Ingeniun superat vires – Fatte non foste a viver come bruti
È il motto della famiglia Curti (il lato materno degli Stampa di Gravedona). Significa che l’intelligenza prevale sulle avversità della vita ed è una frase tratta dal “De Arte Gladiatoria Dimicardi” di Filippo Vadi, ossia un trattato medievale sulla scherma. Qui si è voluto anche citare La Divina Commedia di Dante in traduzione. “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, Canto XXVI).
Lucia camminava fiera. Il suo sciabordare le conferiva quella dignità che la sollevava, seppur di un poco impercettibile, dal suolo e i suoi passi parevano frusciare sopra il fango del Mondo. L’aria pungente di gennaio mitigava il sole che rendeva il cielo di quel pomeriggio invernale azzurrissimo, mentre lei stava procedendo dalla Capoana alla Villa dei Serponti come se niente la potesse più scalfire.
Generalmente, il limite che la consuetudine obbligava le donne a tenere il lutto stretto, vestite di nero e rigorosamente senza gioielli, era fissato a sei mesi per le madri e a tre mesi e mezzo per le vedove. Il Duca, però, aveva espresso le sue condoglianze solo a donna Caterina Aureggi. Per gli altri, Gabriele Mezzera non era un figlio e andava rinnegato come un qualsiasi farabutto che si era condannato da solo al patibolo per Alto Tradimento. Ma Lucia non era gli altri.
Il funerale di Gabriele era stato celebrato quasi quattro mesi prima. Al posto del rito funebre, ci fu solo una preghiera veloce all’alba nell’Oratorio di Santa Marta di Bellano. Al Duca non era ancora andata giù, ma avevano partecipato anche tanti nemici. Gabriele Mezzera era molto stimato nel suo genere, quello di chi uccideva a pagamento. A modo di suffragio, si chiese all’Altissimo indulgenza per le sue colpe. Lucia si era unita ai suoi fratelli all’altezza del fianco sinistro della navata recitando l’Eterno Riposo a un palmo di naso dalle statue del Compianto. La Madre avvinta portava la mano sul cuore fermo del Figlio e la Maddalena, dolente ai piedi del cadavere, spariva nelle sue lacrime urlate e nei suoi lunghi capelli color grano.
Non c’era famiglia a Varenna, a parte la sua, che poteva concedersi un abito prezioso e alla moda come quello che stava indossando lei. La gonna ampia e lucente di velluto di Genova, venduto a cinque libbre al palmo, spazzava la
polvere dal selciato insozzando le sue vistose bordature in broccato. In Italia il verdugado, la foggia del guardinfante, ossia la sottana in vimini per far sembrare le donne dei cesti da afferrare dai fianchi, non ebbe lo stesso successo che nell’inamidata corte spagnola. Ciò nonostante, il corsetto con le stecche di ferro teneva stretta la vita e spremeva i seni, stringendoli quel tanto che bastava per far sentire il dolore della bellezza e mostrare caritatevole la nobiltà femminile fuoriuscente dalla scollatura ampia ornata da merletti. Lucia avrebbe potuto sembrare una sposa se i toni del vestito non fossero stati quelli delle terre bruciate ricamate d’oro.
Ma questo suo ondeggiare da volpe, mai impacciata sui suoi passi, sembrò arrestarsi appena si approcciò a salire i gradini in pietra dell’entrata secondaria della Villa dei Serponti, come se avesse un timore ancestrale e, da un momento all’altro, sarebbe sprofondata negli Inferi. Quelle scale conducevano all’ala ancora in restauro del palazzo. Lucia si sfilò uno dei guanti in pelle morbida stando attenta a non rovinare il pizzo macramé del polsino e bussò decisa. Non ottenne nessuna risposta, allora spiò dentro la stanza dalle gelosie che si affacciavano sul ballatoio. Era buio, ma si sentiva qualcuno respirare. Ritornò davanti alla porta di legno massello decorata con losanghe ad intarsio e si appese di nuovo al battente con più forza.
La porta si aprì con un cigolo sordo e ne venne fuori una figura stropicciata, di poco emaciata, con la barba sfatta da giorni e i riccioli folti che la accolse con uno sbadiglio sonoro.
Era Gabriele Mezzera, quello che era stato seppellito. Quando si trattava di lui, Lucia diventava una pazza, era capace di follie che ti fanno chiedere perché le stai facendo, ma le fai lo stesso.
