Morbegno La Sera è Viva 2022

Giovanni e Rosa : i colori di un amore

Solitamente, i ringraziamenti si fanno nelle battute finali, ma per per me è doveroso salutare una persona, un grande amico di questo piccolo tesoro di Morbegno, della Madonnetta: il Roby, l’architetto Roberto Paruscio che si è occupato dell’iniziativa di restauro di questo monumento. Ciao Roby!

Introdurrei questo racconto con una citazione presa dall’iscrizione non tanto distante da questa cappelletta votiva. Vicino al Cimitero leggiamo “se pietoso tu sei o passeggere, o dammi un soldo o dimmi un Miserere”. In tempi antichi, l’unica via che congiungeva Morbegno a Sondrio passava di qui, dalla Campagna, e, come un cartellone pubblicitario, salutava il viandante augurandogli buon viaggio, che sarebbe sicuramente andato meglio se avesse lasciato un’offerta o, se proprio non avesse spiccioli, avesse invocato l’aiuto dei morti.

La Madonnetta è il dipinto custodito nel cuore di questo tempietto e nasce proprio in questo clima mistico, tra il sacro e il profano. Narra la leggenda, che nei primi del Cinquecento il contadino Mario Petacco si fece dipingere sulla sua casa una Madonna in Trono in seguito al passaggio della Madonna in persona, riposatasi qui prima di salire a Tirano, dove sarebbe apparsa a un altro Mario, l’Omodei. Subitissimo, questo affresco avrebbe iniziato ad essere da anatema miracoloso contro le morti certe, per malattia o anche per condanna. Ovviamente, le grazie erano accompagnate da generosi ex voto, tant’è che la Confraternita dell’Assunta e la Parrocchia cominciarono a litigare sulla gestione degli incassi. Ci volle il Vescovo per sistemare la faccenda che decise per la Parrocchia. La Parrocchia, mettendosi una mano sul cuore, con parte dei proventi finanziò la costruzione del tempietto e la sua decorazione.

Proprio nel 1875 entra in gioco il nostro pittore Giovanni Gavazzeni. Si stava già facendo un buon nome, ma non era ancora propriamente in carriera. La Fabbriceria di Morbegno era rimasta davvero soddisfatta della “Deposizione” nel Gisoo de Meza Via verso la frazione orobica di Arzo e, perciò, gli commissionò anche la realizzazione della Madonnetta. Il Gavazzeni avrebbe dovuto creare una cerniera tra presente e passato. Nelle cupole ellittiche troviamo due Angeli con cartigli che ci indicano la Madonna del passato, all’interno, una Mater Divinae Gratiae, una Regina imperturbabile con un Bambino vestito da cavaliere, e una Madonna del suo presente, una Consolatrix Afflictorum, una madre tenera. Se nel Cinquecento la Madonna era vista come un monito al Giudizio, nell’Ottocento era una Speranza per il futuro.

Ma chi era Giovanni Gavazzeni? Nato a Talamona il 13 settembre 1841 (sotto il segno della vergine), fu un giovane di buona famiglia e bambino prodigio che frequentò l’Accademia Carrara di Bergamo, molto lontana dagli schiamazzi politici di Milano e ancorata all’imitazione dei Classici: in Gavazzeni troviamo molto Raffaello, provate a pensare alla “Madonna della Seggiola”. Giovanni ebbe anche una parentesi rivoluzionaria molto attiva, seguendo Garibaldi fino a Sondrio. Comunque, dopo l’anno sabbatico, finì gli studi con lodi e imbrodi e scelse di ritornare a Talamona. Era un uomo solitario, schivo, silenzioso e meticoloso. Era un uomo che amava la sua Terra e le sue montagne e che voleva proteggere la natura. Pensate che, nonostante il largo utilizzo dei moderni colori in tubetto, lui continuava a tenere segrete le ricette dei suoi colori “alla moda vecchia“.

Il Gavazzeni è stato un artista pop: raccolse consensi fin da subito. Infatti, invece di seguire la moda dell’arte di Milano, irriverente, irruenta e monumentale, decise di capire che cosa desiderasse il suo pubblico valtellinese. La nostra gente voleva un’arte sentimentale e semplice, più simile alle canzoni di Orietta Berti che a quelle di Luigi Tenco. Il Gavazzeni, poi, ci mette la sua firma. Crea una tavolozza di colori unica, fatta di colori molto profondi, freddi, ma al contempo molto vividi con i quali esprime la sua schiettezza un po’ burbera, ma al contempo emotiva.

