“Sharing the News” di Eugenio Von Blaas

Il titolo di quest’opera è quantomeno intraducibile, potrebbe suonare come “Condividendo le novità”, ma se si guarda meglio si capisce a cosa mi riferisco…

1904 – olio su tavola – 110*83 cm

L’Eugenio nasce vicino a Roma nel 1843, in un periodo in cui l’Italia non esisteva ed era ancora cementata con l’Austria. Il cognome forestiero lo si deve a suo padre Karl, pittore tirolese in trasferta nella Capitale, laddove trovò anche moglie. Da questa commistione genetica ne venne fuori un giovanotto barbuto con gli occhi azzurri. Anche lui sceglie l’Italia come casa, in particolare Venezia, dove insegnava all’Accademia di Belle Arti e dove si estinse all’età di ottantotto estati.

A livello artistico, possiamo inserire la sua opera nel fortunato filone dell’Art Pompier, dunque, quell’arte “da bomboniera” di fine Ottocento, che trova il suo maggiore interprete in Bouguereau. Certo, probabilmente il nostro Von Blaas è meno retorico e non si accontenta di vergini, sante o dee svestite. Si potrebbe dire che il nostro amico dipinga scene di genere, il colore dello scorrere della vita nei calli veneziani (Pino Daniele l’aveva cantato descrivendo la sua Napoli), l’anima, la sfera intima e i segreti, sicuramente in maniera prosaica, come andava di moda in quei tempi. Mi piace perché è molto narrativo, ci racconta le favole di donne curiose, talvolta pettegole, sognanti e ingenue e per questo delicate come fiori e proibite, in particolare, come la digitale purpurea.

Inoltre, l’artista era molto credente. Di fatto, suo padre Karl era un pittore di cultura nazarena, per la quale l’Arte era portavoce della purezza religiosa. Eugenio stimava molto le suore e le credeva creature di Dio, al pare del mare e degli uccelli. Questo dipinto, a livello compositivo, mi fa pensare alla versione profana dell’Annunciazione.

Sulla scena molto armonica troviamo due donne vestite in colori complementari e speculari. Un’amica sta leggendo all’altra una lettera d’amore, rivolta spudoratamente verso lo spettatore che si incuriosisce.

L’iconografia di questo dipinto è doppia. C’è quella più semplice che parla delle due facce del matrimonio perfetto, sesso sfrenato e fedeltà esagerata. C’è quella complessa che parla di amor di patria. Eugenio è combattuto tra l’amore per l’Italia (ragazza mora) e l’Austria (ragazza bionda). Le loro stesse cromie di vestizione contrappongono il tricolore alla bandiera austroungarica, anche in chiave di sottomissione – perché è l’Italia a fare da serva e a lavare le mutande all’Austria. Si potrebbe dire che Von Blaas sia un Hayez al contrario (vi ricordate la “Meditazione”?).

Nonostante ciò la figura della lavandaia sembra anche una donna umile intenta a lavare via lo sporco dalla biancheria dei ricchi, è una che si tiene i suoi segreti per sé ma sa benissimo quelli degli altri. Se guardiamo bene, un panno a terra è rosso. Quel sangue è il simbolo di una verginità perduta? La donna con i capelli rossi, invece, è la bugiarda – quindi, la poco di buono.

Dietro a un muro, si sta parlando di segreti. Sul davanzale l’edera sta seccando prima di essere cresciuta rigogliosa. L’innocenza è svanita troppo in fretta in questo vicolo. In un idea molto maschilista, ma del suo tempo, il pittore avrebbe voluto che la donna perfetta incarnasse l’ideale di verginità e disinibizione al contempo.

Nel suo interesse verso le donne straniere mi ricorda molto Paul Gauguin, in questo tema è molto vicino al suo “Come! Sei Gelosa?”: anche in quel dipinto due donne sono divise da un ricordo amoroso…

Qui c’è anche la prova tangibile di una lettera d’amore. Non sappiamo cosa c’è scritto. Non sappiamo chi l’ha scritta.

Volete sapere chi è il mittente? Herr Eugenio Von Blaas.

Lui era sposato con una donna facoltosa veneziana, la contessa Paola Prina e credeva molto nel matrimonio. Però le italiane erano così mediterranee, non importa se more o bionde, lui ci inciampava sempre… La ragazza mora è timida, ha una relazione con lui ma non l’ha raccontato a nessuno. Le sorride umile mentre le lava via il peccato dalle mutandine. La ragazza rossa, sghignazzando della sua svergogna, le legge la lettera d’amore inconsapevole che condividono lo stesso uomo, che però non ama nessuna delle due.

La seconda traduzione per il titolo, forse la più giusta, sarebbe “Condividendo il Nuovo”, ossia lo Straniero. Come descrivere questo individuo dotato di pennello se non intonandogli “Pezzo di Me” di Levante?

