Berbenno [fino al 1629], alla quale si attribuisce il progetto delle dodici chiese votate agli Apostoli); è curioso sapere che San Simone e Giuda, festeggiati il 28 ottobre, proteggono i disperati. Nel territorio di Colorina, comunque, era molto più vivo il culto della Madonna del Rosario, probabilmente per un forte legame con l’ambiente domenicano (legato al Sant’Antonio di Morbegno).

La facciata non è diversa rispetto ad altre chiese coeve riscontrabili lungo la pedemontana via verso Sondrio, delle quali citiamo la cinquecentesca SS. Giacomo e Filippo ad Albosaggia. Infatti, l’impostazione è molto tardo-rinascimentale nel timpano e nei due ordini di finestre (nel primo: tre, con la mediana a tutto sesto; nel secondo: una più grande, che riprende la forma delle laterali sottostanti). Originariamente, il timpano e parte della facciata erano sicuramente affrescati. Sempre all’esterno, sul lato verso la strada, troviamo una teca, aggiunta nel Novecento, con la statua di S. Antonio da Padova. Nella stessa ala troviamo la torre campanaria, rinascimentale anch’essa, ma con l’aggiunta seicentesca del cupolino ottagonale, quasi per fare concorrenza all’Assunta di Berbenno, dalla quale si era resa indipendente nel 1622.

L’interno, a giudicare dai lacerti di affreschi e di stucchi, doveva presentarsi molto colorato e decorato in uno stile sempre tardo-cinquecentesco (il cosiddetto Rinascimento Lombardo, qui presente grazie alla Scuola del De Barberis). L’aula con copertura a botte è asimmetrica e presenta, appunto, due cappelle solo sul lato sinistro: la prima a pianta rettangolare e la seconda, più prossima all’altare, a pianta semicircolare e con copertura a volta (sulla quale viene rappresentato una Gloria di Dio; alludente forse al fatto che, sotto, ci fosse la statua della Madonna ???).

Ambo le due pareti laterali presentano segni di dipinti che, a giudicare dagli “indizi” (come la mitra, il bastone pastorale ed un leggio), potrebbero riferirsi ai Quattro Dottori della Chiesa. Non potrebbe essere così improbabile, visto che, dal Medioevo, i quattro Padri edificatori della Chiesa Terrena, accompagnavano la figura “mediatrice” della Vergine con il Bambino nel catino absidale (qui è troppo deteriorato per capire che cosa rappresentasse, però); probabilmente, dati i periodi funesti, durante il Dominio Grigione di fede evangelica, gli affreschi del San Simone e Giuda volevano proporsi come forti anche “lontani” da Berbenno e autorevoli nel manifesto dogmatico cattolico.

Auguro un’altra buona vita alla piccola chiesetta, che sabato 16 settembre 2017, alle ore 20:00, diventerà ufficialmente l’Auditorium “Monsignor Lino Varischetti”!!!

❤ Miss Raincoat

Alcune precisazioni storiche: dal 1679 al 1886 vicecuria di Berbenno; con alle dipendenze: Corna che dal 1624 al 1651 è autonoma – Rodolo – S. Giacomo (Selvetta) -nel 1886 entra nella Parrocchia di Colorina. Sconsacrata con la costruzione del Santuario del Divin Prigioniero nel 1925.

Teglio

Che fare per non rassegnarsi al fatto che l’estate ci sta salutando con la manina? Semplice, spostarsi là dove nasce la Valtellina, a Teglio, adagiato su una soleggiata terrazza retica a circa 900 metri d’altitudine e noto per aver dato i natali ai Pizzoccheri.

Ricetta dei Pizzoccheri (Accademia di Teglio)

(* per chiudere il discorso mangereccio, pare che il Grano Saraceno sia stato introdotto in Valtellina nel Seicento, al tempo del governo grigione di Giovanni Guler Von Weinech)

Cosa vedere a Teglio?

La prima tappa della nostro gita non può che essere Piazza S. Eufemia. L’esterno della Chiesa di Sant’Eufemia è medievale nella struttura (p.e. le lesene con il pinnacolo, l’ogiva del portale e la cordonatura delle colonne degli stipiti), rinascimentale nel protiro e nel rosone (attribuito ai Rodari, presenti anche a Ponte, Morbegno e Tirano, promotori del Rinascimento in Valle) e, soprattutto, nei motivi floreali simbolici (rose, fiori di loto, delfini, tutti alludenti alla Mater Dei). Le due costruzioni che si affacciano sul sagrato sono l’Oratorio dei Bianchi (con affreschi cinquecenteschi di Giovannino da Sondalo), ossia dei Battuti di S. Bernardino da Siena, dirimpetto e, a destra, l’Oratorio dei Neri, ossia del Suffragio dei Defunti/S. Luigi Gonzaga (in stile barocco).