La sua storia d’amore si svolge nell’Ottocento. Anche in Valtellina si respirava quel clima di pizzi, merletti e salotti. Ricordiamoci che il Gavazzeni frequentava un noto caffè letterario di Morbegno, il Folcher. Tuttavia, l’atmosfera alla Bridgerton qui era smorzata da un carattere più ruspante. Si pensi che, per far bella figura con i suoceri, il dono migliore da portare quando si chiedeva la mano di una fanciulla fosse un pollo.

Giovanni chiede la mano a una ragazza di Masino, Rosa Lucia Pirola. Lui aveva 34 anni e lei 23. Il papà è contento di queste nozze perché il genero ha una famiglia borghese rispettabile, è un pittore ma guadagna bene ed è anche generoso, perché qualche volta dipinge per beneficenza. Eppure, il matrimonio viene macchiato da un’onta: la coppia non riesce ad avere figli. Solo vent’anni dopo adotteranno i nipoti di Rosa rimasti orfani. Li accudiranno nell’amore e nell’agio, ma uno morirà ragazzo per un male improvviso e gli altri due nella Prima Guerra Mondiale. Erano tempi crudeli per le mancate maternità. Il collega e amico pittore Segantini, altro narratore delle Alpi, sebbene fosse libero dagli schemi della società, descrivendo il suo dipinto “Le Cattive Madri”, disse che amava tutte le donne purché avessero nelle viscere l’attitudine di madre.

Eppure, questo non divise Rosa e Giovanni. Ho sempre pensato che, per questo, il “problema” fosse originato da Giovanni… Sappiamo per certo che Rosa diventò la musa del pittore. I visi aristocratici delle Madonne sono smpre i suoi, che invecchiano insieme a lei, sempre amabile agli occhi di suo marito. Giovanni, se la composizione lo permette, si dipinge come un premuroso e protettivo San Giuseppe.

Nel nostro timpano, l’atmosfera è tinta di colori che virano verso l’oro e il rosa-aranciato. Questo colori ci danno l’idea di un clima dolce e sussurrato, quello del tramonto. Il tramonto qui è anche simbolo di una Madonna che sa che suo figlio morirà per colpa dei nostri peccati, ma ci ama ugualmente. Intrinsecamente, Giovanni, dopo due anni di tentativi, sta dicendo che la sua Rosa non è una cattiva donna anche se non è mamma. Magari era un orso quest’uomo, ma era più libero di mente di tanti uomini contemporanei!

Vorrei dire che questo dipinto parla di Amore Universale. Per il Gavazzeni, a differenza dell’iconografia codificata, l’amore non è rosso ma blu. Il blu è il più prezioso dei colori ed è il colore dell’intimità. Il manto blu di Maria, protegge la sua grazia interiore. Il Gavazzeni ci sta dicendo che il rosso, ciò che viene dal cuore, va dosato e centellinato e, soprattutto, sempre vissuto in silenzio per evitare i giudizi altrui. Oscar Wilde diede questa definizione al blu “la breve tenda che i prigionieri chiamano cielo”.

❤ Miss Raincoat

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“La Malinconia di Penelope” di Angelika Kauffmann

Angelika Kauffmann è stata una pittrice della seconda metà del Settecento, stimata ritrattista, nata a Coira, nei Grigioni (Svizzera). Passò la sua infanzia da bambina prodigio nella mia Morbegno (Sondrio) e, sebbene diventò una donna di mondo, ben calata nel clima dei salotti europei, rimase una semplice ragazza svizzera alla ricerca dei colori dell’arcobaleno, nonostante vivesse in un mondo ancora troppo maschio.

Con suo padre, un discreto pittore al servizio della borghesia e della nobiltà tedesca, viaggiò molto e, durante un soggiorno veneziano, conobbe la moglie dell’ambasciatore inglese, che la convinse a lasciare l’Italia senza papà. Sua madre era già morta a Milano qualche anno prima, purtroppo.

A Londra ci passò ben quindici anni di vita mondana senza risparmiarsi il gossip sulle sue relazioni. Una presunta fu con il pittore conterraneo Füssli. Una appurata fu con Joshua Reynolds, fondatore della Royal Academy. La relazione con quest’uomo magnetico più grande di lei e allergico al matrimonio ma non alle donne non passò inosservata, tant’è che Nathaniel Hone, pittore in polemica con Reynolds, dipinse un quadro (“Il Congiurato”) con il quale, per averla vinta, svergogna la situazione mettendo in cattiva luce anche Angelika.

