Gaudenzio Ferrari a Morbegno

Primavera, tempo di rinascita? Chissà!!! Qui in Valle non piove da tempo, tira il vento e io ho incominciato a soffrire di mal d’aprile… In compenso, ho fatto qualche passeggiata per la mia amatissima Morbegno e ho ri-apprezzato i capolavori che ci ha lasciato un pittore protagonista del Rinascimento Valtellinese. Ladies and Gentlemen, Gaudeeeenzio Feeeeeerrrari (al quale è intitolato il Liceo Artistico della cittadina)!

Gaudenzio Ferrari (Valduggia, Vercelli – ca. 1480; Milano – 1546). Famoso in Lombardia e in Piemonte, soprattutto per le opere di devozione popolare, come le cappelle dei Sacri Monti del Varallo. Giunge a Morbegno con i grandi cantieri del Sant’Antonio e dell’Assunta e poi ci si ferma perché, in seconde nozze, sposa la nobildonna Maria Foppa. Il Ferrari ha una formazione manierista e porta in Valle la sua impronta leonardesca, riscontrabile nelle sue folle di biondi angioletti dolcissimi.

Natività di Gesù // Protiro del Sant’Antonio (1526)

In questa lunetta il Ferrari ci descrive la scena del Presepio in correlazione ciclica con una Deposizione. La sua composizione è molto affollata, ma tutti i personaggi sono ben connotati. Come in ogni sua scena, non manca la musica divina e l’atmosfera festosa. San Giuseppe si protende verso il centro, richiamando il suo ruolo di padre putativo all’interno della Sacra Famiglia. Il Bambino viene sollevato da due Angeli: è uno spaccato della società del tempo, dove i bambini nobili erano accuditi dalle balie. In questo dipinto, il pittore ci lascia il suo marchio di fabbrica, ossia la grande padronanza di una gamma di colori tersi e molto vivaci, soprattutto il preziosissimo blu.

Natività di Maria // Cappella di Sant’Anna dell’Assunta (1524)

Questa è una tela molto importante nell’inventario delle opere d’arte valtellinesi, oltre ad essere l’unica delle ante dell’ancona lignea sopravvissute fino ai giorni nostri. Per me, costituisce uno dei momenti più alti del Rinascimento Valtellinese. Vorrei descriverla in qualche punto:

  • L’ambientazione è quotidiana. La dimensione è quella dell’affettuosa premura che muove tutti i personaggi coinvolti. Ognuno, con calma, svolge il suo compito;
  • Tutti i personaggi sono legati dalla felicità. La tela è squadrata, ma la composizione è basata sul cerchio. Inserire il cerchio nel quadrato è simbolo di armonia cosmica, speculare a quella dell’animo umano in quel periodo storico;
  • Ogni figura è legata all’altra come in una danza. L’attenzione ai dettagli, anche i più semplici, è sorprendente. Come da tradizione popolare, Anna, ancora nel letto, si ritempra dalle fatiche del parto mangiando un uovo;
  • La simpatia per il genere umano si esprime anche nel trattare con positività il corpo umano. La donna in primo piano, piegandosi in avanti, mostra la scollatura, ma senza connotazioni sessuali o volgari;
  • L’episodio della Nascita di Maria è trattato con tenerezza. Tutte le figure sono protagoniste, tutte indaffarate e tutte contente. La loro vita è resa piena da questa imprevista nascita, come un fiore che sboccia in mano. Il significato è la speranza per il futuro. Eppure, la scena non è né solenne né spettacolare. L’unico particolare che ci induce a pensare che non sia nata una bimba qualsiasi, è la presenza della balia, come ad uso ai tempi;
  • La semplicità rende ogni opera del Ferrari densamente affettiva, ponendo il divino familiare con il terreno. Ciò che è santo non deve spaventare, ma rassicurare;
  • Ancora una volta, il Ferrari si distingue con scene affollate e affaccendate. Lo percepisco come un amorevole universo femminile in azione. E ancora una volta, ci sorprende con la sua tavolozza, in questo caso ocra. Su tutti i colori della terra, spiccano i rossi delle coperte del letto e della piccola Maria. L’uomo in veste verde, fuori dalla stanza, è Gioacchino, il papà. Per fare un figlio ci vogliono il verde e il rosso;
  • Non trascuriamo i dettagli. L’oggetto di legno che tocca la balia è una Bibbia. Il cane è simbolo di fedeltà; il gatto del mistero della vita nel corpo della donna. Il fiasco di vino era un dono per le donne che avevano appena partorito (è anche una ricerca prospettica del pittore, il quale si pone rispettoso e distante dalla scena tutta al femminile).

*In questa chiesa, il Ferrari si occupa anche di dorare e dipingere l’ancona insieme all’alunno Fermo Stella.

