Oggi.

Stamattina ho avuto l’opportunità di fare molte cose che considero scontate. Sono andata in cima a Morbegno, giusto per farmi un selfie per metterlo su IG e bearmi delle mie occhiaie da insonnia. Non mi ero nemmeno accorta che indossavo una canottiera un po’ troppo scollacciata. Sono andata a lavorare, un lavoro che mi piace. Ho mostrato il mio certificato verde, ormai mi ci sto abituando. Ho riso con il mio capo di un no vax che sosteneva su Facebook che le donne con due dosi di vaccino inoculato avranno le mestruazioni cinque volte al mese. Mi sono preoccupata, giustamente, perché febbraio ha pochi giorni… Ecco, a questo ho pensato. C’è chi grida alla dittatura. C’è chi si paragona agli ebrei deportati, ma i sopravvissuti all’olocausto, con pacatezza, hanno fatto notare che il numeretto tatuato non serviva per andare al bar (dove sono andata, anche se sono nubile, con un mio amico e ho potuto scegliere se sedermi dentro o fuori). Io, per esempio, ho un tatuaggio in un posto più o meno disgraziato e lo posso mostrare quando e a chi voglio. Ho scelto di farmelo – io in uno studio professionale, ma altri se lo sono fatti dal proprio cuggggino che ha pure un elettrauto e, per arrotondare, fa pure il ginecologo. E poi, pensiamoci, viviamo in un posto dove ancora se ne può parlare. Di fatto, ci stiamo dividendo tra chi è favorevole e chi è contrario al vaccino. Al vaccino durante una pandemia. Per dire, dopo la peste manzoniana la popolazione si era ridotta di più della metà. Io farei di tutto pur di riprendermi il mio futuro e – sorpresa – non mi sento uno zombie schiavo del sistema. Ma noi viviamo in Occidente e diamo tutto per dovuto. La libertà. Ce ne gonfiamo la bocca, ma che ne sappiamo noi, noi che con la nostra bocca possiamo farci di tutto?

In tanti pensano che il problema delle donne afghane sia il burqa. In realtà, è un modo di pensare la donna “un mezzo attraverso il quale” a fare paura. Fa paura dover stare zitte e far finta di non esistere e, in molti casi, rimpiangere di essere venute al mondo. E non è un problema di religione, ma di usare la Fede come una bandiera in maniera ignorante. Tipo come chi si informa sui social, che prendono lontanamente spunto da studi scientifici, e pretende di aver ragione a priori, senza nemmeno sentirsi opinabile.

Ora, una ragazza afghana nata nel 2001 non ne sa nulla della censura talebana. Come dicevo, il burqa della nonna è ancora bello stirato nell’armadio. Questa ragazza non sa niente dagli obblighi inverosimili che gli uomini hanno imposto alle donne. Dovrà stare sempre in casa e potrà uscire solo se accompagnata dal suo tutore maschio (il padre o il marito, sposato in giovane età) dal quale dovrà avere accordato il permesso per fare qualunque cosa. Gli altri uomini non le potranno rivolgere la parola; lei invece, non potrà mai avere contatti con altri uomini, nemmeno visivi. Ovviamente, non può divorziare – lo può fare solo suo marito se lei non può avere figli. Sarà molto facile che verrà ingiustamente accusata e giustiziata per adulterio. Figuriamoci, poi, se potrà amare chi vuole… Oltre al burqa non potrà truccarsi, mettere lo smalto o indossare gioielli. Non potrà più lavorare o studiare o praticare sport. Non potrà avere documenti o la patente (a dire il vero, nemmeno la bicicletta). Addirittura, non potrà più ridere o indossare scarpe che fanno rumore. La pena per la trasgressione va dalla fustigazione alla lapidazione, chiaramente in pubblico come avveniva alla berlina. Come streghe. Ma la pena maggiore sarà vivere in una società talmente patriarcale che la sua vita si risolverà chiusa dentro le case dai vetri oscurati comandate dalla presenza asfissiante di uomini convinti della loro fallocrazia. Piuttosto, si lascerà morire o si suiciderà.