Era il 1775. Arrivò papà Kauffmann a mettere un po’ d’ordine. Angelika sposò di fretta un conte svedese, che non era il conte Hans Axel Von Fersen, bensì un impostore che fuggirà con tutti i risparmi. Dopo l’annullamento, Angelika avrà un secondo matrimonio con un pittore veneziano amico di suo padre e un amore segreto mai corrisposto con Goethe. Goethe apprezzava la sua arte, ma in modo compassionevole e la giudicava in maniera impietosa, anzi, direi maschilista. Disse “Hai il genio solitamente riservato agli uomini”. Grazie al c***!

Ma torniamo al 1775.

1775 ca. – 26*21 cm – olio su rame – Wolverhampton Art Gallery

La “Malinconia di Penelope” si colloca in questo periodo. Angelika e Joshua sono al centro del gossip e si allontanano definitivamente, dopo il matrimonio con il conte.

La Penelope rappresentata piange, è addolorata. Dopo aver atteso per vent’anni senza dubbio e senza tradimenti l’uomo che ama comincia a pensare che non tornerà più. Atena, la dea della Ragione, l’ha convinta a lanciare una sfida tra i suoi pretendenti: chiunque riuscirà a fare centro nelle dodici scuri tramite l’arco di Ulisse, un’arma che solo lui sa maneggiare, avrà lei come bottino.

La Penelope in cui si rivede la Kauffmann è vestita di bianco sporco, non più vergine, coperto dal blu cyan, un colore che simboleggia la sofferenza e il dolore. Inoltre, è seduta su un divano rosso, il trono della vera passione. Il talamo di Ulisse e Penelope aveva un segreto che conoscevano solo loro due, era poggiato su un tronco che lo rendeva inestirpabile; qui, di fatto, c’è una colonna che simboleggia quel per sempre che, per quanto si siano dovuti allontanare a forza, legherà Angelika a Joshua. Ai piedi di Penelope ci sono solo tre delle dodici scuri e tre, per i Greci, erano i livelli dell’unione tra due persone: la passione, l’affetto e l’amore. Dipingerli ai piedi vuol dire buttarli via. Inoltre, la loro posizione a croce e a freccia rappresenta appunto l’unione maschio – femmina, di Afrodite e Ares (la tresca più famosa del Mito, finita malissimo per gelosia…). Penelope, infine, porta una collana, iconografia dell’appartenenza a un altro uomo, così come l’atto di incrociare le gambe e il velo in testa. Vaffanculo, Cupido!

Miss Raincoat

Angelika Kauffmann

“Nessuno ha mai indovinato che il mio corpo era intento e teso, nessuno ha mai indovinato il bisogno che provavo di offrire il mio essere, completamente, ad un altro essere”.

Gaudenzio Ferrari a Morbegno

Primavera, tempo di rinascita? Chissà!!! Qui in Valle non piove da tempo, tira il vento e io ho incominciato a soffrire di mal d’aprile… In compenso, ho fatto qualche passeggiata per la mia amatissima Morbegno e ho ri-apprezzato i capolavori che ci ha lasciato un pittore protagonista del Rinascimento Valtellinese. Ladies and Gentlemen, Gaudeeeenzio Feeeeeerrrari (al quale è intitolato il Liceo Artistico della cittadina)!

Gaudenzio Ferrari (Valduggia, Vercelli – ca. 1480; Milano – 1546). Famoso in Lombardia e in Piemonte, soprattutto per le opere di devozione popolare, come le cappelle dei Sacri Monti del Varallo. Giunge a Morbegno con i grandi cantieri del Sant’Antonio e dell’Assunta e poi ci si ferma perché, in seconde nozze, sposa la nobildonna Maria Foppa. Il Ferrari ha una formazione manierista e porta in Valle la sua impronta leonardesca, riscontrabile nelle sue folle di biondi angioletti dolcissimi.