Il Rinascimento Valtellinese, ispirato a quello Lombardo, è quasi antitetico a quello “standard”, quello Toscano. Meno intellettuale, pone più attenzione alla realtà e all’adesione al sentimento umano. Le Natività sacre sono un tema molto diffuso, per rappresentare Dio che si è fatto Uomo e una Storia non staccata dal tempo della Vita.

Buona Giornata della Poesia!!!

Miss Raincoat

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Il Complesso di Sant’Antonio a Morbegno

Il Chiostro Nord

* Dedicazione a San Pietro Martire * San Pietro Martire o da Verona fu un importante frate domenicano inquisitore e, in effetti, perse la vita in Brianza (vicino a Barlassina), per mano del sicario di un eretico o, più semplicemente, di un attivista dell’opposizione. Comunque, se il suo aguzzino riuscì a sbarazzarsi di lui tagliandogli la gola, come mai viene sempre rappresentato con un falcastro ficcato da tempia a tempia? Beh, l’Arcivescovo di Milano voleva dargli una sepoltura da eroe, perciò compro un bel sarcofago. Evidentemente, anche senza Amazon si facevano pasticci, perché Pietro era un omone e le misure della sua magnificente bara erano risultate un po’ strette; si decise allora, di tagliare la testa e riporlala in un’altra cassettina. Durante la notte, però, l’Arcivescovo non riuscì a prendere sonno per un mal di testa che passò soltanto quando la capoccia di Pietro venne ricongiunta al suo corpo. Oggi San Pietro Martire riposa al Sant’Eustorgio di Milano (più famoso per la Cappella dei Re Magi) e viene invocato dagli emicranici. I nostri frati domenicani lo avevano scelto per due motivi 1- fu un grande promoter del culto del Rosario 2 – la sua figura era equiparabile a un influencer degli Inquisitori: prima di morire intinse un dito nel sangue per scrivere a terra la parola “credo”.

Il Chiostro, in origine, era un’area del Complesso dove potevano accedere soltanto i frati – fu ampliato in un secondo momento con un secondo chiostro, a sud, che doveva essere un po’ più elitario rispetto a questo (lo dico per la presenza della loggia oppure per la decorazione delle colonne con un simil stile corinzio).

Questo chiostro fu consacrato nel 1485 (l’anno della morte del Beato Andrea, il vip di questo ordine di frati morbegnesi). L’ambiente è scandito da 22 colonne in marmo di Musso. Su alcune di queste sono stati scolpiti dei simboli che rimandano al dedicatario della chiesa, Sant’Antonio abate (il gioco rimanda all’imprevedibilità della vita, alcune colonne sono Sante e altre no – sta a te riconoscerle!). I colori con i quali sono stati dipinti gli archi, rosso-bianco-nero, sono quelli dei Domenicani. Uscendo dal portico troviamo una cisterna per l’acqua, vicino al locale del Refettorio, e una meridiana (con l’iscrizione “sicut umbra vita fugit”).

Ci accorgiamo che, mentre nell’arte che potevano ammirare i “liberi cittadini” il tema del Rinascimento e della vita è il filo conduttore, dentro le mura del Convento, almeno in apparenza, si meditava sempre sul fatto che, prima o poi, sarebbe arrivato il Giorno del Giudizio!

Se ci approcciamo al chiostro dall’esterno, ci imbattiamo in una lapide commemorativa dei benefattori che vollero questa sede, sconsacrata dopo varie vicissitudini e non solo per la Confisca Napoleonica, per l’Orfanotrofio Femminile Provinciale; se ci arriviamo uscendo dall’Auditorium, invece, incontriamo il cosiddetto Atrio.

L’Atrio costituiva l’entrata verso la chiesa per i frati, infatti ha un corredo artistico speculare a quello del protiro esterno (l’entrata dei fedeli), almeno nei temi ciclici della Deposizione/Natività di Cristo. Il pittore è Vincenzo De Barberis, il quale nel 1576 regala il suo tratto raffinato e il suo colore madido in queste due scene: una Pietà con San Pietro Martire e San Domenico e una Natività con San Sebastiano, invocato durante le pestilenze e le guerre (da notare il manto giallo di Maria, tipico dell’iconografia domenicana).

Sul lato nord troviamo degli affreschi seicenteschi: “L’Ultima Veglia di San Domenico” e “La Legittimazione dell’Ordine Domenicano a Morbegno“. Quest’ultima molto simbolica, nella quale i due patroni di Morbegno, San Pietro e Paolo (riconoscibili per le chiavi e la spada – tra l’altro, anche stemma di Morbegno), accolgono San Domenico con il libro che contiene il suo motto per i predicatori.