La situazione è drammatica, se non tragica. Non siamo tornati solo indietro di vent’anni, ma al Medioevo. Noi, intanto, sicuri di non poter perdere mai nessun diritto acquisito, continuiamo ad andare in piazza a manifestare per l’obbligo di green pass al chiuso. Tanto, Kabul è lontana…

* Kabul di notte

Miss Raincoat

Antonio Gramsci, politico

“La storia insegna ma non ha scolari”
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“Ila e le Ninfe” di John William Waterhouse

All’inizio del 2018, questa enorme tela del 1896 ha destato scandalo, anche se non siamo più in Età Vittoriana. Perché? La MAG (acronimo di Manchester Art Gallery) ha deciso di lasciare uno spazio vuoto al suo posto, per unirsi alla campagna femminista #metoo. Lo staff del Museo voleva soltanto creare un clima di dibattito sul presunto sotto-tema di questa opera, ossia l’ostentazione del corpo femminile come oggetto sessuale. L’idea ha fatto indignare parecchi visitatori che, tramite post sui social e post-it fisici, hanno fatto durare l’iniziativa non più di una settimana. Per molte donne, addirittura, è stata vista come una degenerazione del concetto di femminismo.

Che cosa dovrei pensare guardando quest’opera? Che amo l’Arte? Che amo la pornografia? Che sono complice di uno stupro?

Il mito di Ila e le Ninfe affascinò, per la sua tragicità, vari artisti ottocenteschi di cultura romantica.

Le Naiadi, le ninfe delle acque correnti, si innamorano istantaneamente di Ila, scudiero ed amante di Eracle e quando lo videro chinarsi per bere, lo trascinarono nelle profondità della loro fonte. Di lui si perse ogni traccia: Ila è un ragazzo irretito da un gruppo di ragazze.

La composizione è densa di particolari, soprattutto nelle ninfe attorniate, non a caso, da ninfee. Esse sono sette (il numero di Nettuno, Dio dei Mari). L’acqua è limpida, ma l’alabastro della loro pelle nuda crea un’atmosfera buia e sinistra (e l’inquadratura non fa vedere nemmeno il cielo). Ovviamente i capelli rossi sono simbolo di peccato e seduzione. Nei visi quasi tutti uguali deduciamo che il pittore ha copiato non più di due modelle. Non ci viene fatta vedere chiaramente l’espressione di Ila, però le ninfe sono tutte concentrate, quasi invasate, su di lui.

Waterhouse imitò lo stile dei Preraffaelliti un decennio dopo lo scioglimento del gruppo. I suoi soggetti, comunque, si dividono in quelli di ispirazione classica (come questo) e in quelli di ispirazione arturiana (soprattutto shakespeariani).

Quello che penso io è che la censura non può creare un dibattito. E poi, scusate, ma in questo caso non è Ila – l’uomo mediterraneo vagamente belloccio – ad essere la vittima? Io penso che la violenza possa essere unisex e che debba sempre essere severamente condannata. Detto questo, credo che il povero Waterhouse – come tutti i suoi colleghi Preraffaelliti – amasse e temesse le donne e che, appunto, le venerasse in una maniera quasi reverenziale. 

In realtà questa è un’opera che parla del grande potere delle donne. Di poter aver potere con la sensualità, ossia conservando la nostra femminilità (è questo che ci contraddistingue dagli uomini!!!). Non si tratta di identificare le donne come oggetti sessuali – o con la solita metonimia “bella f***” – bensì di metterle al centro del mondo, lì dove è stato portato Ila e lì dove tutto ha inizio (e fine).

❤ Miss Raincoat

Bella come una mattina d’acqua cristallina/ Come una finestra che mi illumina il cuscino/ Calda come il pane/ Ombra sotto un pino/ Mentre t’allontani stai con me forever – Jovanotti