Natività di Gesù // Protiro del Sant’Antonio (1526)

In questa lunetta il Ferrari ci descrive la scena del Presepio in correlazione ciclica con una Deposizione. La sua composizione è molto affollata, ma tutti i personaggi sono ben connotati. Come in ogni sua scena, non manca la musica divina e l’atmosfera festosa. San Giuseppe si protende verso il centro, richiamando il suo ruolo di padre putativo all’interno della Sacra Famiglia. Il Bambino viene sollevato da due Angeli: è uno spaccato della società del tempo, dove i bambini nobili erano accuditi dalle balie. In questo dipinto, il pittore ci lascia il suo marchio di fabbrica, ossia la grande padronanza di una gamma di colori tersi e molto vivaci, soprattutto il preziosissimo blu.

Natività di Maria // Cappella di Sant’Anna dell’Assunta (1524)

Questa è una tela molto importante nell’inventario delle opere d’arte valtellinesi, oltre ad essere l’unica delle ante dell’ancona lignea sopravvissute fino ai giorni nostri. Per me, costituisce uno dei momenti più alti del Rinascimento Valtellinese. Vorrei descriverla in qualche punto:

  • L’ambientazione è quotidiana. La dimensione è quella dell’affettuosa premura che muove tutti i personaggi coinvolti. Ognuno, con calma, svolge il suo compito;
  • Tutti i personaggi sono legati dalla felicità. La tela è squadrata, ma la composizione è basata sul cerchio. Inserire il cerchio nel quadrato è simbolo di armonia cosmica, speculare a quella dell’animo umano in quel periodo storico;
  • Ogni figura è legata all’altra come in una danza. L’attenzione ai dettagli, anche i più semplici, è sorprendente. Come da tradizione popolare, Anna, ancora nel letto, si ritempra dalle fatiche del parto mangiando un uovo;
  • La simpatia per il genere umano si esprime anche nel trattare con positività il corpo umano. La donna in primo piano, piegandosi in avanti, mostra la scollatura, ma senza connotazioni sessuali o volgari;
  • L’episodio della Nascita di Maria è trattato con tenerezza. Tutte le figure sono protagoniste, tutte indaffarate e tutte contente. La loro vita è resa piena da questa imprevista nascita, come un fiore che sboccia in mano. Il significato è la speranza per il futuro. Eppure, la scena non è né solenne né spettacolare. L’unico particolare che ci induce a pensare che non sia nata una bimba qualsiasi, è la presenza della balia, come ad uso ai tempi;
  • La semplicità rende ogni opera del Ferrari densamente affettiva, ponendo il divino familiare con il terreno. Ciò che è santo non deve spaventare, ma rassicurare;
  • Ancora una volta, il Ferrari si distingue con scene affollate e affaccendate. Lo percepisco come un amorevole universo femminile in azione. E ancora una volta, ci sorprende con la sua tavolozza, in questo caso ocra. Su tutti i colori della terra, spiccano i rossi delle coperte del letto e della piccola Maria. L’uomo in veste verde, fuori dalla stanza, è Gioacchino, il papà. Per fare un figlio ci vogliono il verde e il rosso;
  • Non trascuriamo i dettagli. L’oggetto di legno che tocca la balia è una Bibbia. Il cane è simbolo di fedeltà; il gatto del mistero della vita nel corpo della donna. Il fiasco di vino era un dono per le donne che avevano appena partorito (è anche una ricerca prospettica del pittore, il quale si pone rispettoso e distante dalla scena tutta al femminile).

*In questa chiesa, il Ferrari si occupa anche di dorare e dipingere l’ancona insieme all’alunno Fermo Stella.

Il Rinascimento Valtellinese, ispirato a quello Lombardo, è quasi antitetico a quello “standard”, quello Toscano. Meno intellettuale, pone più attenzione alla realtà e all’adesione al sentimento umano. Le Natività sacre sono un tema molto diffuso, per rappresentare Dio che si è fatto Uomo e una Storia non staccata dal tempo della Vita.

Buona Giornata della Poesia!!!

Miss Raincoat

Il Complesso di Sant’Antonio a Morbegno

Chiesa di Sant’Antonio (Auditorium)

Nella scorsa puntata, abbiamo appreso che, con l’insediamento dei frati domenicani, la chiesa perse per strada la dedicazione a Santa Marta e, per motivi di diritto ecclesiastico, tenne per buono il co-dedicatario Sant’Antonio, considerato anche il protettore di tutti gli ordini monastici maschili.