“La mia vedova!” la accolse mostrandole uno dei suoi sorrisi accennati, perché di meglio non sapeva rendere. Lei non sapeva mai come salutarlo. Un bacio? Un abbraccio? Sventolando la mano? Sarebbe stato tutto troppo. O troppo poco. Si spinse soltanto dentro la stanza buia che sapeva di chiuso e di sonno annoiato.
Non si dissero nulla a parte buttarsi subito sopra il letto sfatto.
“Ciao, Pazza!” la salutò lui quando era arrivato quel momento in cui qualsiasi gesto viene fatto solo al fine di sé stesso, non per giochi di seduzione, e come se la stesse guardando per la prima volta. Lei lo accarezzò indugiando con il pollice sulla fossetta destra al lato della bocca. Lui si lamentò un po’ perché le faceva il solletico. “Gà, ti devo dire una cosa!” sussurrò lei, con la bocca ancora impastata d’amore. “Che mi ami di un amore profondo e disperato?” scherzò lui. Gabriele Mezzera a una frase del genere si sarebbe offeso, non glielo si poteva dire anche se fosse stata la verità. Lei si mise seduta, coperta a malapena dal lenzuolo bianco. Sembrava una bambina, più che la mala mujer che tutti si vantavano di aver posseduto. Scosse la testa guardando in basso. “Tempo scaduto?” chiese lui. Ma non era una domanda.
Lucia stava morendo.
Gabriele la guardava in silenzio, non sapendo che dire. Lei non sapeva come consolarlo. Infondo, era lei che aveva paura.
Lucia era malata, ma per la sua malattia non c’era né una causa né una cura e perciò la definivano una pazza. Il prete diceva che era una punizione per le sue malfatte. E il Signor Curato? Lui come si sarebbe giustificato con San Pietro per ciò che faceva in sacrestia?
Era iniziato durante il periodo delle mietiture, in quell’anno in cui lei era una bambina che stava per sbocciare. A maggio, si associava alla febbre reumatica uno stato tipico delle ragazze che si approcciano ad essere maritabili. Il cuore, che le batteva all’impazzata, le causava un forte dolore al torace. Dice che è malata per non mangiar polenta, si cantava ai tempi.
La febbre alta, però, durò una settimana e quando Lucia riuscì a rimettersi in sesto sentiva dentro lei che qualcosa era cambiato, nel suo umore. Era spesso irritabile, vuota e non provava più compassione. L’unica cosa che le faceva sentire qualcosa era accarezzarsi, anche nei suoi punti più oscuri. Era convinta che nessuno l’avrebbe voluta abbracciare senza chiederle nulla in cambio. Era diventata una dolce castagna ben protetta dal suo riccio. Così prese a rendersi prontamente disponibile per uomini o, parimenti, donne. Preferiva che i suoi fratelli la considerassero una poco di buono, che un’inutile sorella malata della quale non si sarebbero mai potuti liberare. Lucia non voleva fare pena.
Erano già passati degli anni quando, frattanto, non riusciva più a governare il suo corpo se si metteva a muovere nei passi di una danza che lei non voleva ballare, perché non ne conosceva il ritmo. Giorgio, suo fratello, la fece visitare da vari specialisti, compreso il dottor Serponti, che, sebbene fosse una zecca al culo, era il più giovane e il miglior specialista delle febbri terzane nell’Alto Lario. Esclusi i paragnosti convinti che andasse annegata nell’acquasanta, tutti i medici furono concordi nel constatare che si trattasse del Ballo di San Vito, l’antica malattia sconosciuta di chi non riesce a stare fermo e va fuori di testa. Dissero anche che l’avrebbe uccisa perché le sarebbero ceduti il cuore o i polmoni, improvvisamente o lentamente, e non si sapeva nemmeno quando. Era arrivata ad essere adulta e si era vissuta la vita anche attraverso quelle cose che una ragazza nubile per bene non avrebbe potuto fare rigorosamente alla luce del sole. Di nascosto, non sarebbe stato abbastanza divertente.
Cercava sempre di essere sobria, di prendere gli spigoli vivi, e soltanto quando il dolore la spaccava in due mesceva alcool e oppio, per cadere in uno stato di euforia inconscia. Per uscire completamente da sé. Ultimamente le mancava spesso il respiro e il suo cuore matto, talvolta, saltava qualche rintocco. Il dottor Serponti le spiegò che presto avrebbe sentito lo stesso dolore al petto che aveva sentito da bambina, mentre i mezzadri si accingevano a raccogliere i cereali maturi.