“Le Ragazze fanno Grandi Sogni” – E. Bennato

Le ragazze fanno grandi sogni forse peccano di ingenuità ma l’audacia le riscatta sempre non le fa crollare mai / Le ragazze sono come fiori profumati di fragilità ma in amore sono come querce/
E qui dall’altra parte/ E qui dall’altra parte siamo noi incerti ed affannati siamo noi violenti ed impacciati siamo noi che non ne veniamo mai a capo, mai a capo/ Noi sicuri e controllati siamo noi convinti e indaffarati siamo noi che non ne veniamo mai a capo, mai a capo.

Miss Raincoat

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“Cicale” di Matteo Massagrande

Volevo farvi vedere un quadro che parlasse d’estate e ho trovato questo…

2018 – olio su tavola

Matteo Massagrande è considerato uno dei maggiori esponenti dell’arte contemporanea italiana. Un bell’uomo classe 1959, originario di Padova, ma che si è trasferito in Ungheria per amore. Tra le cose, un pio devoto di Van Gogh e del suo dolente canto d’amore e della sua immersione nella natura, nei boschi, tra gli alberi.

Massagrande dipinge stanze, le stanze della nonna, vecchie, antiche, scrostate, disabitate… Sono stanze vuote, ma impregnate di memoria, con finestre enormi che si affacciano su panorami mozzafiato.

La protagonista delle sue opere è la luce, sempre torbida di polvere.

L’artista va ad essere portavoce del sentimento di nostalgia per un passato che si rifiuta di essere dimenticato, invisibile ma potente. Per lui, l’assenza non è vuoto ma una dimensione in cui regna la calma.

In “Cicale” lo sguardo è portato verso il blu del mare. Un vecchio gruppo di alberi si piega pigro alla sensualità della brezza. Tutti dormono, fa caldo ed è l’ora della pennichella. Solo le cicale non si scordano mai di perpetuare con il loro ininterrotto canto d’estate.

Miss Raincoat

Gianni Rodari

Chiedo scusa alla favola antica
se non mi piace l’avara formica
io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende…
regala!

“Ti Bramo” di Mariska Karto

Io ti amo non l’ho mai detto a nessuno. Lo diceva anche Sibilla Aleramo che, se proprio, lo si può dire da giovani a un gattino. Mi pare un’espressione troppo preimpostata per esprimere quella cosa lì, l’intuito, la dedizione… Credo che ci fai più bella figura a dirlo che a farlo, del resto. Io lo dimostro pure male, nella fattispecie – sono positiva asintomatica.

Questo per introdurre il tema di quest’opera. Bramare è un sentimento più infuocato dell’amore: è desiderio, è istinto. Ma non ha a che fare solo con il corpo. Ha più a che fare con i cinque sensi. Nel Medioevo, bramon indicava l’urlo di chi desidera ardentemente. Br-amare è Amare + Br-ividi sulla schiena.

Mariska Karto è un’artista nata nel 1971 nel Suriname, da genitori indonesiani e africani – anche se è cresciuta in Olanda. La sua tecnica è quella della fotografia ritoccata tramite la pittura, con un leggero sentimento iperrealista.

Rappresenta un mondo antico, impolverato, però vivo da morire. L’ambientazione cronologica è quella barocca del Seicento, un secolo denso di contraddizioni e di peccato nascosto sotto i pesanti tappeti della Santa Morale. In particolare, la Karto sceglie di narrare le sue storie dentro a dei boudoirs, i salottini dove le signore si riposavano, si imbellettavano o conversavano. Bouder, in francese, significa tenere il broncio.

Nella sua artistica troviamo molte citazioni ai maestri del passato: le Veneri di Tiziano, l’irruenza dell’oscurità di Caravaggio, le Odalische di Ingres e la raffinatezza di Klimt.

Per l’artista è la pelle, l’incarnato di porcellana, ad essere protagonista. Secondo lei nella pelle c’è qualcosa di misterioso che racconta una storia. Del resto, è di quello che ci innamoriamo, di emozioni a pelle.

L’opera si fa narratrice dei segreti a nudo di brave ragazze, dee senza aura, pure – bianchissime e rossissime – ma macchiate dalle loro emozioni scure. Malinconia, morte, amore, sacrificio.

Quando è tutto troppo, quando le emozioni straripano dove va a finire la nostra anima? Qui, nel fumoso mondo di Mariska Karto. Ti (br)amo ma non te lo dico.

When everything is made to be broken / I just want you to know who I am

Goo Goo Dolls “Iris”

Miss Raincoat

“Donna in Blu” di Richard Burlet

Vienna. La maggior parte della sua ispirazione la si deve a Gustav Klimt. Nonostante sia francese, classe 1957, l’atmosfera delle sue opere ricorda proprio la Secessione austriaca e il periodo aureo di questo pittore, durante il quale crea delle opere bidimesionali, preziose e impregnate di erotismo.

