7*01 – Ingenium superat vires

È il motto della famiglia Curti (il lato materno degli Stampa di Gravedona). Significa che l’intelligenza prevale sulle avversità della vita ed è una frase tratta dal “De Arte Gladiatoria Dimicardi” di Filippo Vadi, ossia un trattato medievale sulla scherma. Qui si è voluto anche citare La Divina Commedia di Dante in traduzione. “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, Canto XXVI).

Lucia camminava fiera. Il suo sciabordare le conferiva quella dignità che la sollevava, seppur di un poco impercettibile, dal suolo e i suoi passi parevano frusciare sopra il fango del Mondo. L’aria pungente di gennaio mitigava il sole che rendeva il cielo di quel pomeriggio invernale azzurrissimo, mentre lei stava procedendo dalla Capoana alla Villa dei Serponti come se niente la potesse più scalfire.

Generalmente, il limite che la consuetudine obbligava le donne a tenere il lutto stretto, vestite di nero e rigorosamente senza gioielli, era fissato a sei mesi per le madri e a tre mesi e mezzo per le vedove. Il Duca, però, aveva espresso le sue condoglianze solo a donna Caterina Aureggi. Per gli altri, Gabriele Mezzera non era un figlio e andava rinnegato come un qualsiasi farabutto che si era condannato da solo al patibolo per Alto Tradimento. Ma Lucia non era gli altri.

Il funerale di Gabriele era stato celebrato quasi quattro mesi prima. Al posto del rito funebre, ci fu solo una preghiera veloce all’alba nell’Oratorio di Santa Marta di Bellano. Al Duca non era ancora andata giù, ma avevano partecipato anche tanti nemici. Gabriele Mezzera era molto stimato nel suo genere, quello di chi uccideva a pagamento. A modo di suffragio, si chiese all’Altissimo indulgenza per le sue colpe. Lucia si era unita ai suoi fratelli all’altezza del fianco sinistro della navata recitando l’Eterno Riposo a un palmo di naso dalle statue del Compianto. La Madre avvinta portava la mano sul cuore fermo del Figlio e la Maddalena, dolente ai piedi del cadavere, spariva nelle sue lacrime urlate e nei suoi lunghi capelli color grano.

Non c’era famiglia a Varenna, a parte la sua, che poteva concedersi un abito prezioso e alla moda come quello che stava indossando lei. La gonna ampia e lucente di velluto di Genova, venduto a cinque libbre al palmo, spazzava la
polvere dal selciato insozzando le sue vistose bordature in broccato. In Italia il verdugado, la foggia del guardinfante, ossia la sottana in vimini per far sembrare le donne dei cesti da afferrare dai fianchi, non ebbe lo stesso successo che nell’inamidata corte spagnola. Ciò nonostante, il corsetto con le stecche di ferro teneva stretta la vita e spremeva i seni, stringendoli quel tanto che bastava per far sentire il dolore della bellezza e mostrare caritatevole la nobiltà femminile fuoriuscente dalla scollatura ampia ornata da merletti. Lucia avrebbe potuto sembrare una sposa se i toni del vestito non fossero stati quelli delle terre bruciate ricamate d’oro.

Ma questo suo ondeggiare da volpe, mai impacciata sui suoi passi, sembrò arrestarsi appena si approcciò a salire i gradini in pietra dell’entrata secondaria della Villa dei Serponti, come se avesse un timore ancestrale e, da un momento all’altro, sarebbe sprofondata negli Inferi. Quelle scale conducevano all’ala ancora in restauro del palazzo. Lucia si sfilò uno dei guanti in pelle morbida stando attenta a non rovinare il pizzo macramé del polsino e bussò decisa. Non ottenne nessuna risposta, allora spiò dentro la stanza dalle gelosie che si affacciavano sul ballatoio. Era buio, ma si sentiva qualcuno respirare. Ritornò davanti alla porta di legno massello decorata con losanghe ad intarsio e si appese di nuovo al battente con più forza.

La porta si aprì con un cigolo sordo e ne venne fuori una figura stropicciata, di poco emaciata, con la barba sfatta da giorni e i riccioli folti che la accolse con uno sbadiglio sonoro.

Era Gabriele Mezzera, quello che era stato seppellito. Quando si trattava di lui, Lucia diventava una pazza, era capace di follie che ti fanno chiedere perché le stai facendo, ma le fai lo stesso.

“La mia vedova!” la accolse mostrandole uno dei suoi sorrisi accennati, perché di meglio non sapeva rendere. Lei non sapeva mai come salutarlo. Un bacio? Un abbraccio? Sventolando la mano? Sarebbe stato tutto troppo. O troppo poco. Si spinse soltanto dentro la stanza buia che sapeva di chiuso e di sonno annoiato.

Non si dissero nulla a parte buttarsi subito sopra il letto sfatto.

“Ciao, Pazza!” la salutò lui quando era arrivato quel momento in cui qualsiasi gesto viene fatto solo al fine di sé stesso, non per giochi di seduzione, e come se la stesse guardando per la prima volta. Lei lo accarezzò indugiando con il pollice sulla fossetta destra al lato della bocca. Lui si lamentò un po’ perché le faceva il solletico. “Gà, ti devo dire una cosa!” sussurrò lei, con la bocca ancora impastata d’amore. “Che mi ami di un amore profondo e disperato?” scherzò lui. Gabriele Mezzera a una frase del genere si sarebbe offeso, non glielo si poteva dire anche se fosse stata la verità. Lei si mise seduta, coperta a malapena dal lenzuolo bianco. Sembrava una bambina, più che la mala mujer che tutti si vantavano di aver posseduto. Scosse la testa guardando in basso. “Tempo scaduto?” chiese lui. Ma non era una domanda.

Lucia stava morendo.

Gabriele la guardava in silenzio, non sapendo che dire. Lei non sapeva come consolarlo. Infondo, era lei che aveva paura.

Lucia era malata, ma per la sua malattia non c’era né una causa né una cura e perciò la definivano una pazza. Il prete diceva che era una punizione per le sue malfatte. E il Signor Curato? Lui come si sarebbe giustificato con San Pietro per ciò che faceva in sacrestia?

Era iniziato durante il periodo delle mietiture, in quell’anno in cui lei era una bambina che stava per sbocciare. A maggio, si associava alla febbre reumatica uno stato tipico delle ragazze che si approcciano ad essere maritabili. Il cuore, che le batteva all’impazzata, le causava un forte dolore al torace. Dice che è malata per non mangiar polenta, si cantava ai tempi.

La febbre alta, però, durò una settimana e quando Lucia riuscì a rimettersi in sesto sentiva dentro lei che qualcosa era cambiato, nel suo umore. Era spesso irritabile, vuota e non provava più compassione. L’unica cosa che le faceva sentire qualcosa era accarezzarsi, anche nei suoi punti più oscuri. Era convinta che nessuno l’avrebbe voluta abbracciare senza chiederle nulla in cambio. Era diventata una dolce castagna ben protetta dal suo riccio. Così prese a rendersi prontamente disponibile per uomini o, parimenti, donne. Preferiva che i suoi fratelli la considerassero una poco di buono, che un’inutile sorella malata della quale non si sarebbero mai potuti liberare. Lucia non voleva fare pena.