I suoi fratelli la credevano già morta da un pezzo. Non sarebbe mancata a nessuno. Giorgio si sentiva ferito e risentito: Lucia gli aveva rovinato la vita e la reputazione. Ma era stata la sua prima moglie, l’indemoniata, a infilarsi nel suo letto e a insegnarle bene come funziona il corpo delle donne. Con quella nuova, invece, gli era andata bene perché non era arrivata davvero illibata al matrimonio: Gabriele le aveva insegnato prima come far stare zitto un uomo. Antonio, invece, la vedeva come una bambola rotta. Tendenzialmente, si sentiva addosso tutto il peso della sofferenza delle donne perché la sua si era buttata nel lago. Lucia sapeva che poteva succedere alle donne che sono diventate madri. Si era infilata nel lago con dei sassi nelle tasche e non era colpa di Antonio, non era colpa di nessuno – ma suo fratello non era abbastanza razionale per chiudere la bara empia di una madre degenere che abbandona sua figlia. Se Giorgio le assomigliava molto fisicamente, la malinconia eroica di Antonio era uguale alla sua. Era inguaribile.
“Non vedrò la faccia dei miei fratelli quando resusciterai vicino a Nicola Stampa” cercò di ironizzare Lucia. Gabriele si era scurito in faccia e lei voleva spazzargli via le nuvole dagli occhi. Dentro di lei strisciava il dolore pungente di voler fare qualcosa di impossibile. Le mancava qualcosa che non aveva nemmeno vissuto.
“Ti sei scopata anche lui, vero?”. Gabriele ruppe il silenzio e Lucia alzò le spalle, fintamente innocente.
Per Gabriele era davvero più innocente lei nella sua sincerità, che tante altre bugiarde che aveva avuto sotto di sé. A lei la posizione di sottomissione non piaceva, anche se era l’unica accettata dalla Chiesa. Le altre il peccato lo facevano a metà. “Voto?” le chiese con curiosità maschia. Era stata anche con Tommaso, del resto. Gliel’aveva portata varie volte come bottino, per strapparla agli Sfondrati, senza poter muovere un ciglio, finché Tommaso si era reso conto che Gabriele e Lucia erano… Una coppia? In qualche modo lo erano. “Va beh, contenti voi!” commentò. “L’importante è che non ti fai uccidere dai suoi fratelli!”. Giorgio e Antonio facevano finta di non sapere, perché era uno smacco che la loro sorella preferisse il pane dei Mezzera. O forse perché preferivano che dormisse con lui piuttosto che dover fare le fusa al vecchio Duca.
Lucia non raccontava storie e lui non ne raccontava a lei. Loro erano fedeli così. ” Voto di castità, se Stampa fosse l’ultimo uomo rimasto in terra”. Lucia mentì – non era stato così male – ma agli uomini bisogna sempre dire che con loro è stata o la prima volta o la volta migliore. Gabriele, grazie all’intercessione dei Mornico, aveva avuto quattro mesi abbonati per riprendersi e per presentarsi dal suo nuovo Signore. Lei era andata da lui ogni giorno vestita a lutto come se fosse sua moglie. Era questa la sua vera risposta.
“Non dirò il tuo nome quando morirò!” butto lì lei, senza che le fosse chiesto. Lui non disse niente; intanto, tutto ciò che provava gli bruciava nella gola e nello stomaco come grappa. Non è che la loro relazione fosse segreta perché si vergognassero o temessero ritorsioni. Semplicemente, come tutte le cose intime, era sussurrata tra di loro. Non volevano che i loro sentimenti fossero una vaga motivazione, una chiacchiera, per sfidarsi con un coltello in un rozzo duello rusticano.
“Che vuoi fare oggi? Fumiamo?” le chiese lui, facendo finta che fosse un giorno come gli altri. Lei scosse la testa e lo baciò. Non gliene importava più nulla se si fosse urtato. Lei quel giorno lo voleva vivere da sveglia, anche se lo dovevano trascorrere dentro quella stanza a fare finta di non esistere per gli altri.
Il giorno in cui si erano incontrati – o scontrati, sarebbe meglio dire – Gabriele si era introdotto di sfrodo alla Capoana per avvelenare i cani dei Migazza. Erano due bracchi da caccia, stupidi come i loro padroni. Doveva essere una marachella, non qualcosa per intimidirli.