G.Klimt, Giuditta (1901)

Colore. La sua palette di tonalità ricche, pastose e forti predilige il rosso e il e porpora (noi abbiamo scelto un dipinto blu perché ci piacciono le eccezioni) Gli sfondi dei ritratti, così sgargianti, sono in totale contrapposizione con le linee delicati dei volti muliebri. In effetti, i suoi studi in Costa Azzurra l’avranno aiutato nella suggestione cromatica della quale risentirono anche Picasso e Matisse.

Contrasti. Non solo cromatici ma anche dimensionali, tra ciò che è piatto e ciò che, tridimensionalmente, appare profondo. A questo risultato ci si arriva unendo la tecnica della pittura ad olio a quella del collage. Per quanto riguardano gli olii, li stende a più strati ottenendo uno spessore considerevole. Inoltre, vengono anche aggiunte foglie d’oro e argento, siccome sono considerati dei colori con i quali nessun’altro può competere. L’osservazione dell’opera diventa, quindi, un’esperienza nel cogliere dei dettagli che non sono ornamenti, ma contenuti.

Desiderio. Inteso come un sogno fatto totalmente di elementi fantastici e sciolti. In questo senso, si può dire che l’arte di questo pittore sia astratta e psichedelica. L’artista è astratto nella sua ricerca della sensualità, che traduce sulla tela con qualcosa di classico ed esotico al contempo. Le sue donne oniriche hanno occhi penetranti, sono dee imperatrici di un mondo incantato, un paradiso romantico dipinto in colori brillanti (il mondo che andrebbe riscattato per le donne; in questo modo, l’artista diventa eroe).

Memoria. Più è lontana, più è interessante, perché è difficile da far riemergere ed è distorta dal tempo della vita. Riappare in lampi di colore ed è nebulosa.

Monocromo. Burlet non utilizza mai più di un colore insieme. Ho scelto un dipinto tutto blu. Quel blu che si mischia al rosso per ottenere il porpora, come se la donna di questo ritratto mostrasse la sua parte sottopelle, oltremare, oltre ai suoi stessi confini. Se una nave perde un membro dell’equipaggio all’arrivo al porto sventola il blu, l’espressione inglese “to feel blue”, vuol dire “sentirsi profondamente tristi”. Il freddo del blu è l’opposto del calore del rosso. In rosso, il pittore dipinge un’Arianna innamorata e abbandonata a tradimento da Teseo; mi piace pensare che in blu, il pittore abbia dipinto il lieto fine di Arianna come sposa di Bacco e il dono di nozze: un diadema che lanciato in cielo diventa la Corona Boreale, una piccola costellazione tipica del cielo in Primavera. Questa nuova Arianna porta il cielo in testa e viene fuori dal blu (“out of the blue” = “inaspettato”). Bacco non voleva più vederla piangere e, se l’Arianna di questo dipinto si voltasse, sorriderebbe.

Miss Raincoat

“Al Molo di Blanes” di Vladimir Volegov

Vladimir Volegov è un artista spagnolo e vivente (ha l’età del mio babbo, quindi nato nel 1957). Il nome non tradisce le sue origini russe, quasi al confine cinese. Nasce come grafico pubblicitario e poi, facendo tesoro dell’esperienza commerciale, un po’ come l’indimenticabile Maxfield Parrish, si mette a dipingere il mondo della reverie.

Nel 1959, sua madre lascia suo padre e lo porta con sé a Ekaterinburg, la città del confine Europa – Asia. Lo voleva laureato in medicina, ma lui a 13 anni scoprì la sua vocazione artistica. Nel 1990 scoprì anche l’Europa, l’ovest, viaggiando per le capitali come ritrattista. In Italia, casualmente comprando un libro al parco di Gardaland, si innamora dell’arte di Giovanni Boldini che diventa sua fonte d’ispirazione (a mio avviso, Boldini – interprete eclettico della belle époque – è stato capace di dipingere l’essenza elegante e pepata delle donne) . Nel 2006 si trasferì definitivamente in Spagna con la moglie sposata sette anni prima (in barba alla proverbiale crisi).

Realismo, tecnica ad olio, molto colore, atmosfera sognante, scene all’aperto: ecco cosa troviamo nelle sue opere. Mi ricordano molto Edouard Manet e la sua rivoluzione artistica che portò alle Avanguardie e, in particolare, all’Impressionismo.

Le donne, protagoniste per Volegov, sono belle, nevrotiche, distratte, azzurre, disobbedienti. Lo stesso Manet diceva che le modelle sotto al vestito avevano i polmoni, che andavano fatte respirare. Boldini, invece, rappresentava donne che non vedevano l’ora di togliersi il corpetto che tanto le costringeva.