Erano già passati degli anni quando, frattanto, non riusciva più a governare il suo corpo se si metteva a muovere nei passi di una danza che lei non voleva ballare, perché non ne conosceva il ritmo. Giorgio, suo fratello, la fece visitare da vari specialisti, compreso il dottor Serponti, che, sebbene fosse una zecca al culo, era il più giovane e il miglior specialista delle febbri terzane nell’Alto Lario. Esclusi i paragnosti convinti che andasse annegata nell’acquasanta, tutti i medici furono concordi nel constatare che si trattasse del Ballo di San Vito, l’antica malattia sconosciuta di chi non riesce a stare fermo e va fuori di testa. Dissero anche che l’avrebbe uccisa perché le sarebbero ceduti il cuore o i polmoni, improvvisamente o lentamente, e non si sapeva nemmeno quando. Era arrivata ad essere adulta e si era vissuta la vita anche attraverso quelle cose che una ragazza nubile per bene non avrebbe potuto fare rigorosamente alla luce del sole. Di nascosto, non sarebbe stato abbastanza divertente.

Cercava sempre di essere sobria, di prendere gli spigoli vivi, e soltanto quando il dolore la spaccava in due mesceva alcool e oppio, per cadere in uno stato di euforia inconscia. Per uscire completamente da sé. Ultimamente le mancava spesso il respiro e il suo cuore matto, talvolta, saltava qualche rintocco. Il dottor Serponti le spiegò che presto avrebbe sentito lo stesso dolore al petto che aveva sentito da bambina, mentre i mezzadri si accingevano a raccogliere i cereali maturi.

I suoi fratelli la credevano già morta da un pezzo. Non sarebbe mancata a nessuno. Giorgio si sentiva ferito e risentito: Lucia gli aveva rovinato la vita e la reputazione. Ma era stata la sua prima moglie, l’indemoniata, a infilarsi nel suo letto e a insegnarle bene come funziona il corpo delle donne. Con quella nuova, invece, gli era andata bene perché non era arrivata davvero illibata al matrimonio: Gabriele le aveva insegnato prima come far stare zitto un uomo. Antonio, invece, la vedeva come una bambola rotta. Tendenzialmente, si sentiva addosso tutto il peso della sofferenza delle donne perché la sua si era buttata nel lago. Lucia sapeva che poteva succedere alle donne che sono diventate madri. Si era infilata nel lago con dei sassi nelle tasche e non era colpa di Antonio, non era colpa di nessuno – ma suo fratello non era abbastanza razionale per chiudere la bara empia di una madre degenere che abbandona sua figlia. Se Giorgio le assomigliava molto fisicamente, la malinconia eroica di Antonio era uguale alla sua. Era inguaribile.

“Non vedrò la faccia dei miei fratelli quando resusciterai vicino a Nicola Stampa” cercò di ironizzare Lucia. Gabriele si era scurito in faccia e lei voleva spazzargli via le nuvole dagli occhi. Dentro di lei strisciava il dolore pungente di voler fare qualcosa di impossibile. Le mancava qualcosa che non aveva nemmeno vissuto.

“Ti sei scopata anche lui, vero?”. Gabriele ruppe il silenzio e Lucia alzò le spalle, fintamente innocente.

Per Gabriele era davvero più innocente lei nella sua sincerità, che tante altre bugiarde che aveva avuto sotto di sé. A lei la posizione di sottomissione non piaceva, anche se era l’unica accettata dalla Chiesa. Le altre il peccato lo facevano a metà. “Voto?” le chiese con curiosità maschia. Era stata anche con Tommaso, del resto. Gliel’aveva portata varie volte come bottino, per strapparla agli Sfondrati, senza poter muovere un ciglio, finché Tommaso si era reso conto che Gabriele e Lucia erano… Una coppia? In qualche modo lo erano. “Va beh, contenti voi!” commentò. “L’importante è che non ti fai uccidere dai suoi fratelli!”. Giorgio e Antonio facevano finta di non sapere, perché era uno smacco che la loro sorella preferisse il pane dei Mezzera. O forse perché preferivano che dormisse con lui piuttosto che dover fare le fusa al vecchio Duca.

Lucia non raccontava storie e lui non ne raccontava a lei. Loro erano fedeli così. ” Voto di castità, se Stampa fosse l’ultimo uomo rimasto in terra”. Lucia mentì – non era stato così male – ma agli uomini bisogna sempre dire che con loro è stata o la prima volta o la volta migliore. Gabriele, grazie all’intercessione dei Mornico, aveva avuto quattro mesi abbonati per riprendersi e per presentarsi dal suo nuovo Signore. Lei era andata da lui ogni giorno vestita a lutto come se fosse sua moglie. Era questa la sua vera risposta.

“Non dirò il tuo nome quando morirò!” butto lì lei, senza che le fosse chiesto. Lui non disse niente; intanto, tutto ciò che provava gli bruciava nella gola e nello stomaco come grappa. Non è che la loro relazione fosse segreta perché si vergognassero o temessero ritorsioni. Semplicemente, come tutte le cose intime, era sussurrata tra di loro. Non volevano che i loro sentimenti fossero una vaga motivazione, una chiacchiera, per sfidarsi con un coltello in un rozzo duello rusticano.

“Che vuoi fare oggi? Fumiamo?” le chiese lui, facendo finta che fosse un giorno come gli altri. Lei scosse la testa e lo baciò. Non gliene importava più nulla se si fosse urtato. Lei quel giorno lo voleva vivere da sveglia, anche se lo dovevano trascorrere dentro quella stanza a fare finta di non esistere per gli altri.

Il giorno in cui si erano incontrati – o scontrati, sarebbe meglio dire – Gabriele si era introdotto di sfrodo alla Capoana per avvelenare i cani dei Migazza. Erano due bracchi da caccia, stupidi come i loro padroni. Doveva essere una marachella, non qualcosa per intimidirli.

Lei arrivò quatta da dietro, scalza, con le trecce spettinate e una blusa leggera tenuta attorno ai fianchi da una sopravveste logora, mentre lui stava trafficando nelle tasche per cercare la pozione letale che doveva sciogliersi nell’acqua dei due segugi. “Basta che dai loro un tozzo di pane dei Mezzera!” le consigliò la ragazza.

Sembrava una principessa spodestata. Sembrava un fiore di campo che la brezza estiva smuoveva di poco. Il meriggio rifletteva di arancione il biondo cenere dei suoi capelli lisci che non riuscivano a incorniciare la sua bellezza strabordante al punto di essere offuscata, quasi bacata. Era gracile, vagamente deperita, con la pelle talmente diafana da virare nel cianotico, gli occhi cerulei e sporgenti come quelli degli agoni.

“Perché? Che ha di meglio quello dei tuoi padroni?” le domandò stizzito scambiandola per una serva. Una serva di quei buffoni dei Venini. Lei invece sapeva bene chi aveva davanti, era quello smargiasso di Gabriele Mezzera. Il più gradasso dei bravi di Tommaso Serponti.