Certo, oggi questo edificio, con la sua conformazione di sala d’ascolto e le schegge d’arte, non ci richiama l’opulenza con la quale era stato concepito. Badiamo che questa chiesa occupa 800 mq di superficie e, in origine, colava oro e nessun centimetro escludeva di essere ammirato. I nobili di Morbegno e limitrofi si erano messi in gara per essere il miglior committente del Sant’Antonio!

Solitamente, si dà la colpa a Napoleone che, con la sua confisca del 1798, firmò la diaspora delle opere d’arte che rivestivano e adornavano la chiesa (alcune le possiamo trovare nelle altre chiese di Morbegno, altre chissà dove sono finite…). La chiesa tornerà ad essere tale dal 1924 al 1977, poi diventerà un deposito e, solo nel 2008, rinascerà come Auditorium – per me, un ottimo uso, dato che i Domenicani erano molto attenti alla musica durante le funzioni.

Tuttavia, era già iniziato lo scempio nel 1663, quando si decise di coprire il Rinascimento con uno strato di Barocco. Ma non il Barocco artistico, quello più grossolano e pacchiano che possa esistere. Per spiegarlo agli atei, come quegli interventi di chirurgia estetica mal riusciti…

Il fatto che questa chiesa sia stata lasciata deperire per molti anni (anche il Damiani era indignato per questo motivo!!!) ha fatto riemergere, comunque, la Storia: le pareti del Sant’Antonio portano tre strati di affreschi (alcuni continuano addirittura sopra la copertura a crociera, in origine a capriate) – quello dell’antica Santa Marta, quello Rinascimentale e quello BaroccoTarocco. Per quanto riguarda la presa di coscienza, sappiamo che nel 1932 ci si rese conto dell’importanza del Protiro esterno e della Cappella di Santa Caterina; tra il 1961 e il 1964 si restaurò tutta l’ala sinistra e, a destra, la Cappella di San Martino – il resto è rimasto orfano fino al restauro degli anni Duemila.

Possiamo dire, in generale, che il Sant’Antonio è una chiesa tipicamente domenicana, pensata come un’ampia aula, senza impedimenti o distrazioni dall’altare centrale, dove si svolgevano le prediche e le spettacolari messe “di propaganda“. Le cappelle, infatti, sono laterali e la navata è unica. Da una parte, servivano per rinforzare gli insegnamenti dottrinali tramite Santi e Sante esemplari di martiri in nome della Fede, di Redenzione, di Umiltà ostentata e di Miracolosità – erano i thriller dell’epoca; dall’altra, essendo tutte finanziate da un committente diverso, erano un po’ come gli sponsor degli eventi odierni. L’Arte Rinascimentale di queste cappelle, cronologicamente collocabili alla fine del Quattrocento (a parte le due cappelle a destra del 1520 ca.) e geograficamente in ambito lombardo con alcuni influssi mitteleuropei.

A sinistra, dall’ingresso

Santa Caterina D’Alessandria (famiglia Vicedomini di Cosio e Morbegno) – Artisticamente è la più rinascimentale delle cappelle (artisti di ambito comasco), per i colori vivaci e per la ricerca di prospettiva. La Santa, oltre ad essere la più celebre tra le martiri romane, è patrona dei teologi;

Natività e Adorazione dei Magi (Frati Domenicani di Morbegno) – I soggetti sintetizzano i concetti di umiltà sia dei Re sia di Gesù;

San Pietro Martire (famiglia De Pesci di Ardenno) – Il Santo martire domenicano è il patrono del Convento; sulle pareti incontriamo la sua agiografia, soprattutto la sua missione tra le prostitute e il suo leggendario martirio, che lo fa diventare anche patrono degli emicranici (questa storia eccentrica la racconterò nel prossimo episodio!). Sul fronte della cappella troviamo una Crocifissione con Santi Domenicani. Il pittore di questa cappella è Fermo Stella, alunno del Ferrari (che abbiamo incontrato nel protiro, all’esterno). La volta con gli evangelisti, invece porta la firma di Marco D’Oggiono, alunno diretto di Leonardo Da Vinci.

San Vincenzo e Beato Andrea (famiglia Malaguccini di Morbegno) – Il Beato Andrea Griego da Peschiera, frate che morì qui nel 1485, fu un predicatore instancabile, beatificato a furor di popolo – le sue reliquie (inizialmente conservate in questa cappella; dopo la Confisca traslate neln San Giovanni, ossia nel reliquiario in cera) furono considerate miracolose durante la Peste. Nella fascia di medaglioni sull’arco, lui è il primo a destra. La cappella è dipinta con l’agiografia di San Vincenzo (da notare la resurrezione di un bambino) sulle pareti e con una Crocifissione insieme a San Domenico, San Pietro Martire e Santa Caterina da Siena sulla lunetta.

