“Il Caffé in Giardino” di Daniel Ridgway Knight

Giovedì scorso stavo scrollando a caso su Instagram e mi sono imbambolata per un’ora buona a farmi le storie su questa tela. Non riuscivo a capire perché mi sembrava così pop e familiare, poi ho capito (dai fiori)…

Collezione Privata

Daniel Ridgway Knight è un pittore collocabile tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nato il 15 marzo 1839 sotto il segno dei Pesci all’interno di una famiglia quacchera della borghesia provinciale della Pennsylvania (dove sarebbe nato anche l’iconico Maxfiled Parrish). Approda in Europa a Parigi dove studia pittura con Alexandre Cabanel. Ritornerà in patria come volontario nella Guerra di Secessione, si sposerà con una sua studentessa, una certa Rebecca, e poi tornerà in Francia, dove si stabilirà a Poissy nel 1872 (sulla Senna, a un’ora dalla ville – cittadina oggi conosciuta per lo stabilimento della Peugeot). Stringerà amicizia con Renoir, Sisley e Millet. Se del primo troviamo la vita e del secondo i paesaggi nella sua opera, di Millet troviamo un’analogia di contrasto: Knight raffigura la vita contadina, ma ne elude la denuncia sociale. Il nostro pittore non vuole rappresentarne la fatica, ma la felicità, poiché così come le altre classi sociali, anche i poveri , anzi i semplici, sanno essere felici. Quindi, si può dire che ci mette davanti i giardini di Monet animati dalle persone. Nel 1883 sceglie di andare a vivere a Rolleboise, ancora sulla Senna ma ancora più immerso nella vita di campagna, in una casa con un’ampia terrazza sul fiume.

In questa tela spicca tra tutti gli attori la modella con il foulard giallo. Si tratta di Maria, una ragazza che incontriamo spesso nei titoli dei dipinti di questo pittore, ritratta come una piccola principessa dei giardini. Questo mi fa venire in mente una filastrocca in inglese che fa “Mary quite contrary/ How does your garden grow?”. Quindi, la nostra Maria era tutt’altro che Santa e Vergine per il nostro Daniel e aveva un (giardino) segreto… Spesso, infatti, a differenza di questo dipinto, viene ritratta con i papaveri, simbolo del fare l’amore e non pensare – e, inoltre, fiore sacro a Demetra (dea delle messi e del raccolto). Il foulard giallo, invece, non lascia dubbio: è la gelosia (di fatto, il quarantenne Daniel era sposato e aveva un figlio di dieci anni). Notiamo anche che Maria ha un nome italiano come la bevanda che viene servita al tavolo. Probabilmente, faceva parte di quei contadini italiani che, nell’Ottocento, emigrarono per farsi sfruttare come contadini nelle campagne francesi…

La composizione è un intrico di simboli. Ricorrono le contrapposizioni di forme maschio/femmina (per esempio le ceste o la forchetta e il bicchiere) e del colore blu/rosso, sempre nello stesso significato. L’unione tra uomo e donna è amplificata da ciò che troviamo sul tavolo, la condivisione conviviale del cibo vista come lo spezzare il pane su un panno bianco, come a voler dire che Daniel ha rubato l’innocenza a Maria. Di fatto, lui impersonifica il vino e lei l’acqua. Ma è tutto per terra… Perché un pranzo succulento non può finire se non lasciando dei postumi.

Il cibo va anche a contrapporre poveri e ricchi. La zuppiera va a essere la sentimentalità semplice dei contadini; il caffé, invece, la bevanda alla moda della borghesia, cioè Daniel spiega che cosa Mary ha dato a lui e cosa lui ha dato a lei (Spiega anche a Millet che per capire una classe sociale può farci l’amore invece che politicheggiare, ahahah 🙂). Eppure, il peccare di felicità, ha causato un gran casino. Tutto per terra giace in disordine. Ai piedi del tavolo quasi inquisitorio, c’è una cesta con i panni sporchi blu, di un uomo. Madeleine, l’amica di Maria (probabilmente figlia del fattore che aveva accolto Maria), ha la cesta vicino a lei, come per dire “ho le prove, ti abbiamo scoperto tro** italiana!”. Julia, la sua sorellina sta guardando torva dentro la casa, la casa del pittore malandrino. E dalla casa esce Luis Aston, il figlio del pittore, con lo sguardo verso il basso e con in mano la bevanda che scotta, il caffè, con il panno bianco e rigato di rosso, ossia la disintegrazione dell’integrità di Maria, che indossa di rimando una gonna rossa. Ma lui non si fa vedere, manda il figlio…