Sui lati est e sud troviamo la vita e i miracoli di San Domenico. La datazione va dal 1638 al 1678, ma sotto si possono riconoscere altri due strati pittorici; in unoriconosciamo una preghiera mariana in caratteri gotici. Ognuno dei riquadri è stato commissionato da un frate (lo sappiamo perché ognuno porta un gentilizio diverso), ad eccezione del riquadro all’angolo est/sud, che ricorda il Sacro Macello (in cui l’iperbole artistica vuole che i frati abbiano sconfitto gli eretici solo con i loro crocefissi), commissionato dal capitano delle milizie di Morbegno, della famiglia Castelli di Sannazaro. Possiamo intendere la descrizione dell’episodio di ogni singolo riquadro, poiché ognuno è accompagnato da una didascalia in rima. Il lato dei Miracoli, purtroppo, ha subito l’incuria e il tempo e, purtroppo, le sue scene sono state cancellate; ne rimane ben riconoscibile il Miracolo della Risurrezione del nipote del Cardinale di Fossanova, caduto da cavallo. Sull’angolo verso ovest incontriamo Gli Angeli che portano il cibo alla povera Mensa: la tavolata dei domenicani (tra l’altro, rotondetti per essere a dieta!) ci introduce alla stanza a circa metà del lato est: il Refettorio, oggi Sala Alberto Boffi.

L’ala est non solo è deteriorata, ma ha subito un restyling ridimensionale seicentesco. Nel pavimento è stata lasciata una finestra che ci fa intravedere le sinopie (i disegni preparatori) degli affreschi più antichi. Gli affreschi in superficie, nello stesso stile baroccheggiante che avevamo già dis-conosciuto nell’ex chiesa, riproducono una Resurrezione molto naif, la Santa Casa (come quella di Tresivio che l’Iperal aveva messo sulle shopping bags qualche anno fa) e ancora una volta il nostro Pietro Martire.

Il Refettorio, appunto rimpicciolito perché, dopo il Sacro Macello, il Convento non era più così tanto in auge, conserva l’affresco quattrocentesco di una Crocifissione con Santi Domenicani. Questa, però, a causa del restauro è monca: San Tommaso, il chiudi-fila, rimane dietro a una colonna da solo. Gli affreschi sulla volta sono settecenteschi e l’interprete è Giovanni Francesco Cotta (il maestro del Romegialli, per intenderci); per stare in linea alla destinazione d’uso della stanza, i temi sono il pane (Elia) e l’acqua (Rebecca) in chiave biblica.

La stanza speculare sul lato ovest era il Capitolo, il luogo dove aveva sede la Schola di San Pietro Martire, ossia il Tribunale d’Inquisizione. Anche qui troviamo una Crocifissione quattrocentesco, in uno stile molto mitteleuropeo e truce. Dentro queste pareti si decise la sorte di varie persone accusate di stregoneria, come la Barzia di Gerola bruciata nella piazza antistante (dove si faceva anche anticamente il mercato). I frati domenicani di Morbegno erano spesso al centro dei misteri alla Quarto Grado del loro tempo. Furono accusati di aver fatto da tramite per la cattura di Francesco Cellario, il pastore protestante di Morbegno che fu preso all’imbocco della Valchiavenna mentre si recava nei Grigioni e poi messo al rogo per eresia. Parimenti, circolavano voci sul fatto che gli stessi aiutarono molti protestanti della Bassa Valle a fuggire verso il passo San Marco (di fatto, nel chiostro sud è presente una porta che conduce a un cunicolo sotterraneo che collegava il Convento al Doss de La Lumaga – zona Tempietto). Infine, sul lato ovest c’è anche la lunetta di una porta tamponata che mostra San Domenico e San Francesco sullo stesso dipinto, peccato che i due ordini fondati da questi due santi litigarono per secoli per il dogma dell’Immacolata! Anche Morbegno ricorda i segni di questa lite: con l’affresco fuori dal Palazzo Malacrida i Cappuccini hanno definito i Domenicani “chiacchieroni”, quindi “bugiardi”.

Miss Raincoat

“In tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”

Il Complesso di Sant’Antonio a Morbegno

Facciata e Protiro

Il primo nucleo della chiesa, inizialmente dedicata a Santa Marta, esisteva già circa nel 1370 ed era comunemente conosciuto con il nome di Santa Marta in Quadrobbio (ossia “quadrivio“).

La sua storia si interseca con le vicende degli Inquisitori Domenicani provenienti dal Convento di San Giovanni a Como (odierno edificio della stazione ferroviaria), già presenti in Valle per convincere con le buone o con le cattive gli eretici antipapali, ma definitivamente ospiti ben graditi dal 1328, anno in cui scappano dalle lotte tra guelfi e ghibellini a Como e si rifugiano, inizialmente, attorno al San Domenico a Regoledo di Cosio.