** su questo lato è stata murata e, poi, demolita una cappella di San Rocco che, originariamente, era addossata lateralmente a Santa Marta e chiudeva la Morbegno est (abbiamo, infatti, un’altra cappella di San Rocco a chiuderla a ovest).

A destra, dal palco

(Questo lato è davvero molto deteriorato e riporta i segni del tempo e dello scalpello tra uno strato e l’altro)

Le prime due cappelle sono state dipinte da Vincenzo De Barberis, il maestro di Cipriano Valorsa. La Cappella dedicata al “boss” Sant’Antonio abate (protettore degli animali) fu pagata dalla famiglia Guasco; la Cappella di San Martino, la più iconica di questa chiesa, fu commissionata dalla Comunità di Morbegno. Di fatto, la chiesa di San Martino fu il primo edificio sacro di Morbegno. Metaforicamente, la chiesa poggia su questa cappella, secondo me. Inoltre, sono una grande fan dello stile raffinato e vivace nelle cromie quasi fluo del Vincy De Barberis, bresciano.

Le ultime due cappelle (delle famiglie Castelli D’Argegno e Castelli di Sannazaro), oltre ad essere abbastanza irriconoscibili e lacunose, portano proprio quei pesanti tratti del restauro seicentesco. Erano dedicate all’altro “boss”, San Domenico, e a Santa Maddalena (vi era anche la reliquia di un suo omero, persa durante la Confisca). Ciò nonostante, è in queste cappelle che sono riemersi dei preziosi tasselli di affreschi che appartenevano alla chiesa di Santa Marta, come il San Tommaso che regge la chiesa e una pelliccia (che non è dell’Homo Salvadego, ma l’abito frugale di San Giovanni Battista).

La Cappella della Madonna del Rosario

Per me è un piccolo scrigno segreto e si trova dietro il vecchio altare/odierno palco – proseguendo a sinistra. Questa sorta di cappella radiale, fu affrescata nel Settecento – è un po’ indie in questo. Il committente fu la famiglia Parravicini, a quei tempi importantissima. Il pittore è Pietro Bianchi detto il Bustino. Lu, di Borgovico (Como), affrescò anche parte dell’Assunta e tutto il San Pietro, ma perse un po’ la gara tra i pittori perché il famoso Pietro Ligari aveva un potente fan club! Nel centro troviamo la Madonna in Gloria che consegna il Rosario a Santa Caterina da Siena e al nostro San Domenico (in coppia, sono i santi domenicani più importanti). Ai lati, sorrette dai Profeti, troviamo le scene di due battaglie, per mare e per terra, della Serenissima contro i Turchi. A noi interessa quella in mare, la famosa Battaglia di Lepanto (1571) dopo la vittoria della quale Pio V istituiì la festività del Santo Rosario, molto sentita anche nella Valle più pop, perché cade nel periodo della vendemmia delle castagne. Pio V, frate domenicano e al secolo Michele Ghislieri, fu ospite e inquisitore qui al Sant’Antonio – lo troviamo anche nei medaglioni dei frati domenicani di questa cappella. Nel sott’arco si legge qualcosa simile all’Ave Maria in latino, come una cover domenicana di questa preghiera.

Alla prossima (e ultima) puntata!

Miss Raincoat

Il Complesso di Sant’Antonio a Morbegno

Facciata e Protiro

Il primo nucleo della chiesa, inizialmente dedicata a Santa Marta, esisteva già circa nel 1370 ed era comunemente conosciuto con il nome di Santa Marta in Quadrobbio (ossia “quadrivio“).

La sua storia si interseca con le vicende degli Inquisitori Domenicani provenienti dal Convento di San Giovanni a Como (odierno edificio della stazione ferroviaria), già presenti in Valle per convincere con le buone o con le cattive gli eretici antipapali, ma definitivamente ospiti ben graditi dal 1328, anno in cui scappano dalle lotte tra guelfi e ghibellini a Como e si rifugiano, inizialmente, attorno al San Domenico a Regoledo di Cosio.