At pier of Blanes – 2015

C’è una donna che sta leggendo sul molo di Blanes, la città-porta della Costa Brava. Il clima sembra quello della primavera inoltrata, prima dell’alta stagione (pardon, deformazione professionale). Ha i capelli raccolti alla rinfusa e nemmeno si accorge che la stiamo guardando. L’artista immortala sulla tela qualcosa di fatuo come un pensiero, quasi un segreto. La bellezza sfolgorante di questa donna al sole senza protezione sta nella sua disinvoltura, infatti è pura nel suo vestito bianco e nei suoi piedi scalzi; è leggera eppure non stupida. Perché tanta bellezza, però, cela anche malinconia e irrequietezza. Come una carezza, il pittore, quindi, gli dipinge addosso un velo d’amore destinato a durare un attimo e non di più. Sempre ricordando Manet, in quell’Argeteuil, in cui una donna si prende la compagnia di un marinaio che le fa chissà quali promesse, si contrappone a questa donna che è sola, in riflessione, in pace; una donna trasparente perché non ha bisogno di niente e l’amore sarebbe un’aggiunta non un bisogno. L’unico mistero rimangono le parole che la tengono incollata al libro.

Mi viene in mente una poesia della scrittrice dominicana Martha Rivera Garrido. Ho sempre pensato che la donna su questo molo stia leggendo proprio queste righe provocatorie e ci si stia ritrovando dentro e mi ci ritrovo tanto dentro anche io…

Non innamorarti di una donna che legge,

di una donna che sente troppo,

di una donna che scrive.

Non innamorarti di una donna colta,

maga, delirante, pazza.

Non innamorarti di una donna che pensa,

che sa di sapere e che inoltre è capace di volare,

di una donna che ha fede in se stessa.

Non innamorarti di una donna che ride

o piange mentre fa l’amore,

che sa trasformare il suo spirito in carne e, ancor di più,

di una donna che ama la poesia (sono loro le più pericolose),

o di una donna capace di restare mezz’ora davanti a un quadro

o che non sa vivere senza la musica.

Non innamorarti di una donna intensa, ludica,

lucida, ribelle, irriverente.

Che non ti capiti mai di innamorarti di una donna così.

Perché quando ti innamori di una donna del genere,

che rimanga con te oppure no, che ti ami o no,

da una donna così, non si torna indietro.

Mai.

MARTHA RIVERA GARRIDO

❤ Miss Raincoat

“L’Aurora” di William Adolphe Bouguereau

William Adolphe Bouguereau dipinge questo olio su tela dopo avere attraversato terribili anni di lutto (ben descritti in “Il Primo Lutto” del 1893). Nel 1877 aveva, infatti, perso moglie e figli e nel 1881 si apprestava a dipingere quest’opera, in cui prevalgono la sua tecnica talmente fine da sembrare una fotografia e le sue inconfondibili pennellate talmente lisce da sembrare di marmo.

“Aurora”

Negli stessi anni, il modo di intendere la pittura, il colore, l’idea di natura e di bellezza stavano cambiando. Gli Impressionisti e l’Avanguardia stava prendendo sempre più parte alla scena dei Salon espositivi. Eppure, lui, imperterrito, rimaneva fermo nella sua tecnica accademica. Tanti lo accusarono di essere vecchio e poco originale. Lui faceva spallucce, si complimentava con gli altri colleghi e rimaneva sicuro che il suo modo di vedere era solo suo, sapeva che era soltanto una questione di punti di vista. Non smise mai di dipingere incessantemente.

Eos/Aurora, vestita solo di luce, costituiva un escamotage per dipingere il nudo senza risentire della censura. Il nudo, in quegli anni in cui la Borghesia era il ceto che poteva pagare le opere d’arte, andava di gran moda. Ai Borghesi interessava la più sudicia componente erotica del nudo, è vero – ma non volevano risultare immorali. In effetti, la nostra protagonista incarna l’ideale di bellezza di quell’epoca: impalpabili fanciulle vergini con il seno abbastanza piccolo, pelle diafana e completamente glabra. Questa era un’arte per soli uomini. Uomini alla ricerca dell’innocenza perduta, della donna vergine pronta solo per loro (anche Oscar Wilde canzonava i maschi per il loro sciocco desiderio di essere i primi e non gli ultimi) . Uomini che volevano dei nudi con le gambe accavallate, perché guai a pronunciare ad alta voce il nome del frutto del peccato! Uomini che si scandalizzavano davanti all’Olympia di Manet, perché era esplicitamente una prostituta, ma che sbavavano davanti alle dee di Bouguereau.

Perché, infondo, è vero che Bouguereau si piega ai giochetti del marketing artistico, però lo fa suo. Sarebbero stati dei nudi indecenti se lui non li avesse sublimati. Le sue dee svestite sono monumentali. Lui, a suo modo, porta grande riverenza al corpo femminile. Lo spoglia con grazia. Lo mostra seducente, fecondo e, soprattutto, inneggia la donna nella sua inconsapevole bellezza. Tu pensi di piacermi perché sei negli standard e io invece ti sto guardando altro… La delicatezza sinuosa dei corpi di questo artista non è mai volgare o sfrontata, in effetti. Non vuole scandalo, semplicemente dire la parola “vagina” senza essere guardato come un depravato. Vuole dire che la vagina esiste ed è una cosa che può piacere (assai).