Ci accingiamo, così, ad ammirare l’opulenza e lo studio luministico dell’interno della Collegiata (è una Cattedrale senza Vescovo, ossia). Consacrata nel 1117 e dipendente direttamente al priore di Milano fino al Cinquecento, fu una di quelle chiese dedicate a Santa Eufemia per copiare la basilica bizantina di Calcedonia, dove fu ratificata la duplice natura di Cristo; Teglio, protetta dal Castello, era un luogo ideale da dove avviare l’evangelizzazione di una Valle ancora pagana. L’altare maggiore è ovviamente dedicato alle Storie di Sant’Eufemia; nella navata sinistra troviamo una serie di dipinti del “periodo grigione” (metà Cinquecento) di Gian Giacomo Barbello, distribuiti nelle varie cappelle: San Giovanni Battista, San Sebastiano con teca del Cristo (è una particolare statua snodabile a seconda della posizione che gli si vuol fare assumere), Fonte Battesimale (‘500) e Sacro Cuore (Oratorio dei Bianchi); nella navata destra l’impianto è settecentesco: la prima cappella è dedicata a San Francesco Saverio (Oratorio dei Neri), la mediana a S.Antonio abate (con tela di Giovanni Pietro Romegialli) e l’ultima alla Madonna del Rosario – nella stessa navata compaiono dei lacerti di una precedenti dipintura cinquecentesca con iscrizioni gotiche e Santi (S. Antonio, S. Elena, S. Vincenzo e S.Caterina d’Alessandria).

Usciti dalla chiesa, percorriamo il Viale delle Rimembranze al lato del Parco e dell’Anfiteatro fino a raggiungere via Besta.

La visita del Palazzo Besta è d’obbligo (info), a pagamento e con visita guidata di un’oretta – 4€ intero.

Il palazzo rinascimentale è la testimonianza della volontà dei nobili di ricercare il bello in un’opera d’arte: ne è un valido esempio il loggiato interno affrescato non solo con i ritratti di famiglia, ma anche con le Scene dell’Eneide. Al piano nobile sono visitabili il Salone d’Onore (Scene dell’Orlando Furioso), la Sala da Pranzo e la Biblioteca con il soffitto a ombrello, la Saletta della Creazione (con un raro mappamondo affrescato di fine Quattrocento, con le Americhe – e una specie di enciclopedia illustrata di animali reali e fantastici) e varie Stüe rivestite in pino cembro e con cassettoni meravigliosamente disparati. L’ultimo piano, un tempo residenza della servitù, presenta ricostruzioni di affreschi riportati qui da altre dimore nobili valtellinesi, ma conserva anche l’alcova per l’amante, una stanza “a baule” interamente in legno e la piccionaia. Il palazzo nasconde anche vari segreti e stramberie del noblesse oblige: dalle camere separate per marito e moglie, insieme per convenienza e da soli nelle stanze private, alla sepoltura di un fido piccione). Al piano terra è stato allestito l’Antiquarium Tellinum, con le tre Stele di Caven (tra le quali la Grande Madre, dea della fertilità preistorica)

Se il pancino comincia a brontolare nella stessa via c’è il Ristorante Pizzeria “Al Castello”. Io ho pranzato nel giardino,che guarda verso il Palazzo Besta, comunque ben isolato da una siepe e tanti fiori. Con ca. 20€ ho gustato il Menù Degustazione (tagliere di affettati, sciatt, pizzoccheri, formaggi, gelato mantecato al Braulio, caffé + acqua e vino). 

Per smaltire la rusticità della cucina valtellinese, ripercorriamo Viale delle Rimebranze e prendiamo il sentiero tra i boschi verso la Torre de Li Beli Miri (infatti, la vista da qui e dalla cima della torre, che si può “scalare”, è meravigliosa) – il percorso è fattibile anche senza particolare amore per le passeggiate e dura 10 minuti se si va piano.

La conclusione della gita avviene, appunto, sul dosso del Castrum Tilii, il castello dal quale prende il nome la Val – Tellina. Del maniero, oggi restano la dominante torre e i ruderi della Chiesetta di Santo Stefano, al servizio delle milizie castellane.

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❤ Miss Raincoat

Il Palazzo Valenti di Talamona

Il filo conduttore che lega Palazzo Besta a Teglio, Castel Masegra a Sondrio e Palazzo Valenti a Talamona è l’ “Orlando Furioso”. Questi tre monumenti, insieme, testimoniano l’apertura della Valtellina verso gli influssi culturali delle raffinate corti dei Gonzaga e degli Este, da dove il poema si era diffuso.