Come sono andate le cose? La terrazza della casa è il teatro e le piante ne sono il coro. In soffitta c’è una finestrella blu aperta (probabilmente si incontravano lì, dove il camino rosso fuma, perché la stanza scotta e la finestra deve essere aperta poiché la relazione deve finire). Infatti, Rebecca ha scoperto tutto. Fuori dalla porta finestra, il talamo ufficiale, la moglie ha appeso un bouquet che sembra quasi la coda di un pavone o qualcosa legato a Giunone, la moglie di Zeus sempre inferocita dai tradimenti. Nell’aiuola in giardino c’è il cardo mariano (appunto ci ricorda il nome della protagonista) e la veronica, che però è straripata, sta uscendo dal giardino (è il simbolo dell’addio, Maria deve andarsene…). Maria se ne deve andare perché le rampicanti, che come dice la Berti si aggrappano indissolubilmente quando e come vogliono e non ci si può fare nulla, si sono intersecate a caso addosso alla casa, l’hanno infestata. Sono l’edera e il gelsomino, ossia la Passione e l’Amore, che sono arrivati fino a quella finestrella dove sono stati esposti il geranio e il papiro (follia e gioia). Sul terrazzo vengono esposte varie piante della macchia mediterranea, in ricordo all’Italia, come agave, alloro e l’assenzio (un amore talmente grande che si autodistrugge, come Apollo quando insegue Dafne e lei si trasforma in una pianta, come se l’amore vero portasse sempre con sé anche l’amaro della sciagura). In mezzo a queste piante c’è un vasetto giallo di gelosia e di geranei (stupidità della gelosia che fa solo danni). E, infine, delle begonie, poiché tutto sta cambiando e, infatti, sotto è rimasta solo un edera ben intrecciata (fedeltà alla moglie). Se guardiamo meglio, la prima finestra è sbarrata (la relazione extraconiugale chiusa), la seconda porta è aperta (la famiglia e la moglie sono l’entrata principale e la scelta) e l’ultima finestra ha le imposte aperte ma il vetro chiuso (è Daniel, che ha scelto di essere padre e marito, di allontanare lo scandalo, ma nella solitudine).

Lo capite perché mi sono intrippata per quest’opera? 🙂

Miss Raincoat

Pubblicità

Valtella in Love

Giovanni e Amalia Venosta

Oggi ci portiamo in Alta Valle, precisamente a Mazzo di Valtellina (diventata famosa perché qualche anno fa vi si aggirava un orso turista) e a Tovo di Sant’Agata, entrambe terre dei Venosta, provenienti da Matsch in Tirolo.

Le fortificazioni dei Venosta dovevano proteggere l’accesso alla Valle tramite il Passo del Mortirolo. Ciò che ci rimane di questa rete strategica a sono la Torre di Pedenale, parte di un castello collocato tra i boschi sopra il borgo di Mazzo, e il Castello di Bellaguarda a Tovo. Le due strutture, entrambe del XII secolo, furono smantellate – così come gli altri edifici di difesa valtellinesi – a causa del famoso incendio voluto dai dominatori delle Tre Leghe a fine Quattrocento.

Torre di Pedenale (Mazzo)

La nostra storia ha teatro a Tovo, tra i castagneti a più di settecento metri di altitudine, dove nascono rigogliosi e profumati i ciclamini selvatici. Giovanni Venosta di Mazzo aveva promesso amore eterno ad Amalia, figlia del Signore di Tovo, che abitava sulla rocca a pianta triangolare che svetta sulla radura sfruttando le varie contropendenze del terreno, la Bellaguarda. Ci collochiamo cronologicamente nel 1635, durante la Campagna del Duca di Rohan.