L’innocenza, che cosa scema da cercare! Chissà quante volte l’avrà pensato bevendo una birra con i suoi committenti. L’avrà pensato anche nel 1893, mentre dipingeva “L’Innocenza“. Lui l’aveva persa con la cacciata dal Paradiso, quando gli era stata tolta la facoltà di essere marito e padre. Lui l’aveva persa con la disperazione, con l’incapacità di reagire davanti al dolore. In questo quadro, una Madonna vestita di bianco stringe al cuore un neonato che dovrà sacrificare. La schiavitù ha più a che vedere con una morsa al cuore che con le catene ai piedi. Liberi. Ma da cosa?

“Il Primo Lutto”
“L’Innocenza”

Eos, la dea dell’Aurora. Chiese a Zeus che suo marito non morisse mai, ma si dimenticò di chiedere per lui la giovinezza. Lei, giovane ed eterna, fece il grande errore di passare una notte bollente con l’aitante Ares, già amante della volubile Afrodite e da lei fu condannata ad avere una tale insaziabile sete di passione che ogni giorno doveva innamorarsi di uno sporco mortale diverso. Proprio lei, che ogni mattina scioglieva il nastro candido che chiudeva la porta che separava il buio dalla luce. Ogni mattina piangeva lacrime di rugiada sulla Terra, perché lei, per quanto conoscesse le gioie dell’Olimpo, era una schiava.

❤ Miss Raincoat

“La Meditazione” di Francesco Hayez

Francesco Hayez lo conosciamo tutti per Il Bacio della Pinacoteca di Brera. Il dolcissimo addio tra due innamorati che cela, però, l’allegoria del soldato patriota che parte in guerra per la sua Nazione, con la speranza di vincere e di tornare. Un messaggio politico criptato per non farlo sapere ai piani superiori…

Il Romanticismo Italiano può essere sintetizzato con un solo aggettivo, struggente. Un’arte che esplicita un dolore continuo e logorante e così diversa dalle declinazioni romantiche del resto dell’Europa che si interrogava sull’identità nazionale, siccome l’Italia, come nazione, nemmeno esisteva. Bisognava andare a cavarsela fuori con le unghie, ancora.

In questo periodo, quelli che chiamiamo patrioti si uniscono per cucire insieme i pezzetti che avrebbero formato l’Italia; i Francesi e gli Austriaci, padroni dei vari pezzetti, dovevano essere scacciati a calci. Non fu né facile né breve quello che sui libri di storia è etichettato come Moti Risorgimentali.

La Prima Guerra d’Indipendenza ha inizio con le Cinque Giornate di Milano, nel marzo 1848. I volontari si armano a favore del Regno di Sardegna contro l’Austria e perdono, sacrificandosi per la libertà. Il 1861 è ancora lontano…

Olio su tela- 1851-Galleria Arte Moderna di Verona-92,3 x 71,5 cm

Questo sguardo triste e fermo appartiene all’impersonificazione dell’Italia, una giovane madre con il seno pronto per allattare gli Italiani.

C’era stato un altro pittore, nel 1830, che aveva raffigurato una donna a seno scoperto, Delacroix con la sua Libertà che guida il popolo, la Madre Patria coraggiosa e nutrice. Ma Hayez, su questa figura fa cadere tutto il peso della disperazione all’indomani della sconfitta.

Il muro blu, il colore della malinconia, esalta l’incarnato pallido e sofferente della donna; il sapiente gioco di luce esalta la purezza della pelle nuda, dei capelli corvini, della veste bianca… L’infelicità, in questo modo, è vissuta in empatia dal lettore dell’opera. Hayez non cercava compassione, voleva incitare alla reazione.

L’Italia è in lutto, è rammaricata e addolorata. Ha perso centinaia di figli senza liberarsi dall’oppressione straniera. È una martire, stringe la croce come una Santa mutilata nel suo intimo, sulla quale sono incise le date delle Cinque Giornate di Milano. Il libro consumato che stringe, invece, è quello della Storia d’Italia – sciupata prima di poter nascere. Le scritte in rosso sembrano di sangue e quella sedia di cuoio su cui siede sembra essere quella di un supplizio. Verdi, nel Nabucco, ce la fa ascoltare nel Va’ Pensiero (“Oh mia patria, ‘sì bella e perduta”).

Quest’opera si doveva intitolare “L’Italia nel 1948”, ma l’etichetta venne cambiata in corsa per ovviare la censura austriaca. Il fascino di questo dipinto sta appunto nel conflitto tra messaggio politico nascosto e l’inquietudine esistenziale totalmente palese. Un monito asciutto e potente: ricordati con rispetto di chi, durante la battaglia, per avere quello che hai e ti sembra scontato, è morto. E meditazione vuol dire pensarci su a lungo, profondamente e con grande attenzione.

