Ora et Labora – Prega e Lavora
“Ora et labora” è una locuzione latina, generalmente associata alla regola benedettina. La vita nel monastero insegnava la pazienza di una vita scandita equilibratamente tra momenti di preghiera individuale e lavoro collettivo, principalmente atto a dissodare terreni incolti.
Dopo aver seccato con le sue mani il primogenito che gli aveva dato solo scocciature e si era anche chiavato sua moglie, Filippo il Prudente riuscì a far sgravare a una sua nipote asburgica un figlio savio da ben indirizzare, il secondo dei Filippi, il Pio, che fu il padre di Filippo il Grande, colui che firmò per esteso sulle tombe mai scavate del Sacro Macello di Valtellina.
Mediocre e insignificante, a dispetto del nome, fu un monarca miserabile con l’unica virtù della stupidità, la quale gli permetteva di preferire la caccia al buon governo. Nessuno sceglieva di andare in Guerra perché credeva in qualche sua filippica, ma perché in tempi di guerra l’unico modo di non morire di fame era effettivamente andare in guerra. In seguito, i mercenari tornavano a casa con il bottino giustificando le loro ammaccature, l’assenza, i figli illegittimi e ogni atrocità commessa con la fedeltà al Re – con il più spergiuri il più tu menti. Nel Giorno del Giudizio le
nostre colpe non saranno fatte pagare a nessun altro, anche quelle dei tempi di carestia in cui ci saremmo venduti pure Maria Vergine. Chi è diventato ricco, lo ha fatto a discapito di qualcun altro. Puoi raccontare bugie a chiunque, anche a te stesso, ma davanti a Dio devi essere onesto. Quando prego, io mi metto in ginocchio.
Filippo siglò il declino della monarchia spagnola. Un debole, un ragazzino individualista a capo di una corte debosciata, impassibile statua della dignità regale in pubblico e scanzonato amante di frivole attrici nel privato, rese una moda assistere alle tauromachie. O il torero mata, uccide, o il toro sbrana il torero. Mi è stato raccontato che l’animale viene aizzato tramite un drappo di colore rosso, così per il gusto di rendere tutto, anche la morte, un gioco. Ho conosciuto il Re di persona e le sue parole mi risuonano spesso tra tempia e tempia, in quei giorni di breva in cui l’emicrania mi spezza le membra in due.
In una Milano in cui i nobili erano per la maggioranza infrancesiti, si sarebbero aspettati di vedere al potere uno che, per lo meno, parlasse italiano. Invece no, è stato messo il Duca di Fèria, Gomez Suarez, con la pelle di pece come tutti quelli di Cordova, terra strappata dai cattolici ai musulmani. “Pagali” gli dissi. Le Tre Leghe avevano promulgato una legge che permetteva ai valtellinesi di abbracciare quella stupida eresia di quei villici che, a forza di inverni rigidi, sragionavano. A noi la Valtellina ci serviva attaccata alla penisola, doveva essere il nostro passaggio gratuito verso l’Austria. Sapevamo che i nobili valtellinesi non vedevano l’ora di scacciare i dominatori stranieri che li avevano ridotti al lastrico: si sentivano i mezzadri dei loro mezzadri. Sapevamo che quell’arciprete troppo zelante se l’era andata a cercare e che il popolino se l’era presa a cuore. Allora decisi che Milano, finalmente, doveva fruttare. “Pagali, Gomez, è l’unico modo di aizzarli! Manca loro solo il denaro per esaudire il loro desiderio di incominciare la guerra al posto nostro!”. Prima lettera di San Paolo ai Corinzi: Fare la carità è la più grande delle Virtù. Così, nel cuore della notte, la notte più calda del luglio 1620, come macellai ne uccisero a centinaia e aprirono le danze al conflitto che ancora non aveva toccato la scacchiera italiana. Cattolici contro Protestanti, la Spagna o la Francia? Mi correggo, la Fede cieca in qualcosa di più Alto ci serviva per convincerci che, se il Mondo non ci bastava non era un peccato contro Iddio Onnipotente. Lo diceva anche mio nonno – o qualcosa del genere.
La Politica? Oh, no. I Mornico ne parlano e la frequentano da molto vicino, però non ne hanno mai avuto bisogno. Non stiamo con nessuno perché noi siamo già qualcuno. Non per i soldi, per la fama o qualche altra accozzaglia di becere cose terrene, ma perché non abbiamo eguali e perciò siamo il metro di tutti i paragoni. E solo Dio può pesare la nostra anima. Non a caso, i Mornico vengono chiamati in causa quando c’è da lavare via il sangue di cento e più cento anni di faide. Perché noi, i Mornico di Villa Monastero, siamo intoccabili.
Non siamo nati a Varenna, ma di Varenna conosciamo il marmo nero che si estrae nelle cave di Grumo con martello e scalpello e che vendiamo caro al pezzo. È molto richiesto perché il nero, in quanto non è bianco, affascina e dà subito all’occhio. Sotto al bianco puoi nascondere il nero e non viceversa e Varenna è così, non nasconde le sue macchie per scelta. Nata bianca, è finita per divertirsi ad essere nera e neanche il suo fiume color latte riuscirà a candeggiarla.