Lucia sbuffò e poi si sbottonò velocemente la camicetta fissandolo in attesa di una reazione, dato che la stava guardando con gli occhi spalancati. Non si capiva se per timore o per stupore. “Eh, infatti c’è di meglio!” disse lui che razionalmente sapeva che in quel corpo non c’era nulla di florido, ma che non poteva fare a meno di toccare, se no sarebbe andato ai matti.

Lei gli spostò il largo palmo più a sinistra, per fargli sentire il cuore. Batteva a musica misurata. Gabriele rimase fermo anche quando lei si mise a trafficare con il cavallo dei suoi pantaloni, per sbottonarglieli.

Contro il muro del casino della ragnaia, annerito dalla fuliggine dell’inverno, si sentivano solo le api bottinare tra i fiori chiari della rigogliosa edera che si arrampicava dietro i loro corpi che si muovevano lenti.

Le mise una mano sulla bocca, non doveva sapere nessuno quanto le stava piacendo. Tra le tante cicatrici che Gabriele avrebbe potuto vantarsi di aver collezionato scampando dalla morte, spiccava quella dei denti di Lucia nel punto in cui il pollice mira con l’indice.

“Beh, io devo uccidere i tuoi cani ora…” le ricordò lui, mentre raccoglievano i loro vestiti da terra e si rivestivano a casaccio. Nella fretta, a lei cadde la catenina d’oro sul prato. Lui fece per raccoglierla e, girandosela tra le dita, si accorse che sulla medaglietta portava incisa una vipera, lo stemma della sua famiglia. “Cazzo!” disse guardandola strabiliato. Lei lo guardò interrogativa. Possibile che fosse talmente idiota da non sapere chi si fosse scopato?

“Sei Lucia…?” le chiese senza trovare un epiteto che le si addicesse. “Lucia La Pazza, intendi?” domandò ironica. “Volevo dire Venini ma mia mamma non vuole che io dica le parolacce!” incalzò “Oh, io invece lo so chi sei…” continuò lei con lo stesso tono. “Beh, io sono Gabriele Mezzera, non c’è nulla da aggiungere, no?”. Ormai il gioco delle funi tra di loro era iniziato. “Sei Gabriele Mezzera quello che non riesce a tenersi addosso i calzoni, giusto?” lo prese in giro. “Ne hai avuto la conferma, bionda!” le disse prima di girare sui tacchi. Lei non gli chiese di tornare e lui non glielo promise.

“Oh, ma i cani non li uccidi!?” lo richiamò indietro. “Mi sono scopato la loro sorella, pensi che non basti?” chiese indolente. Lei alzò il dito medio.

Poco tempo dopo, era cominciata a circolare quella voce che nessuno dei due aveva mai né confermato né smentito. Si erano sempre rincontrati così, in balia del fato, per tre anni fatti di pause e riprese, perché non sarebbe mai bastato.

Era stato un gennaio senza neve e particolarmente mite. A parte quel giorno in cui il vento sferzava verso nord, confondendo i nervi.

Gabriele sapeva che Giorgio non arrivava con buone nuove e, appena fu sulla soglia a suo cospetto, battendo i denti dal freddo, non ci fu bisogno di parole per capire. Eppure, Giorgio sapeva che l’umana psiche funzionava così: se non lo senti dire ad alta voce, non pensi sia vero davvero. “Si è addormentata” gli disse. Non aveva sofferto. Tirando un ultimo sospiro, aveva liberato la sua anima dal peso del suo corpo esausto. Avrebbe potuto fare tante domande, ma a Gabriele ne venne in mente soltanto una, anche insolita per un uomo scellerato come lui. “Si è confessata!?”. Giorgio disse di sì e lui rise di gusto. “Che cosa le hai fatto fare, Gabrio?” gli chiese il suo amico accompagnandolo nell’ilarità così tanto in contrasto con la gravità dei fatti. “Vorrai dire: che cosa ha fatto fare lei a me!” continuò a sghignazzare con la mente nel passato ormai remoto. “Se tu non fossi già morto, ti direi di confessarti anche tu!” lo punzecchiò.

Gabriele si infoschì all’improvviso. “Ha detto qualcosa prima di morire?” domandò serio. Giorgio era stato al suo capezzale; Lucia aveva voluto accanto a sé solo l’unico medico di cui si fidava. Erano tempi in cui persino tua madre poteva avvelenarti per via della faida. “Ha detto qualcosa come… tempo scaduto!”. Gabriele sorrise, quella era una frase che li legava. Non si auguravano mai arrivederci quando si salutavano, ma facevano tesoro del poco tempo che potevano concedersi – come un meccanismo ad orologeria, erano destinati ad evolvere negativamente.

“L’amavi, Gabriele?”. Era arrivato il momento della verità. Annuì impercettibilmente perché c’era qualcosa nel provare sentimenti umani che lo faceva vergognare. “Le ho promesso di non dirtelo, ma quella notte, quella in cui sei quasi morto, ha giurato sulla Madonna che se tu non ce l’avessi fatta sarebbe andata in giro a dire che vi eravate sposati in segreto!”. Gabriele sorrise talmente tanto e dopo tanto tempo da sentire tirare la mascella. Per la gente sarebbe solo stata una leggenda da raccontare alle educande più improbe, ma lui non aveva mai vissuto niente di più reale. Realmente, quella donna le aveva messo le mani nelle viscere per fare in modo che non si dissanguasse.

“Quindi, mi sa che per me è arrivato il momento di smettere di villeggiare ai Cipressi!” disse Gabriele, che sapeva che un uomo non poteva farsi fregare dalle sue stesse dimenticanze. I due si abbracciarono a lungo. “Buona fortuna amico mio!” lo salutò Giorgio tenendosi strette anche le sue lacrime. I veri uomini non piangono.

L’indomani Gabriele sarebbe stato a Gravedona, dall’altra parte del Lago, in piedi nello studiolo resinoso degli Stampa a fare finta di essere impassibile. Nel frattempo, la carrozza nera avrebbe trasportato a passo lento il feretro di Lucia dalla Capoana alla chiesa di San Giorgio a Varenna costeggiando il lago. Dietro di lei, la processione l’avrebbe accompagnata come una Santa.

Le donne avrebbero nascosto tra i sospiri di cordoglio quelli di sollievo; gli uomini si sarebbero tolti il cappello in segno di quel rispetto che mai avevano avuto per lei. Ai piedi dell’altare ci sarebbero state mille rose, quanti erano stati i giorni perché Gabriele capisse che cos’è l’amore e che la morte – solo la morte – rende tutto irreversibile ed eterno.

Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.

Quelli tra palco e realtà
Lucia Venini detta La Pazza è un personaggio realmente esistito (1592-1652). La malattia (che io ho voluto fosse la Còrea) e la sua cronologia me l’hanno fatta scegliere come fantomatica amante-nemica di Gabriele. Il suo vestito è ispirato a un ritratto della Duchessa di Doria di Van Dyck – non per qualche motivo specifico, ma perché Genova era il posto più costoso dove reperire le stoffe nei nostri luoghi a quel tempo. La canzone popolare lombardo-piemontese citata è “La Bella Gigogin”, diventata celebre e metaforica durante l’Indipendenza Italiana, ma ispirata a canti già esistenti. Il “Compianto” di Santa Marta a Bellano è un’opera scultorea rinascimentale piuttosto notevole che potete conoscere clickando qui.