❤ Miss Raincoat

°* Letture Consigliate dall’Unicorno *°

  • “Hayez” di Fernando Mazzocca
  • “Uno per tutti, tutti per Hayez” di Stefano Zuffi (illustrato da Emanuele Zamponi) (lettura per bambini)
  • “Il volto dell’amore” di Flavio Caroli
  • “Risorgimento: un viaggio politico e sentimentale” di Arianna Arisi Rota
  • “Donne del Risorgimento: le eroine invisibili dell’Unità d’Italia” di Bruna Bertolo

“Ballons” di Malcom T. Liepke

Oggi parliamo di un artista vivente (nato il 31 ottobre 1953 negli Stati Uniti) e di un pittore praticamente autodidatta, dato che l’Accademia d’Arte l’aveva stufato già dopo un anno, quando fece le valige per New YorkSintetizzando l’arte dei maestri del passato, ne deriva un approccio totalmente proprio che ci fa sembrare le sue opere sia familiari sia uniche.

La sua tecnica è chiamata pittura bagnato su bagnato. Fu la tecnica preferita dagli Impressionisti, perché duttile nei panorami all’aperto. Gli strati di colore ad olio vengono sovrapposti l’uno all’altro senza aspettare l’asciugatura; è richiesto che il pittore sia molto esperto, poiché la totale instabilità non abbia la meglio sul processo creativo: i colori potrebbero mischiarsi troppo, se lui non avesse bene in mente che cosa e come lo vuole dipingere. Ma l’artista riuscirà nel suo intento quando, a fine dell’esecuzione, si troverà davanti a dei colori definiti ed avvolgenti, brillanti ed armonici. Inoltre, la sovrapposizione dei colori esalta lo spessore a rilievo sulla tela, facendo ottenere pennellate dense e vigorose, ma mai violente, piuttosto sciolte e sicure. La tavolozza di Liepke è composta da cromie neutre, tra i toni poco squillanti del verde e del grigio. Si potrebbe dire che le sue cromie siano sottovoce e patinate da quella polvere della quale sono fatti i pensieri più reconditi.

“Ballons” – 2017

Così come faceva Degas nel suo studio, anche lui fotografa le sue modelle in momenti rapiti al tempo e poi li rielabora sulla tela in un secondo momento, cercando di perpetuare l’impressione di un attimo. E così come quelli di Degas, anche i soggetti di Liepke ci paiono come spiati attraverso il buco della serratura. Di primo acchito, ci sembrerebbe di trovarci davanti a un esercizio di stile morboso, il solito nudo, il sesso che vende, ma qui il contatto visivo crea un rapporto di empatia con le protagoniste dei dipinti, le quali non risultano né scandalose né volgari, soltanto sensuali nella loro più sadica sincerità – così come fecero Courbet con l’Origine du Monde o, in chiave più floreale e metafisica, la O’Keeffe. La verità delle donne ci viene mostrata con crudo realismo, nella fisicità tangibilmente carnosa, nelle espressioni mal celate, nelle emozioni pure, nei piccoli dettagli mai tralasciabili, nei pensieri censurati che diventano segreti… (spesso, l’artista ricorre anche all’escamotage della ripresa di spalle). Lui tutto questo lo definisce le ombre della notte. Vasco, invece, ce l’ha messo in musica nella sua Albachiara.

“Night Shadows” – 2015

Liepke ci mette davanti , quindi, con irruenza ritratti di donne bellissime – anzi, glamourous, ossia irrestistibilmente attraenti. Qui, è una ragazza mora con labbra laccate di rosso che si diverte più o meno consciamente ad una festa di compleanno (magari, nemmeno la sua). I palloncini sono simbolo di infanzia, di leggerezza dello spirito, di sogni e di allegria colorata.

L’artista ci parla delle donne come creature in grado di provare gioia, dolore e amore nello stesso istante intimo di introspezione. I suoi nudi (che lo sono anche quando rimangono vestiti) sprigionano luce dall’interno – una modernizzazione delle Odalische di Ingres. Femmine: indomite, fiere, feroci, inaccessibili, sdegnose, ma pur sempre e solo amabili.

❤ Miss Raincoat

*°Letture consigliate dall’Unicorno°*

  • “Ingres” di Marco Fabio Apolloni
  • “Courbet” di Jean Jaques Fernier
  • “Donne” di Marta Alvarez Gonzales e Simona Bartolena
  • “Le disobbedienti. Storia di sei donne che hanno cambiato l’Arte” di Elisabetta Rasy
  • “Le donne nell’Arte” in Rivistadada n.37 / Artebambini (per spiegarlo anche a tu* nipote)
“Biker Girl” – 2017

“Giuditta che decapita Oloferne” di Artemisia Gentileschi

Io l’Artemisia l’ho guardata in faccia solo qualche anno fa al Palazzo Blu di Pisa, nel ritratto che le fece l’amico pittore Simon Vouet durante la sua seconda vita. La sua prima vita, come un po’ tutti, l’avevo sommariamente ascoltata sui banchi di scuola. La sapevo vagamente inquadrare nel numero delle rare pittrici donne della prolifica stagione caravaggesca. Negli anni della mia più sadica spensieratezza apprendevo anche che, tra le cose, era anche stata stuprata. Qualche mese fa ho messo sulle mie stories di Instagram la sua “Giuditta” e, in qualche modo, mi è rimasta dentro oltre le ventiquattrore di scadenza. Perchè in quella tela c’è tutto tranne la furia, tranne l’eccesso, tranne la bestialità. In quella tela nuda e cruda c’è una donna che ha attraversato una tempesta, che ne ha assorbito la potenza, che è diventata lei stessa tempesta. In piedi, senza tremare.