L’ “Orlando Furioso”

La facciata di questo edificio privato, è di un palazzo appartenuto agli Spini fino al 1837 e, poi, ai Valenti. L’autore ignoto è molto aggiornato sulla tecnica tardo-rinascimentale e, soprattutto, sul soggetto (sicuramente, conosceva l’edizione dell’Orlando Furioso illustrata da Giolito de’ Ferrari nel 1542).

Originariamente, il pittore aveva eseguito due ordini di scene dipinte; oggi ne possiamo leggere solo la porzione più vicina al tetto. Con uno stile armonico e vigoroso, gli ampi riquadri presentano delle cromie che simulano dei rilievi bronzei. I personaggi che riconosciamo sono Ferraù con Angelica vicino ad un ruscello, Bradamante, Rinaldo con Gradasso, l’Ippogrifo e il Castello di Atlante, Rinaldo che sfida Sacripante.

La solennità rinascimentale cinquecentesca è completata dalle statue dipinte ai lati degli episodi, dal finto bugnato (primo ordine), dai putti in festa sopra il portale, dalle finestre (con frontoni spezzati ed anfore) incorniciate da cariatidi dipinte.

A destra del portale, nel 1650 ca., è stato aggiunto un ulteriore dipinto, la “Madonna con il Bambino”, molto simile alla Madonna del Roseto di Bernardino Luini.

Guardala qui!

“Occupati dei Fanti e lascia stare i Santi!”

❤ Miss Raincoat

Il “San Domenico” di Regoledo di Cosio

L’importanza di questa chiesetta ruota attorno alla radicata venerazione locale per Domenico da Pisa, beatificato per furore di popolo, morto a Regoledo di Cosio nel 1445, dove lui stesso decise di passare in ascesi gli ultimi anni della sua vita.

La domanda è, qual buon vento può portare un uomo da Pisa a Regoledo?

Sappiamo che già dal Trecento esisteva una rudimentale cappella dedicata a San Domenico (da Guzman), edificata dai Padri Predicatori – altrimenti detti Domenicani – scappati da Como per le combutte tra guelfi (Vittani) e ghibellini (Rusconi). Ovviamente, questo luogo di culto, legava Regoledo a Morbegno, dove era sito il Convento domenicano di Sant’Antonio, attivissimo nella missione di cristianizzazione delle masse. Il nostro Domenico da Pisa, quindi, si sarà portato in Bassa Valle per una certa “politica” voluta dal suo Ordine.

La chiesa che vediamo oggi risulta da un rifacimento del 1514 (è una data che troviamo nel sottarco dell’abside). Nella navata troviamo a sinistra “La Gloria e La Morte di San Domenico da Pisa”, commissionate ad Ippolito Borghese nel Seicento, dagli scaricatori di porto regoledesi immigrati a Napoli, e a destra “San Domenico” e “San Carlo” (entrambi “paladini” della Religione Cattolica in Valtellina, segnata anche dal Sacro Macello).

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Tuttavia, la nostra attenzione è catalizzata dai soggetti e dall’esecuzione dell’area absidale, dove nessuno spazio è stato lasciato vuoto. Non si esclude che la paternità dell’intero ciclo possa essere di Vincenzo De Barberis, già attivo a più riprese nel Sant’Antonio di Morbegno e del quale riconosciamo l’impronta rinascimentale nell’eleganza e nella raffinatezza delle figure (specie la Madonna) e i colori squillanti e vivaci. Anche se la ricerca dell’esattezza anatomica nei muscoli proietta la composizione nel Rinascimento, i capelli, il volto scavato e il sangue spillato dagli Angeli di Cristo, pervadono la scena di una connotazione nordica.

Se ai lati troviamo Santi di matrice popolare, come Sant’Antonio abate, San Martino, San Lorenzo, Santo Rocco, San Sebastiano e San Giovanni Battista, il grande affresco centrale mette in risalto una “Crocifissione con Santi”, dove San Domenico regge una chiesa in mano. La nobile signora con un bambino in fasce dovrebbe essere la testimonianza dell’ex voto (il dipinto potrebbe essere stato commissionato per ringraziare San Domenico dopo un parto). Nella volta, invece, troviamo gli Evangelisti, non su sfondo blu, ma su sfondo porpora, un colore ben più reperibile in natura, anche simbolo della Passione (tema al quale i Domenicani erano legati).

❤ Miss Raincoat

Il Sacro Macello

Vincenzo De Barberis a Morbegno

Arte a Cosio Valtellino