Lawrence Alma-Tadema

Nome Lourens Alma Tadema (Tadema è il cognome patronimico – Alma, che è il suo secondo nome, lo aggiunge lui come se fosse un cognome per arrivare prima nell’elenco dei cataloghi d’arte, furbone!) Per Gli Amici Lawrence (all’inglese). Il critico Ruskin (quello che rese famosi i Preraffaelliti che resero famose le sue corna 🙂 ) disse di lui che era il peggiore pittore in circolazione. Gabriele D’Annunzio era un suo fan sfegatato. Sui Socials @l.alma-tadema
Nato a Dronryp, paesino in Frisia (Paesi Bassi)
Nato/Morto 8 gennaio 1836 – morto alle terme tedesche di Wiesbaden. Ci era andato per rimediare all’ulcera, ma muore lì a 76 anni. Stimato in vita, soprattutto a Londra, ma dopo la morte cadde nel dimenticatoio fino agli Anni Sessanta.
Segno Zodiacale Capricorno
Stato Sociale Nato terzogenito di un secondo matrimonio di un notaio. Suo padre muore quando lui ha due anni. La mamma alleva da sola i suoi figli e quelli del primo matrimonio, in tutto cinque (e paga anche il maestro di disegno per Lourens, anche se se lo immaginava notaio; lo asseconda perché soffriva di tubercolosi e pensavano non sarebbe diventato adulto). Tuttavia, studia Belle Arti ad Anversa, ottenendo numerosi premi e cominciando ad amare la pittura a tema storico. Diventa grande, si sposa, mette su famiglia ma, dopo la diagnosi di una malattia inspiegabile e il lutto della moglie si trasferisce a Londra con tutta la famiglia, dove ottiene una speciale cittadinanza inglese.
Stato Civile Sposa Marie Pauline lo stesso anno della morte della madre, nel 1863. Era la figlia di un giornalista francese che lavorava in Belgio. Ebbero un figlio maschio, morto bambino di vaiolo, e due figlie femmine che rimasero nubili (una una poetessa e l’altra una pittrice). Andarono in Italia in luna di miele, dove lui si innamorò della Roma Antica. Sei anni dopo Pauline muore dopo una lunga malattia a soli 32 anni. Per quattro mesi, Lawrence non dipinge, ma la sua cara sorella Atje lo aiuta con i figli e con sé stesso. A Londra conosce la giovane Laura, una sua alunna di disegno. Il padre di lei si oppone varie volte al matrimonio (che Lawrence voleva!) per via dell’ingente differenza di età – happy ending: si sposano nel 1871. Fu un periodo felicissimo, sanissimo e molto produttivo, fino alla morte di lei nel 1909.

Periodo Artistico Il Periodo storico è l’Epoca Vittoriana Inglese, ma Alma Tadema è difficile da classificare. Quando vedi un dipinto così dici “è un Alma Tadema o simile”. Si inserisce nel filone estetico della ricerca del bello nell’Antichità, non senza le stravaganze intellettuali degli ottocenteschi inglesi. Ma c’è anche della denuncia sociale nei suoi nudi vestiti di poesia, verso la cultura vittoriana troppo bigotta specie sessualmente. Le sue opere trasudano sesso. Si può dire che sia Neoclassico, ma in un modo vezzoso. Tadema è un tipo vizioso, ma non si direbbe…
Stile La sua tavolozza e la sua pennellata larga sono ispirate dai Preraffaelliti, anche se la scelta delle cromie è molto mediterranea. Dipingeva in una stanza molto illuminata, perchè voleva ricreare la luce mediterranea a Londra. Nella ricerca della giusta texture è meticoloso, così come nei dettagli (lo riprende dai suoi studi dei Fiamminghi in Belgio). La ricerca va verso delle scene monumentali che intrappolano la magia di un semplice gesto, come la statuaria ellenistica.
Temi Soggetti ispirati all’Antichità classica e al lusso decadente, si può dire che è il mondo che piaceva a Oscar Wilde o al nostro già citato D’Annunzio. Amava, più che Roma, Pompei. Perché Roma ha la monumentalità, la Storia, ma Pompei conserva i segreti della vita privata (è un discorso affrontato anche da Manzoni nei Promessi Sposi). In effetti, il clima di Tadema è sempre fumosamente nostalgico, triste e poetico. Inoltre, il pittore si divertiva a giocare con le fonti, prendendo un po’ di qua e un po di là, con libere manipolazioni. In questo ci somigliamo 🙂

Lo charme, diceva Albert Camus, è un modo di ottenere in risposta un sì senza aver formulato nessuna chiara domanda.

*Canzone Assegnata – “Seta” di Elisa (2022)

Elenco delle Opere nel Video

(*in ordine cronologico e non di comparsa nel video)

Morte del figlio primogenito del Faraone


Death of The Pharoah’s Firstborn Son – 1872 – 77×124 cm – Rijksmuseum di Amsterdam

Fu l’opera dell’anno per il Salon de Paris. Fu realizzata per un collezionista olandese che lasciò scritto in testamento che almeno un pezzo della sua collezione rimanesse in patria, ecco il perché della collocazione prestigiosa. La scena è presa dall’Esodo, ma non narra un episodio di gloria bensì il dolore del Faraone, immobile, a causa della vendetta divina, in modo silenzioso e non patetico. Da notare la madre, che cerca di riportare invano alla vita il figlio tramite la disperazione e l’amuleto, inutile, sul petto del ragazzo.

Saffo e Alceo

Sappho and Alcaeus – 1881 – 66×122 cm – Walters Art di Baltimora

Il poeta greco Alceo intona i suoi versi accompagnandosi con la cetra. La poetessa Saffo, accompagnata da amiche, lo ascolta rapita. I nomi delle amiche sono incisi sui gradini del teatro, simile a quello di Dioniso. Alceo amava Saffo e scriveva poesie amoroso-erotiche. Lui per un mondo maschio alfa e lei per un mondo femmina en rose, ma – dice Tadema – a una certa ci si incontra sempre. L’Amore è una poesia bellissima!

Una lettura da Omero

A Reading from Homer – 1885 – 92×184 cm – Philadelphia Art Museum

Viene realizzato per un banchiere americano molto interessato dall’arte di Alma Tadema, che voleva un Platone ma il pittore non trovava pace, allora gli realizza un Omero – che gli varrà l’aggettivo “perfezione” dei critici. Un uomo sta declamando i versi di Omero ascoltato da persone vestite a festa: una donna in piedi con il mantello e una corona di fiori (potrebbe essere Atena, la dea vergine protettrice di Ulisse), una coppia semi sdraiata (il ragazzo tiene una citara e lei il tamburo, simboli di unione sessuale). Un ragazzo vestito di pelle di capra (come se fosse un satiro) lo ascolta rapito. Omero poteva essere una lettura scabrosa in epoca vittoriana.