La Leliana, la nostra villa, detta Villa Monastero, è la più bella villa di Varenna dopo la Capoana. L’aveva acquistata mio padre Paolo, quando era diventato un monastero senza più suore. Io, tornato dalla guerra, l’ho trasformata in un giaciglio all’altezza della mia posizione in società e sulla sua loggia adagiata in mezzo al giardino rinomato per varietà di specie arboree, ospito gratuitamente le persone che mi stanno simpatiche, quelle che cercano di essere come me. Le ho dato il mio nome, Lelio. Di origine latina, significa sinistro oppure scherzoso – come più vi garba.
Tu sentiti piccolo ma fai vedere agli altri che sei grande, perché gli altri fiutano la paura. In natura il leone e l’aquila imperano non perché hanno particolari caratteristiche, ma perché il loro comportamento in relazione agli altri li fa predominare, uno sulla terra e l’altro in cielo.
Imperversava la peste. Dicono che Dio l’abbia mandata per ripulirci dai peccati, soprattutto per quelli che ci inducono a sentirci sempre tristi, a non credere nella Provvidenza. La chiamano la Morte Nera. Se ne ammala uno e ne muoiono due appresso. La porta l’opale, la pietra maledetta, la preferita delle donne che si fanno adornare di gioielli: quando un appestato la indossa, si illumina di fuoco ma al sopraggiungere della morte si spegne, quasi si scolorisce, come se il peccato che ti ha scurito il sangue ha finalmente smesso di tormentarti. Molti dei pochi rimasti in vita erano fuggiti in campagna o in montagna. Chi come me era rimasto nel borgo, viveva trincerato in casa, provviste permettendo. L’orrore si intensificava giorno dopo giorno. Da mesi non si celebravano più i riti funebri, tant’è che si seppellivano i morti nei giardini…
Ma non era la malattia che mi faceva paura. Quella, nel prenderti, ti avrebbe tolto il senno e in poco tempo ti avrebbe portato via senza che tu te ne accorgessi. Mi faceva ribrezzo il dilagare della povertà. La povertà chiama degrado. La gente, quando è povera, perde colore, bellezza e dignità. La gente povera ruba. Ruba a me perché posseggo quello che loro non hanno, ciò che non li farebbe morire di fame. Il settimo comandamento proibisce di arrecare danno al prossimo e ai suoi beni. I ladri marciranno all’Inferno.
Quindi, quando il mio mezzadro cominciò a dare segni di respiro corto e tosse, decisi di tenerlo nella mia casa, così da poter trattenere il suo cadavere e allontanare i ladri tramite il fetore. Lo sistemai comodo in un letto ad aspettare la sua ora, neanche fosse un mio congiunto. Dopo due settimane, ancora non si sentiva l’odore di morte e si scoprì che era vivo. Alla Leliana resuscitavano anche i morti, allora?
Pensavo così, ma quando la peste finì fu un lutto a rendermi mesto. Improvvisamente, morì mia nipote, la figlia di mia sorella. La piccola Livia si era sposata a Firenze con un tale che veniva dalle nostre parti ma gestiva affari lì. Ad aprile mi aveva scritto perché cercava una ragazza come dama. La voleva del Lago perché a Firenze non riusciva ad ambientarsi. Avrei chiesto aiuto agli Sfondrati, ma a settembre Livia morì improvvisamente. Lo seppi solo molto più tardi del funerale, poiché il marito mi avvisò solo a novembre. Mi raccontò mesto che era ammalata di tisi da tempo. Da tempo? Ma quali fandonie? Me l’avevano uccisa! Ormai era stata seppellita e quando una figlia si dona in moglie, non appartiene più alla sua famiglia. Non gli scrissi altro che accettavo la notizia anche se non poteva pensare di farmi fesso. Tanto con la sua coscienza era lui che ci doveva andare a letto.
Di mio figlio Alfonso diranno che avrà venduto sua figlia che portava il mio stesso nome per la pace di Varenna. Che gli fece sposare Matteo Stampa per mettere fine alle lotte intestine che stavano riducendo la popolazione a un livello di terrore molto più sottile rispetto a quello trascinato dalla peste.
La politica? Ancora con questa storia? Noi non ne abbiamo bisogno. La gloria appartiene agli dei e l’uomo non si può spingere oltre ai suoi limiti. Quante giovenche dovrai sacrificare ancora per smettere di avere paura della morte?
Stringo la cinghia di corda costellata di nodi attorno alla coscia. Il mio dolore non deve essere estremo, ma costante. La mia anima corrotta è innamorata di Dio. Dio mi chiede di purificarmi dai mie peccati laddove l’acqua non basta. Questo è il modo in cui la preghiera mi dà gioia. Quando il corpo è troppo pasciuto, allora diventa fragile. Presuntuoso nel benessere, diventa disperato davanti alle afflizioni. Domino la carne. Ciò ha risvegliato in me il desiderio di essere devoto. Dominando prepotentemente il corpo, sopporto la rassegnazione e prospero.
Ama gli uomini per quello che sono. Ora pro nobis peccatoribus, adesso e nell’ora della nostra morte – Amen.
❤ Miss Raincoat
©2024 Patrizia Rondinelli. Tutti i diritti sono riservati all’autore.
Quelli tra palco e realtà
Lelio Mornico è stato davvero un personaggio losco. A parte il cilicio, tutte le dichiarazioni presenti in questo episodio sono estrapolabili dalla sua corrispondenza, compresa la morte assurda di sua nipote o l’episodio del mezzadro. I Mornico, ricchi anche grazie al marmo nero, erano una sorta di influencers dei loro tempi. Filippo il Grande e il duca di Feria furono le “menti spagnole” del Sacro Macello di Valtellina.