Lei arrivò quatta da dietro, scalza, con le trecce spettinate e una blusa leggera tenuta attorno ai fianchi da una sopravveste logora, mentre lui stava trafficando nelle tasche per cercare la pozione letale che doveva sciogliersi nell’acqua dei due segugi. “Basta che dai loro un tozzo di pane dei Mezzera!” le consigliò la ragazza.
Sembrava una principessa spodestata. Sembrava un fiore di campo che la brezza estiva smuoveva di poco. Il meriggio rifletteva di arancione il biondo cenere dei suoi capelli lisci che non riuscivano a incorniciare la sua bellezza strabordante al punto di essere offuscata, quasi bacata. Era gracile, vagamente deperita, con la pelle talmente diafana da virare nel cianotico, gli occhi cerulei e sporgenti come quelli degli agoni.
“Perché? Che ha di meglio quello dei tuoi padroni?” le domandò stizzito scambiandola per una serva. Una serva di quei buffoni dei Venini. Lei invece sapeva bene chi aveva davanti, era quello smargiasso di Gabriele Mezzera. Il più gradasso dei bravi di Tommaso Serponti.
Lucia sbuffò e poi si sbottonò velocemente la camicetta fissandolo in attesa di una reazione, dato che la stava guardando con gli occhi spalancati. Non si capiva se per timore o per stupore. “Eh, infatti c’è di meglio!” disse lui che razionalmente sapeva che in quel corpo non c’era nulla di florido, ma che non poteva fare a meno di toccare, se no sarebbe andato ai matti.
Lei gli spostò il largo palmo più a sinistra, per fargli sentire il cuore. Batteva a musica misurata. Gabriele rimase fermo anche quando lei si mise a trafficare con il cavallo dei suoi pantaloni, per sbottonarglieli.
Contro il muro del casino della ragnaia, annerito dalla fuliggine dell’inverno, si sentivano solo le api bottinare tra i fiori chiari della rigogliosa edera che si arrampicava dietro i loro corpi che si muovevano lenti.
Le mise una mano sulla bocca, non doveva sapere nessuno quanto le stava piacendo. Tra le tante cicatrici che Gabriele avrebbe potuto vantarsi di aver collezionato scampando dalla morte, spiccava quella dei denti di Lucia nel punto in cui il pollice mira con l’indice.
“Beh, io devo uccidere i tuoi cani ora…” le ricordò lui, mentre raccoglievano i loro vestiti da terra e si rivestivano a casaccio. Nella fretta, a lei cadde la catenina d’oro sul prato. Lui fece per raccoglierla e, girandosela tra le dita, si accorse che sulla medaglietta portava incisa una vipera, lo stemma della sua famiglia. “Cazzo!” disse guardandola strabiliato. Lei lo guardò interrogativa. Possibile che fosse talmente idiota da non sapere chi si fosse scopato?
“Sei Lucia…?” le chiese senza trovare un epiteto che le si addicesse. “Lucia La Pazza, intendi?” domandò ironica. “Volevo dire Venini ma mia mamma non vuole che io dica le parolacce!” incalzò “Oh, io invece lo so chi sei…” continuò lei con lo stesso tono. “Beh, io sono Gabriele Mezzera, non c’è nulla da aggiungere, no?”. Ormai il gioco delle funi tra di loro era iniziato. “Sei Gabriele Mezzera quello che non riesce a tenersi addosso i calzoni, giusto?” lo prese in giro. “Ne hai avuto la conferma, bionda!” le disse prima di girare sui tacchi. Lei non gli chiese di tornare e lui non glielo promise.
“Oh, ma i cani non li uccidi!?” lo richiamò indietro. “Mi sono scopato la loro sorella, pensi che non basti?” chiese indolente. Lei alzò il dito medio.
Poco tempo dopo, era cominciata a circolare quella voce che nessuno dei due aveva mai né confermato né smentito. Si erano sempre rincontrati così, in balia del fato, per tre anni fatti di pause e riprese, perché non sarebbe mai bastato.
Era stato un gennaio senza neve e particolarmente mite. A parte quel giorno in cui il vento sferzava verso nord, confondendo i nervi.