Le donne di Amfissa

The Women of Amphissa – 1887 – 121×182 cm – Clark Art Institute di Williamstown

Gli valse una medaglia al Salon di Parigi. Sono le baccanti, le ancelle di Dioniso (delle vestali non-vergini) al momento del risveglio dopo una notte di festa ed eccessi. Alcune donne del popolo le aiutano, altre rimangono rigide in disparte. Mentre loro si risvegliano, le donne sono già pronte per fare la spesa al mercato. Un solo uomo, molto sinistro, le spia celato in una zona d’ombra. Uno spaccato della società bigotta.

(*)Le Rose di Eliogabalo

The Roses of Heliogabalus -1888 – 132×213 cm – collezione privata

Considerato il suo capolavoro. La composizione è molto inerente alle proporzioni auree. Eliogabalo è l’imperatore romano debosciato che fece morire i suoi commensali soffocandoli per sbaglio con una pioggia di petali di rosa dal soffitto. Anche qui c’è un chiaro riferimento a Dioniso e alla suonatrice di doppio flauto sullo sfondo (alludente a quella pratica là, che non si fa secondo la Regina Vittoria!). Infatti, coloro che sono “al banchetto di Dioniso” guardano divertiti quelli che si ricoprono troppo “di rose” e rimangono soffocati; un uomo e una donna, sembrano riemergere per ricongiungersi (se guardate i colori, sono speculari).

Rivali inconsapevoli

Unconscious Rivals – 1893 – 45×63 cm – Bristol City Museum

Ci sono due donne in attesa di due stessi amanti. Quella in piedi sembra quasi annoiata. L’altra in angoscia. I rivali inconsapevoli sono cuore e mente. Inoltre, c’è una statua di Cupido che prova la maschera di Sileno, il “padre” di Dioniso (un vecchio ubriacone e maialone). La solita domanda: si dà al primo appuntamento o al settimo? Meglio solo sesso o solo amore?

Primavera

Spring – 1894 – 178×80 – Getty Museum di Los Angeles

Fu realizzato per un banchiere e fu molto apprezzato e il più riprodotto. Rappresenta la processione durante un giorno di festa. Sullo stendardo si leggono dei versi dedicati a Priapo, legato ai culti orgiastici e dionisiaci (e noto per il suo lungo p***). Una delle statue in processione è un satiro, inoltre. La decorazione unisce vari siti dell’Italia antica. Si ispira alla festa vittoriana del Calendimaggio, quando i bambini raccoglievano fiori, ma gli dà una connotazione più da festività romana per la fertilità (tipo per Cerere). I fiori sono molto cromaticamente intensi, ma non hanno allusioni simboliche. Qui in Alta Lombardia esiste una festa simile: il Ciamà l’Erba, il richiamare l’erba tramite campanacci a marzo.

La cognizione del Successo

A Coign of Vantage (in inglese vuol dire punto di vista privilegiato)- 1895 -64×44 cm – collezione privata
Colpisce la statua della leonessa (e non il leone) nera vista da dietro, maestosa perché non si mostra, ecco chi ha la posizione privilegiata – la Donna. L’onice proteggeva in battaglia in epoca romana (dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna). Sembrano le Tre Grazie nella tipica iconografia “sì/no/forse” alla risposta “me la dai?”.

I Preferiti d’Argento

Silver Favourites – 1903 – 69×42 cm – Manchester Art Gallery
Si ispira a una poesia di Wordsworth, che si interroga su perché ammiriamo dei pesci se sono costretti alla vita in cattività. Le donne che ammiriamo nei dipinti di Tadema sono indolenti e annoiate, intrappolate sulla tela, ma le troviamo belle. Così, come le donne troppo pudiche intrappolate nell’etica vittoriana.

Non chiedermi di più

Ask me no more -1906 – 79×114 cm – collezione privata
Due personaggi di Ovidio: Tisbe e Piramo. Si amavano, ma le famiglie non volevano allora si parlavano attraverso le pareti. Lei durante la finale fuga d’amore viene quasi uccisa da una leonessa. Lui si suicida temendola morta e lei si uccide davvero con la spada di lui (Sì, Shakespeare ha copiato!). In questa tela Tadema non arriva a rappresentare la morte, ma denuncia l’impossibilità amorosa per via della moralità sociale (come era successo a lui con Laura). Essere bigotti porta solo alla tragedia!

L’abitudine preferita

A Favourite Custom – 1909 – 66x 45 cm – Tate Britain di Londra
Una scena alle terme di Pompei, nel Frigidarium dove due giovani donne giocano nella vasca.Tadema adorava gli scavi di Pompei e le storie di quella gente. I Romani hanno trasformato l’esigenza igienica in piacere dei sensi, perciò le terme sono l’usanza preferita di Tadema. Quindi, per lui il sesso non va visto solo come procreazione, è gioco. E la sua usanza preferita è quel gioco.

Miss Raincoat

*Ho messo anche i titoli in originale, perché secondo me alcuni in traduzione hanno perso loquacità 😦

About Growin’ Up

“Le Tre Età dell’Uomo” di Tiziano (ca. 1512 – National Gallery di Edimburgo)

Sono intollerante al cacao e a tutto ciò che contiene glutammina di sodio. Però c’è un’altra cosa che, alla pari, mi costringe a restare nella stanza meno nobile del mio appartamento: quelli che, alla mia età (parte in sottofondo la canzone di Tiziano Ferro con la sirena della Finanza d’accompagno), litigano ancora con i genitori come se fossero appena entrati nella pubertà. Quelli che imputano a mamma e papà le colpe dei loro problemi irrisolti o che non ammettono semplicemente che, anche solo per il divario generazionale, i punti di vista e i pareri possono non collimare – e si può non farne un dramma esistenziale. Sei grande, metti in spalla la tua bisacca e percorri la tua strada (tanto, poi, in carcere ci vai tu!).

A un certo punto della vita, in modo totalmente naturale ma non sempre indolore, ti accorgi che anche i genitori sono esseri umani e, in quanto tali, sono fallibili. Così, smetterai di fare pagare loro tutti gli errori con gli interessi. Ma non solo. Ti accorgi che quando si ammalano li devi curare tu, scacciando via il pensiero nero pece, quello di quel giorno in cui dovrai fare a meno della loro insostituibilità. Infondo, fare il genitore (soprattutto a figli irriducibili tipo me) è il mestiere più difficile del mondo, spesso scomodo e privo di istruzioni. Fare i genitori è guidare alla cieca. Certo, l’errore è sempre dietro l’angolo. Però, chi ti vuole bene più di loro? Chi si butterebbe da una finestra per te? Vabbé…

Io le armi le ho deposte attorno ai vent’anni. Ho cercato di portare avanti i loro insegnamenti, ad essere sempre gentile ed educata. Qualche volta l’ho pure presa in quel posto solo per essere stata una brava persona. Ma ho preso anche le mie scelte lavorative, amorose, sociali ed economiche con consapevolezza e responsabilità propria. E nonostante le mie follie loro hanno continuato a sperare soltanto che io fossi felice. Sanno che certe volte mi sono fatta molto male. Ma va così quando si incomincia a camminare da soli…

La mia famiglia è stata tendenzialmente segnata da tanti lutti precoci e questo è il motivo per il quale sembriamo tutti un po’ strappati. Sarebbe stato molto più semplice dire “non faccio questa tale cosa perché il lutto mi ha segnata”. Il nero è un colore che dona a tutti, concordo. Però so che ho fatto o iniziato a fare tante cose nei miei trentadue anni nell’idea di dover smuovere il destino, di far solletico alla vita così avrebbe iniziato a ridere. La morte degli altri non è mai stata per me una battuta d’arresto. Insomma, se non sappiamo nemmeno qual è la nostra data di scadenza, non ha senso marcire prima del tempo!