Il ritratto di Artemisia eseguito da S. Vouet

Siamo nella prima metà del Seicento. Artemisia ha dodici anni quando sua mamma muore e deve cominciare a prendersi cura delle faccende domestiche e dei suoi tre fratellini. Suo padre, Orazio, non la lascia mai uscire di casa. Suo padre, Orazio, è anche un pittore che lei ammira incondizionatamente e che emula diligentemente nel mescolare i pigmenti, nello scegliere gli oli e nel fabbricare pennelli. Nello studio bazzicava anche un certo Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, che Artemisia considerava una rockstar. Così, in pochi anni, Artemisia diventa una pittrice esperta e suo padre, molto orgoglioso, la premia mandandola a lezione da un collega che stimava: Agostino Tassi. Il Tassi era un artista virtuoso del quale Orazio si fidava anche se le malelingue lo descrivevano come uno scialacquatore, uno smargiasso, un donnaiolo. Addirittura, si diceva avesse comandato diversi omicidi…

Le lezioni avvenivano appunto a Casa Gentileschi. Quel giorno Orazio era fuori per alcune commissioni. Lei descrisse quanto avvenuto con parole tremende ma lucide: chiuse la porta della stanza a chiave, la bloccò in modo che non potesse chiudere le gambe e le serrò la bocca con un fazzoletto in modo che non potesse urlare. Lei avrebbe lottato anche con le unghie, ma lui si sarebbe preso quello che voleva. Lo accusarono di sverginamento; in realtà, entro le mura della casa paterna, si prese l’innocenza di una ragazzina. E non fu l’unico colpevole. Il furiere apostolico Cosimo Quorli, che tanto ricamò sulla vita sessuale di Artemisia, fu suo complice; Tuzia, la vicina di casa alla quale Orazio era solito affidare la figlia mentre era via, dichiarò sorprendentemente sempre il falso su questa vicenda.

Eppure, il Tassi era un uomo seducente ed ammaliante. Artemisia si fidò quando lui si finse innamorato e le promise di sposarla, in modo da estinguere il suo reato di violenza. Fu questo il motivo per il quale lei continuò ad avere rapporti sessuali con lui ed è allarmante che fu iniziata alla sessualità da un uomo di questo calibro. Meno di un anno dopo, comunque, Artemisia scopre che lui è già sposato, ha avuto una relazione extraconiugale con la cognata e ha incaricato un uomo di uccidere sua moglie. A questo punto, è Orazio a volere a tutti costi un processo che sarà un’ulteriore violenza pubblica per la figlia. Lo fa per non farle portare a vita la lettera scarlatta.

Artemisia affronta il processo con coraggio e dignità. Accetta l’umiliazione di lunghe visite ginecologiche. Tanto non è vergine, è una puttana. Ascolta le false testimonianze. Va con tutti, è una puttana. Si sottopone alle torture pur di difendere la verità. La legarono stretta con una corda alle dita e tirarono. Davanti a lei c’era Agostino che ancora si giurava innocente. Lei gli disse che quelle corde erano la fede nuziale che lui le donava. Anche l’opinione pubblica era tutta a favore del Tassi, anche quando lui venne condannato all’esilio (che per varie conoscenze in alto non scontò mai). Due giorni dopo la fine del processo, Artemisia si sposò con il pittore Pierantonio Stiattesi, un uomo e artista mediocre che mai l’amò con passione. Lui aveva bisogno di soldi, lei di una buona reputazione. La pittura fu il suo unico riscatto.

Giuditta che decapita Oloferne è un’opera del 1612 che nasce come reazione al processo. Non esprime violenza ma volontà di rivalsa e forza femminile. In pochi si sarebbero azzardati di rompere la tradizione iconografica di questo episodio biblico e rappresentare il momento della decapitazione, l’atrocità sanguigna, il realismo macabro; lo fecero solo lei e quel matto di Caravaggio.

Ciò nonostante, la Giuditta di Caravaggio del 1602 è diversa. La sua è una vedova che uccide il carnefice di suo marito, affaticata, impaurita; e lo fa non tanto per sé ma per mettere in salvo la sua gente. Si racconta che il pittore si ispirò a Beatrice Cenci che in quegli anni si era macchiata di parricidio: aveva drogato, ucciso e occultato il corpo di un padre che aveva violato il suo per molte volte. Questo episodio aveva incuriosito morbosamente tutta Roma, tant’è che quando Beatrice fu condannata a morte molti accorsero sotto il patibolo, vari morirono asfissiati durante quel giorno afoso di settembre. In quella folla, oltre a Caravaggio, c’erano anche Artemisia con il suo papà.