Dopo il Sacro Macello del 1620, la Valtellina era inevitabilmente diventata uno scenario della Guerra dei Trent’Anni, nella quale i nobili cattolici valtellinesi si erano uniti alla causa della Spagna. Nella prima fase, le Tre Leghe simpatizzavano per la Francia che, nel 1635, vinse Valtellina; allora, nella seconda fase, cambiarono partito e sostennero la Spagna. Nel 1635 la Francia calò nuovamente in Valtellina l’esercito comandato da Rohan, con quartiere generale a Tirano, il quale non solo non era intenzionato a restituire il territorio, ma se ne serviva pure come ponte per attaccare la Spagna “italiana” (ossia il Ducato di Milano). Giovanni Venosta militava a fianco dei francesi; il padre di Amalia, invece, faceva parte del clan del Robustelli. I cruenti avvenimenti del Sacro Macello, infatti, erano stati fomentati dal grosottino Giacomo Robustelli (sposato con una Planta, famiglia a capo della fazione cattolica delle Tre Leghe) coadiuvato dal duca di Feria, governatore di Milano, il quale aveva attirato a sé vari nobili locali cattolici poco affini alla politica grigiona. Nonostante nel 1635 si fosse trasferito a Domaso, che a quei tempi faceva parte del Ducato di Milano in mano agli spagnoli, riusciva ancora ad esercitare pressione sul suo partito, tant’è che parecchi nobili che lo avevano sostenuto nel massacro dei protestanti valtellinesi, continuavano ad opporsi anche alla pace tra Tre Leghe e Spagna. La Guerra, purtroppo, andò avanti fino al 1639 e le Tre Leghe riuscirono nell’intento di ritornare a governare la Valtellina.Il padre di Amalia si oppose fermamente al matrimonio con Giovanni e non solo per questi giochi di scacchiera; soprattutto, perché Amalia era già stata promessa a qualcuno di più prestigioso, ossia al nipote del nuovo governatore spagnolo di Milano, il cardinale Albornoz. Tuttavia, il loro amore clandestino andò avanti infuocato, finché…

A questo punto, storia e leggenda si fondono. Sappiamo dell’esistenza storica della Battaglia di Mazzo del 3 luglio 1635. Il Rohan aveva ritirato le sue truppe a Tirano; a Mazzo, intanto, come beffa, il papà di Amalia aiuta a nascondere degli uomini dell’esercito spagnolo tra muri, giardini e campi. Durante il controattacco, Rohan, grazie all’astuzia di far crollare il ponte sul fiume Adda, riesce ad imprigionarli (tant’è che molti, per morire con più gloria, preferirono suicidarsi gettandosi in acqua): ne morirono a centinaia. Rohan si vede costretto ad assalire anche la rocca di Bellaguarda, dato che era stato sfidato. Amalia, che già aveva visto andarsene la madre in tenera età, muore di crepacuore poco dopo che il Rohan lascia il cadavere di suo padre riverso a terra nel sangue.

Rientrato a Tirano, Rohan dà la notizia della vittoria al suo esercito. Il capitano Giovanni Venosta, che non aveva partecipato attivamente alla battaglia di Mazzo, non può permettersi di festeggiare e chiede al comandante di potersi recare sul posto. Purtroppo, trova la sua amata Amalia già sepolta e decide, sui due piedi, che il suo cuore non sarà più di nessun’altra e, perciò, di ritirarsi in un convento.

I sentieri che portano al Castello di Bellaguarda sono solcati da un torrente di fama sinistra. Esso infatti, non si può vedere (o meglio, quando emerge porta solo sciagure), ma silenzioso e invisibile, ha scavato la roccia sottostante dando origine a numerose forre. Le piante fitte che mettono in ombra il poggio, inoltre, sembrano essere, tramite il vento, animate da lamenti simili a quelli di una donna che piange. Nella sua fuga disperata, Giovanni in sella al suo focoso destriero nero, perse la vita cadendo in un precipizio, rimanendo eterno nelle terre dell’uomo che gli negò la felicità.

Castello di Bellaguarda (Tovo)

Miss Raincoat

dal film “Tristano e Isotta”

“Oggi, al mercato, ho visto una coppia che si teneva per mano. Noi non potremo mai farlo. Mai per noi queste cose, mai un anello. Solo attimi rubati che fuggono troppo in fretta” Isotta