Il giorno dopo del funerale di Max avevo un esame importante, quello che alla fine ti fanno il quadretto da appiccicare in salotto. Avremmo dovuto sposarci a breve e mi aveva fatto un regalo per festeggiare il doppio colore di confetti. Lo trovai mentre toglievo di fretta i miei vestiti dal nostro armadio perché, essendo una sorpresa, l’aveva nascosto. Era un viaggio.

Era fine novembre e per l’Immacolata saremmo stati insieme per una crociera Bergen – Tromsø, in Norvegia. Decisi di partire lo stesso. Alessandro, il mio migliore amico, si propose di accompagnarmi e io – con la mia sedicente cafonaggine – gli feci notare che quello era un viaggio di coppia. Nessuno era d’accordo con la mia partenza. Mangiavo a forza, dormivo poco e avevo qualche problemino con i mostri sotto il letto, che mi accompagnavano anche durante la giornata.

Telefonai all’Agenzia per dire che il viaggio per due sarebbe diventato per uno. La voce femminile dall’altra parte della cornetta mi disse “A meno che il secondo viaggiatore non sia morto, non è previsto il rimborso” e rise. Non risposi e salutai cordialmente. Mi calmai, perché non era colpa degli altri se mi era successa una tragedia al limite dell’incredibile, e scrissi un’email nella quale spiegai la situazione. Concordai di tramutare la parte di rimborso in un’ escursione con le slitte con i cagnoloni durante la quale ho visto l’Aurora Boreale.

Penso sia stato il viaggio più bello della mia vita. Ho conosciuto tantissime persone ognuna con la sua storia, perché avevo bisogno anche io di parlare della mia storia con dei perfetti sconosciuti. Purtroppo, chi mi voleva bene era troppo coinvolto, al punto da sentire suo il mio dolore e questo mi faceva stare male il doppio. So che i miei amici e la mia famiglia sono stati a lungo preoccupati per me. Ma dovevo farlo ed è stato quello il momento il cui sono diventata grande e mamma e papà hanno capito che potevo badare al mio equilibrio da sola.

Evviva i funamboli! I clown mi hanno sempre terrorizzata!

Miss Raincoat

Elias Canetti “La Lingua Salvata”

Io cercai di oppormi con ogni mezzo al trasferimento, ma lei non volle sentir ragioni e mi portò via. Il paradiso zurighese era finito, finiti gli unici anni di perfetta felicità. Forse se lei non mi avesse strappato da lì avrei continuato ad essere felice. Ma è anche vero che venni a conoscenza di altre cose, diverse da quelle che sapevo in paradiso. E’ vero che io, come il primo uomo, nacqui veramente alla vita con la cacciata dal paradiso.

Oggi.

Stamattina ho avuto l’opportunità di fare molte cose che considero scontate. Sono andata in cima a Morbegno, giusto per farmi un selfie per metterlo su IG e bearmi delle mie occhiaie da insonnia. Non mi ero nemmeno accorta che indossavo una canottiera un po’ troppo scollacciata. Sono andata a lavorare, un lavoro che mi piace. Ho mostrato il mio certificato verde, ormai mi ci sto abituando. Ho riso con il mio capo di un no vax che sosteneva su Facebook che le donne con due dosi di vaccino inoculato avranno le mestruazioni cinque volte al mese. Mi sono preoccupata, giustamente, perché febbraio ha pochi giorni… Ecco, a questo ho pensato. C’è chi grida alla dittatura. C’è chi si paragona agli ebrei deportati, ma i sopravvissuti all’olocausto, con pacatezza, hanno fatto notare che il numeretto tatuato non serviva per andare al bar (dove sono andata, anche se sono nubile, con un mio amico e ho potuto scegliere se sedermi dentro o fuori). Io, per esempio, ho un tatuaggio in un posto più o meno disgraziato e lo posso mostrare quando e a chi voglio. Ho scelto di farmelo – io in uno studio professionale, ma altri se lo sono fatti dal proprio cuggggino che ha pure un elettrauto e, per arrotondare, fa pure il ginecologo. E poi, pensiamoci, viviamo in un posto dove ancora se ne può parlare. Di fatto, ci stiamo dividendo tra chi è favorevole e chi è contrario al vaccino. Al vaccino durante una pandemia. Per dire, dopo la peste manzoniana la popolazione si era ridotta di più della metà. Io farei di tutto pur di riprendermi il mio futuro e – sorpresa – non mi sento uno zombie schiavo del sistema. Ma noi viviamo in Occidente e diamo tutto per dovuto. La libertà. Ce ne gonfiamo la bocca, ma che ne sappiamo noi, noi che con la nostra bocca possiamo farci di tutto?

In tanti pensano che il problema delle donne afghane sia il burqa. In realtà, è un modo di pensare la donna “un mezzo attraverso il quale” a fare paura. Fa paura dover stare zitte e far finta di non esistere e, in molti casi, rimpiangere di essere venute al mondo. E non è un problema di religione, ma di usare la Fede come una bandiera in maniera ignorante. Tipo come chi si informa sui social, che prendono lontanamente spunto da studi scientifici, e pretende di aver ragione a priori, senza nemmeno sentirsi opinabile.

Ora, una ragazza afghana nata nel 2001 non ne sa nulla della censura talebana. Come dicevo, il burqa della nonna è ancora bello stirato nell’armadio. Questa ragazza non sa niente dagli obblighi inverosimili che gli uomini hanno imposto alle donne. Dovrà stare sempre in casa e potrà uscire solo se accompagnata dal suo tutore maschio (il padre o il marito, sposato in giovane età) dal quale dovrà avere accordato il permesso per fare qualunque cosa. Gli altri uomini non le potranno rivolgere la parola; lei invece, non potrà mai avere contatti con altri uomini, nemmeno visivi. Ovviamente, non può divorziare – lo può fare solo suo marito se lei non può avere figli. Sarà molto facile che verrà ingiustamente accusata e giustiziata per adulterio. Figuriamoci, poi, se potrà amare chi vuole… Oltre al burqa non potrà truccarsi, mettere lo smalto o indossare gioielli. Non potrà più lavorare o studiare o praticare sport. Non potrà avere documenti o la patente (a dire il vero, nemmeno la bicicletta). Addirittura, non potrà più ridere o indossare scarpe che fanno rumore. La pena per la trasgressione va dalla fustigazione alla lapidazione, chiaramente in pubblico come avveniva alla berlina. Come streghe. Ma la pena maggiore sarà vivere in una società talmente patriarcale che la sua vita si risolverà chiusa dentro le case dai vetri oscurati comandate dalla presenza asfissiante di uomini convinti della loro fallocrazia. Piuttosto, si lascerà morire o si suiciderà.