Invece, la Giuditta di Artemisia esprime bene lo sforzo fisico, il tumulto, il combattimento. Non ci sono né santi né eroi in questa scena, solo sentimenti e forza muliebre. Giuditta non è un’anima beata qui, è colei che per salvare il suo popolo usa le sue doti di donna per stordire il nemico e tagliargli la testa con la sua stessa spada. Inoltre, l’ancella è un chiaro riferimento a Tuzia, alla mancata solidarietà femminile da parte della sua unica amica che, non solo omette di soccorrerla, ma pure la denigra. Oloferne, invece è conscio, con gli occhi sbarrati, ma è ormai impotente.

Chi non ti ha voluto intera non può averti neanche a pezzi.

Miss Raincoat

°* Letture consigliate dall’Unicorno *°

Tiziana Agnati Artemisia Gentileschi

Alexandra Lapierre Artemisia

Susan Vreeland La Passione di Artemisia

Eva Menzio Lettere. Atti di un Processo

(per ragazzi) Donatella Bindi Mondaini Artemisia Gentileschi: il cuore sulla tela

(fumetti) Nathalie Ferlut/Tamia Badouin Artemisia

“Santa Cecilia” di Nicolas Poussin

Eccoci qui a inizio Settembre e alla fine della (mia) Alta Stagione. Giuro che, se qualcuno dei miei folli capi dirà che abbiamo fatturato poco, gli farò fare una fattura dalla peggiore maga che conosco! Comuuuunque… durante la mia Hot Season, oltre a frequentare turisti, mi sono beata di tempi felici socializzando con le mie amiche di bisbocce S. e S. Decisamente, ho odiato le zanzare; definitivamente, ho premiato aperitivi (specie in mezzo ai vigneti) e i concerti all’aperto (ecco perché la scelta di S. Cecilia). Da adesso in poi, è una corsa incontro a Babbo Natale!

La nostra Santa Cecilia, per i giri del mercato d’arte, si trova esposta presso il Prado a Madrid, ma con tutta certezza fu ideata e realizzata in Italia. Nicolas Poussin, noto anche come Nicolò Pussino, è un pittore francese – precisamente, originario della Normandia (dalla formazione pressoché autodidatta o locale). Lasciò Parigi poiché stufo dei sotterfugi di corte e si trasferì in Italia grazie all’amicizia con il poeta napoletano Gianbattista Marino, dove trovò un certo riscontro e una buona rete di committenze. È un olio su tela di 117 x 89 centimetri, in stile barocco e dai colori molto luminosi – databile tra il 1628 e il 1635.

Poussin è un pittore molto fedele all’iconografia dei testi sacri. Qui troviamo la patrona della Musica intenta a suonare il clavicembalo. È vestita di blu, il colore di ciò che è terreno, e ricoperta d’oro, che la identifica nella sua santità. Dietro al clavicembalo ci sono due cantori e due angeli iquali reggono lo spartito che lei sta riproducendo. Un altro angelo, invece, sta aprendo la tenda, che isola la scena dalle impurità del peccato e che scopre un paesaggio nuvoloso e una colonna – il simbolo della Fortezza, la resistenza spirituale al mondo offuscato dalla depravazione. Il viso della Santa Cecilia è lo stesso utilizzato per altre Sante dei dipinti del pittore, pensiamo o a una modella o a una musa.

Il patronato della musica attribuito a Santa Cecilia è dovuto a una cattiva interpretazione dalla sua antifona in latino. Organis non significa Con l’ Organo ma Con gli Strumenti del Martirio. Si è sempre pensato di travisare gli eventi dell giorno del suo matrimonio per renderla più martire di quanto già non lo fosse. A quanto pare, udendo le musiche della festa nuziale, chiese a Dio di non farla distrarre dalle sue preghiere tramite le melodie terrene. Eppure, lei era già encomiabile: aveva sposato un patrizio convertito al cristianesimo e si era pure battezzata, quando ancora era vietato. Valeriano, in effetti, seppelliva i martiri rimasti senza esequie e perì per questo. Le persecuzioni romane non ebbero pietà nemmeno di lei, la vedova inconsolabile che ogni giorno si recava nella catacomba, dove la catturarono. La sua pena doveva essere lo strangolamento, sebbene in extremis si optò per la decapitazione – benché il boia, non così tanto abile, la fece affogare nel suo stesso sangue!

Qui potete scaricare gratis un libro/racconto breve tra il romanzo psicologico e il giallo che ne parla (Josei Ukìyo – “L’odore del sole”) [lo troverete anche in versione per kindle o per ipad] https://www.meetale.com/scheda-testo/15669994026724259/l-odore-del-sole-.html

❤ Miss Raincoat