A fine Quattrocento, addirittura con l’approvazione degli Sforza, Morbegno decide di ampliare la Santa Marta (* Sant’Antonio, originariamente, era il secondo dedicatario; con l’ampliamento Santa Marta viene mandata in pensione…) e farla diventare il complesso conventuale che avrebbe ospitato i domenicani in una location più consona al loro prestigioso ruolo. Sulla carta, la Comunità di Morbegno si proclamava cattolicamente contenta di poter avere i frati inquisitori in loco, siccome l’eresia stava traviando anche il clero locale e c’era bisogno di una guida spirituale; sul rovescio della pagina, però, non dimentichiamo che ospitare la Sede Inquisitoria dell’intera Valtellina a Morbegno dava lustro alla cittadina! In poco tempo, inoltre, molti valtellinesi cominciarono a recarsi spesso in questa nuova chiesa per partecipare a quei riti tipicamente domenicani, spettacolari e con musica emozionantissima.

Ma ritorniamo all’Arte.

L’esterno della chiesa, realizzato nei primi anni del Cinquecento, si colloca nel Rinascimento Valtellinese (stessi anni dell’Assunta di Morbegno; architettura top del periodo: Il Santuario di Tirano), sebbene il coronamento a forma ondulata ci riporta subito al rifacimento simil-barocco del Seicento. Quindi, si potrebbe dire che ciò che rimane di veramente – ma superbamente – rinascimentale sia il protiro (la struttura di copertura del portale).

Quello che faccio sempre notare ai turisti è questo: in poco spazio, vengono conglobati molti elementi, difficili da cogliere con un solo sguardo distratto. Ecco a cosa servono le guideeh 🙂

Partiamo, insolitamente, dai particolari. Abbiamo quattro colonne snelle, rinforzate da fasce, le quali, rispettivamente portano il tatuaggio di importanti stemmi: lo stemma della famiglia morbegnese Ninguarda, ossia i committenti, lo stemma di Morbegno (chiave e spada, S. Pietro e Paolo – i patroni), la tau di S.Antonio e il cane dei Domenicani. Anche lesene del portale reggono un’Annunciazione sulla parte frontale (con Maria e Arcangelo Gabriele separati, soluzione molto pop-rinascimentale) e sui profili dei ritratti di San Domenico e San Vincenzo (forse il più cattivo degli inquisitori domenicani – non dimentichiamoci che pure in Valtellina qualche strega venne bruciata!). I capitelli delle colonne, infine, sono decorati con sole e teschio, per creare il ciclo infinito di vita e morte – per me, un grande indizio di Rinascimento: finito il lockdown medievale, si vedeva molta luce e molta speranza…

Il mio particolare preferito del protiro è la volta. Lo so, è un mero esercizio di stile dello scultore, però i cassettoni finti sembrano il matelassé di Coco Chanel anche se è stato realizzato con maestria di scalpello sul marmo di Musso.

Le opere di concetto sono quelle delle due lunette.

La lunetta scultorea è stata realizzata da Francesco Ventretta di Piuro (Valchiavenna), il quale realizza tutta la scultura del protiro circa nel 1517. L’artista era cognato di Tommaso Rodari, papà della parte rinascimentale del’Assunta di Morbegno e del Santuario di Tirano, nonché colui che porta il Rinascimento architettonico in Valle. La Pietà che ci lascia il Ventretta è molto drammatica, specie nel volto disperato di Maria e resa ancor più drammatica dal fatto che è stata posta sopra l’Annunciazione.

La lunetta pittorica è stata realizzata da Gaudenzio Ferrari, circa nel 1526 – negli anni in cui era impegnato sul cantiere dell’Assunta di Morbegno. Famoso per i Sacri Monti del Varallo e per la lezione leonardesca che impregna le sue opere, si stabilì a Morbegno dopo le sue seconde nozze con la nostra Maria Foppa, vedova Ninguarda. La sua Natività ha i suoi amabili colori tersi, soprattutto il blu molto ceruleo. Inoltre, un suo marchio di fabbrica sono gli angeli musicanti, tutti uno diverso dall’altro. Due di questi angeli tengono in braccio Gesù Bambino, poiché all’epoca le donne importanti facevano accudire i loro figli dalle balie. In maniera molto rivoluzionaria per l’epoca, Giuseppe si protende verso il centro della scena. In quegli anni, infatti, alla figura del padre putativo era stata riconosciuta la grande missione di avere accettato il disegno divino anche se fosse soltanto un uomo.

Così, anche le due lunette si pongono a simbolo del ciclo della vita e in maniera del tutto positiva rispetto al progetto che dall’alto era stato riservato all’uomo. Per questo motivo, si può dire che non solo la forma ma anche il significato pongono quest’opera al centro del movimento culturale del Rinascimento.

Umberto Saba

“Ed è il pensiero della Morte che, infine, aiuta a Vivere”

Miss Raincoat