La situazione è drammatica, se non tragica. Non siamo tornati solo indietro di vent’anni, ma al Medioevo. Noi, intanto, sicuri di non poter perdere mai nessun diritto acquisito, continuiamo ad andare in piazza a manifestare per l’obbligo di green pass al chiuso. Tanto, Kabul è lontana…

* Kabul di notte

Miss Raincoat

Antonio Gramsci, politico

“La storia insegna ma non ha scolari”

“L’Aurora” di William Adolphe Bouguereau

William Adolphe Bouguereau dipinge questo olio su tela dopo avere attraversato terribili anni di lutto (ben descritti in “Il Primo Lutto” del 1893). Nel 1877 aveva, infatti, perso moglie e figli e nel 1881 si apprestava a dipingere quest’opera, in cui prevalgono la sua tecnica talmente fine da sembrare una fotografia e le sue inconfondibili pennellate talmente lisce da sembrare di marmo.

“Aurora”

Negli stessi anni, il modo di intendere la pittura, il colore, l’idea di natura e di bellezza stavano cambiando. Gli Impressionisti e l’Avanguardia stava prendendo sempre più parte alla scena dei Salon espositivi. Eppure, lui, imperterrito, rimaneva fermo nella sua tecnica accademica. Tanti lo accusarono di essere vecchio e poco originale. Lui faceva spallucce, si complimentava con gli altri colleghi e rimaneva sicuro che il suo modo di vedere era solo suo, sapeva che era soltanto una questione di punti di vista. Non smise mai di dipingere incessantemente.

Eos/Aurora, vestita solo di luce, costituiva un escamotage per dipingere il nudo senza risentire della censura. Il nudo, in quegli anni in cui la Borghesia era il ceto che poteva pagare le opere d’arte, andava di gran moda. Ai Borghesi interessava la più sudicia componente erotica del nudo, è vero – ma non volevano risultare immorali. In effetti, la nostra protagonista incarna l’ideale di bellezza di quell’epoca: impalpabili fanciulle vergini con il seno abbastanza piccolo, pelle diafana e completamente glabra. Questa era un’arte per soli uomini. Uomini alla ricerca dell’innocenza perduta, della donna vergine pronta solo per loro (anche Oscar Wilde canzonava i maschi per il loro sciocco desiderio di essere i primi e non gli ultimi) . Uomini che volevano dei nudi con le gambe accavallate, perché guai a pronunciare ad alta voce il nome del frutto del peccato! Uomini che si scandalizzavano davanti all’Olympia di Manet, perché era esplicitamente una prostituta, ma che sbavavano davanti alle dee di Bouguereau.

Perché, infondo, è vero che Bouguereau si piega ai giochetti del marketing artistico, però lo fa suo. Sarebbero stati dei nudi indecenti se lui non li avesse sublimati. Le sue dee svestite sono monumentali. Lui, a suo modo, porta grande riverenza al corpo femminile. Lo spoglia con grazia. Lo mostra seducente, fecondo e, soprattutto, inneggia la donna nella sua inconsapevole bellezza. Tu pensi di piacermi perché sei negli standard e io invece ti sto guardando altro… La delicatezza sinuosa dei corpi di questo artista non è mai volgare o sfrontata, in effetti. Non vuole scandalo, semplicemente dire la parola “vagina” senza essere guardato come un depravato. Vuole dire che la vagina esiste ed è una cosa che può piacere (assai).

L’innocenza, che cosa scema da cercare! Chissà quante volte l’avrà pensato bevendo una birra con i suoi committenti. L’avrà pensato anche nel 1893, mentre dipingeva “L’Innocenza“. Lui l’aveva persa con la cacciata dal Paradiso, quando gli era stata tolta la facoltà di essere marito e padre. Lui l’aveva persa con la disperazione, con l’incapacità di reagire davanti al dolore. In questo quadro, una Madonna vestita di bianco stringe al cuore un neonato che dovrà sacrificare. La schiavitù ha più a che vedere con una morsa al cuore che con le catene ai piedi. Liberi. Ma da cosa?

“Il Primo Lutto”
“L’Innocenza”

Eos, la dea dell’Aurora. Chiese a Zeus che suo marito non morisse mai, ma si dimenticò di chiedere per lui la giovinezza. Lei, giovane ed eterna, fece il grande errore di passare una notte bollente con l’aitante Ares, già amante della volubile Afrodite e da lei fu condannata ad avere una tale insaziabile sete di passione che ogni giorno doveva innamorarsi di uno sporco mortale diverso. Proprio lei, che ogni mattina scioglieva il nastro candido che chiudeva la porta che separava il buio dalla luce. Ogni mattina piangeva lacrime di rugiada sulla Terra, perché lei, per quanto conoscesse le gioie dell’Olimpo, era una schiava.

❤ Miss Raincoat

“La Meditazione” di Francesco Hayez

Francesco Hayez lo conosciamo tutti per Il Bacio della Pinacoteca di Brera. Il dolcissimo addio tra due innamorati che cela, però, l’allegoria del soldato patriota che parte in guerra per la sua Nazione, con la speranza di vincere e di tornare. Un messaggio politico criptato per non farlo sapere ai piani superiori…

Il Romanticismo Italiano può essere sintetizzato con un solo aggettivo, struggente. Un’arte che esplicita un dolore continuo e logorante e così diversa dalle declinazioni romantiche del resto dell’Europa che si interrogava sull’identità nazionale, siccome l’Italia, come nazione, nemmeno esisteva. Bisognava andare a cavarsela fuori con le unghie, ancora.

In questo periodo, quelli che chiamiamo patrioti si uniscono per cucire insieme i pezzetti che avrebbero formato l’Italia; i Francesi e gli Austriaci, padroni dei vari pezzetti, dovevano essere scacciati a calci. Non fu né facile né breve quello che sui libri di storia è etichettato come Moti Risorgimentali.

La Prima Guerra d’Indipendenza ha inizio con le Cinque Giornate di Milano, nel marzo 1848. I volontari si armano a favore del Regno di Sardegna contro l’Austria e perdono, sacrificandosi per la libertà. Il 1861 è ancora lontano…

Olio su tela- 1851-Galleria Arte Moderna di Verona-92,3 x 71,5 cm

Questo sguardo triste e fermo appartiene all’impersonificazione dell’Italia, una giovane madre con il seno pronto per allattare gli Italiani.

C’era stato un altro pittore, nel 1830, che aveva raffigurato una donna a seno scoperto, Delacroix con la sua Libertà che guida il popolo, la Madre Patria coraggiosa e nutrice. Ma Hayez, su questa figura fa cadere tutto il peso della disperazione all’indomani della sconfitta.