Gabriele sapeva che Giorgio non arrivava con buone nuove e, appena fu sulla soglia a suo cospetto, battendo i denti dal freddo, non ci fu bisogno di parole per capire. Eppure, Giorgio sapeva che l’umana psiche funzionava così: se non lo senti dire ad alta voce, non pensi sia vero davvero. “Si è addormentata” gli disse. Non aveva sofferto. Tirando un ultimo sospiro, aveva liberato la sua anima dal peso del suo corpo esausto. Avrebbe potuto fare tante domande, ma a Gabriele ne venne in mente soltanto una, anche insolita per un uomo scellerato come lui. “Si è confessata!?”. Giorgio disse di sì e lui rise di gusto. “Che cosa le hai fatto fare, Gabrio?” gli chiese il suo amico accompagnandolo nell’ilarità così tanto in contrasto con la gravità dei fatti. “Vorrai dire: che cosa ha fatto fare lei a me!” continuò a sghignazzare con la mente nel passato ormai remoto. “Se tu non fossi già morto, ti direi di confessarti anche tu!” lo punzecchiò.
Gabriele si infoschì all’improvviso. “Ha detto qualcosa prima di morire?” domandò serio. Giorgio era stato al suo capezzale; Lucia aveva voluto accanto a sé solo l’unico medico di cui si fidava. Erano tempi in cui persino tua madre poteva avvelenarti per via della faida. “Ha detto qualcosa come… tempo scaduto!”. Gabriele sorrise, quella era una frase che li legava. Non si auguravano mai arrivederci quando si salutavano, ma facevano tesoro del poco tempo che potevano concedersi – come un meccanismo ad orologeria, erano destinati ad evolvere negativamente.
“L’amavi, Gabriele?”. Era arrivato il momento della verità. Annuì impercettibilmente perché c’era qualcosa nel provare sentimenti umani che lo faceva vergognare. “Le ho promesso di non dirtelo, ma quella notte, quella in cui sei quasi morto, ha giurato sulla Madonna che se tu non ce l’avessi fatta sarebbe andata in giro a dire che vi eravate sposati in segreto!”. Gabriele sorrise talmente tanto e dopo tanto tempo da sentire tirare la mascella. Per la gente sarebbe solo stata una leggenda da raccontare alle educande più improbe, ma lui non aveva mai vissuto niente di più reale. Realmente, quella donna le aveva messo le mani nelle viscere per fare in modo che non si dissanguasse.
“Quindi, mi sa che per me è arrivato il momento di smettere di villeggiare ai Cipressi!” disse Gabriele, che sapeva che un uomo non poteva farsi fregare dalle sue stesse dimenticanze. I due si abbracciarono a lungo. “Buona fortuna amico mio!” lo salutò Giorgio tenendosi strette anche le sue lacrime. I veri uomini non piangono.
L’indomani Gabriele sarebbe stato a Gravedona, dall’altra parte del Lago, in piedi nello studiolo resinoso degli Stampa a fare finta di essere impassibile. Nel frattempo, la carrozza nera avrebbe trasportato a passo lento il feretro di Lucia dalla Capoana alla chiesa di San Giorgio a Varenna costeggiando il lago. Dietro di lei, la processione l’avrebbe accompagnata come una Santa.
Le donne avrebbero nascosto tra i sospiri di cordoglio quelli di sollievo; gli uomini si sarebbero tolti il cappello in segno di quel rispetto che mai avevano avuto per lei. Ai piedi dell’altare ci sarebbero state mille rose, quanti erano stati i giorni perché Gabriele capisse che cos’è l’amore e che la morte – solo la morte – rende tutto irreversibile ed eterno.
❤ Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.
Quelli tra palco e realtà
Lucia Venini detta La Pazza è un personaggio realmente esistito (1592-1652). La malattia (che io ho voluto fosse la Còrea) e la sua cronologia me l’hanno fatta scegliere come fantomatica amante-nemica di Gabriele. Il suo vestito è ispirato a un ritratto della Duchessa di Doria di Van Dyck – non per qualche motivo specifico, ma perché Genova era il posto più costoso dove reperire le stoffe nei nostri luoghi a quel tempo. La canzone popolare lombardo-piemontese citata è “La Bella Gigogin”, diventata celebre e metaforica durante l’Indipendenza Italiana, ma ispirata a canti già esistenti. Il “Compianto” di Santa Marta a Bellano è un’opera scultorea rinascimentale piuttosto notevole che potete conoscere clickando qui.