Il muro blu, il colore della malinconia, esalta l’incarnato pallido e sofferente della donna; il sapiente gioco di luce esalta la purezza della pelle nuda, dei capelli corvini, della veste bianca… L’infelicità, in questo modo, è vissuta in empatia dal lettore dell’opera. Hayez non cercava compassione, voleva incitare alla reazione.

L’Italia è in lutto, è rammaricata e addolorata. Ha perso centinaia di figli senza liberarsi dall’oppressione straniera. È una martire, stringe la croce come una Santa mutilata nel suo intimo, sulla quale sono incise le date delle Cinque Giornate di Milano. Il libro consumato che stringe, invece, è quello della Storia d’Italia – sciupata prima di poter nascere. Le scritte in rosso sembrano di sangue e quella sedia di cuoio su cui siede sembra essere quella di un supplizio. Verdi, nel Nabucco, ce la fa ascoltare nel Va’ Pensiero (“Oh mia patria, ‘sì bella e perduta”).

Quest’opera si doveva intitolare “L’Italia nel 1948”, ma l’etichetta venne cambiata in corsa per ovviare la censura austriaca. Il fascino di questo dipinto sta appunto nel conflitto tra messaggio politico nascosto e l’inquietudine esistenziale totalmente palese. Un monito asciutto e potente: ricordati con rispetto di chi, durante la battaglia, per avere quello che hai e ti sembra scontato, è morto. E meditazione vuol dire pensarci su a lungo, profondamente e con grande attenzione.

❤ Miss Raincoat

°* Letture Consigliate dall’Unicorno *°

  • “Hayez” di Fernando Mazzocca
  • “Uno per tutti, tutti per Hayez” di Stefano Zuffi (illustrato da Emanuele Zamponi) (lettura per bambini)
  • “Il volto dell’amore” di Flavio Caroli
  • “Risorgimento: un viaggio politico e sentimentale” di Arianna Arisi Rota
  • “Donne del Risorgimento: le eroine invisibili dell’Unità d’Italia” di Bruna Bertolo

“L’isola dei Morti” di Arnold Böcklin

How happy is the blameless vestal’s lot! | The world forgetting, by the world forgot. | Eternal sunshine of the spotless mind! | Each pray’r accepted, and each wish resign’d.  Alexander Pope in “Eloisa to Abelard”

L’isola dei morti è una roccia scura, all’interno della quale è stato scavato  un mausoleo. L’iconografia dei cipressi, legati al lutto, e la loro cromia verde-scuro esprimono il silenzio religioso dell’ambientazione.

Su uno specchio di acqua livido e immobile, come un lago di lacrime, si fa avanti un’imbarcazione, un traghetto di anime di chiara evocazione dantesca. L’isola è anche un luogo che si può raggiungere solo dopo aver navigato per mari ed è, quindi,  una speranza augurale per i nostri defunti.

L’anima trasportata è vestita di bianco, leggera e  finalmente distaccata dalle sofferenze della vita terrena. Anche la bara è bianca: la persona è andata via troppo presto… Durante gli anni della stesura dell’opera Böcklin aveva perso la figlia Maria (i cipressi richiamano anche Firenze, dove lei è sepolta): eppure riesce a trasformare il suo pianto in un’opera corale.

L’opera, di per sé, è realistica: non è che un paesaggio. L’isola potrebbe ispirarsi parimenti al Castello di Ischia, a Pontikonissi vicino a Corfù o all’Isola di San Giorgio in Montenegro. L’artista, del resto, fu un viaggiatore irrequieto innamorato dell’Italia; abitò a Roma, a Lerici e a Fiesole (dove morì).

Il pittore svizzero realizza una serie di cinque varianti dello stesso soggetto tra il 1880 e il 1886 – seguito dall’Isola dei Vivi del 1888, cambiando solo luce, colori e dettagli (qui la terza versione, che è la mia preferita). Il primo (il cui titolo era, inizialmente, “Un luogo tranquillo”) fu realizzato per il ricco committente e mecenate Alexander Günther, gli altri per la contessa Marie Berna, rimasta colpita dal dipinto (il quarto venne distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale; Hitler ha posseduto il terzo). L’opera, l’esempio per eccellenza del Simbolismo, venne presa come spunto da pittori metafisici o surrealisti come Dalì o De Chirico.

Il significato dell’opera è difficile da spiegare. Per quanto sia vero che parli di morte, lo fa senza citarla e senza interpretarla. 

Davanti a quest’opera ci è permesso pregare  così come siamo capaci. E davanti a quest’opera ci si pone, con estrema sincerità, la domanda arcaica del “dove andremo a finire?”

Fa pensare a quei giorni di silenzio carico di dolore dopo che una persona muore, però evoca anche serenità, l’auto-convinzione che esiste qualcosa al di là del velo. Böcklin riesce a riempire una tela con il vuoto incolmabile che lascia una persona quando muore. 

**  E come non pensare a te?**

❤ Miss Raincoat

 

Il Taj Mahal

Una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo” – R. Tagore

A me, al massimo hanno dedicato una canzone, comprese alcune di Marco Masini. E, bando ad anelli promettenti o perle fedifraghe, nulla può battere il Taj Mahal in quanto pegno d’amore.

Quando la preferita tra le sue mogli morì dando alla luce il quattordicesimo pargolo, l’imperatore Shah Jahan volle trasformare il suo dolore in opera d’arte. Il nome della donna, Mumtaz Mahal, significa Luce del Palazzo; forse, Taj era un vezzeggiativo, anche se si può tradurre anche con Corona. Suona singolare che il marito non le doni un’alcova principesca per il matrimonio ma una tomba maestosa, una degna sepoltura per la sua vita eterna. In questo modo, una struttura così materialmente e visivamente pesante diventa retoricamente leggera, come se per tornare a vivere serenamente Shah l’avesse dovuta lasciare andare, appunto perché l’amava molto. 

Per trasportare i vari tipi di materiali preziosi provenienti da tutta l’Asia con i quali venne costruito il mausoleo (marmo bianco, diaspro, giada, cristallo, turchesi, lapislazzuli, zaffiri, corniola e arenaria rossa, soprattutto) vennero impiegati migliaia di buoi ed elefanti. Le impalcature, invece che con il tradizionale bambù, vennero innalzate con mattoni; quando l’opera fu terminata, si stimò che la smantellatura sarebbe durata almeno cinque anni, allora l’imperatore decise di regalare i mattoni al popolo che demolì il muro in una sola notte.

L’opera dimostra una ricerca ossessiva della geometria, visibile anche nel gioco di colori che rende diversa la facciata in diversi momenti del giorno (bianca, rosa oppure oro). L’imperatore, che desiderava un’architettura senza eguali (e lo è tuttora!), torturò gli artisti perché non ne rivelassero il segreto costruttivo. L’ironia della sorte, però, è che proprio la tomba dello Shah Jahan ha rovinato la simmetria dell’edificio.

32 milioni di rupie per ritornare a respirare: fu questo il “costo” del lutto di Shah per la sua Mumtaz.

❤ Miss Raincoat

Sito Taj Mahal