A fine Quattrocento, addirittura con l’approvazione degli Sforza, Morbegno decide di ampliare la Santa Marta (* Sant’Antonio, originariamente, era il secondo dedicatario; con l’ampliamento Santa Marta viene mandata in pensione…) e farla diventare il complesso conventuale che avrebbe ospitato i domenicani in una location più consona al loro prestigioso ruolo. Sulla carta, la Comunità di Morbegno si proclamava cattolicamente contenta di poter avere i frati inquisitori in loco, siccome l’eresia stava traviando anche il clero locale e c’era bisogno di una guida spirituale; sul rovescio della pagina, però, non dimentichiamo che ospitare la Sede Inquisitoria dell’intera Valtellina a Morbegno dava lustro alla cittadina! In poco tempo, inoltre, molti valtellinesi cominciarono a recarsi spesso in questa nuova chiesa per partecipare a quei riti tipicamente domenicani, spettacolari e con musica emozionantissima.

Ma ritorniamo all’Arte.

L’esterno della chiesa, realizzato nei primi anni del Cinquecento, si colloca nel Rinascimento Valtellinese (stessi anni dell’Assunta di Morbegno; architettura top del periodo: Il Santuario di Tirano), sebbene il coronamento a forma ondulata ci riporta subito al rifacimento simil-barocco del Seicento. Quindi, si potrebbe dire che ciò che rimane di veramente – ma superbamente – rinascimentale sia il protiro (la struttura di copertura del portale).

Quello che faccio sempre notare ai turisti è questo: in poco spazio, vengono conglobati molti elementi, difficili da cogliere con un solo sguardo distratto. Ecco a cosa servono le guideeh 🙂

Partiamo, insolitamente, dai particolari. Abbiamo quattro colonne snelle, rinforzate da fasce, le quali, rispettivamente portano il tatuaggio di importanti stemmi: lo stemma della famiglia morbegnese Ninguarda, ossia i committenti, lo stemma di Morbegno (chiave e spada, S. Pietro e Paolo – i patroni), la tau di S.Antonio e il cane dei Domenicani. Anche lesene del portale reggono un’Annunciazione sulla parte frontale (con Maria e Arcangelo Gabriele separati, soluzione molto pop-rinascimentale) e sui profili dei ritratti di San Domenico e San Vincenzo (forse il più cattivo degli inquisitori domenicani – non dimentichiamoci che pure in Valtellina qualche strega venne bruciata!). I capitelli delle colonne, infine, sono decorati con sole e teschio, per creare il ciclo infinito di vita e morte – per me, un grande indizio di Rinascimento: finito il lockdown medievale, si vedeva molta luce e molta speranza…

Il mio particolare preferito del protiro è la volta. Lo so, è un mero esercizio di stile dello scultore, però i cassettoni finti sembrano il matelassé di Coco Chanel anche se è stato realizzato con maestria di scalpello sul marmo di Musso.

Le opere di concetto sono quelle delle due lunette.

La lunetta scultorea è stata realizzata da Francesco Ventretta di Piuro (Valchiavenna), il quale realizza tutta la scultura del protiro circa nel 1517. L’artista era cognato di Tommaso Rodari, papà della parte rinascimentale del’Assunta di Morbegno e del Santuario di Tirano, nonché colui che porta il Rinascimento architettonico in Valle. La Pietà che ci lascia il Ventretta è molto drammatica, specie nel volto disperato di Maria e resa ancor più drammatica dal fatto che è stata posta sopra l’Annunciazione.

La lunetta pittorica è stata realizzata da Gaudenzio Ferrari, circa nel 1526 – negli anni in cui era impegnato sul cantiere dell’Assunta di Morbegno. Famoso per i Sacri Monti del Varallo e per la lezione leonardesca che impregna le sue opere, si stabilì a Morbegno dopo le sue seconde nozze con la nostra Maria Foppa, vedova Ninguarda. La sua Natività ha i suoi amabili colori tersi, soprattutto il blu molto ceruleo. Inoltre, un suo marchio di fabbrica sono gli angeli musicanti, tutti uno diverso dall’altro. Due di questi angeli tengono in braccio Gesù Bambino, poiché all’epoca le donne importanti facevano accudire i loro figli dalle balie. In maniera molto rivoluzionaria per l’epoca, Giuseppe si protende verso il centro della scena. In quegli anni, infatti, alla figura del padre putativo era stata riconosciuta la grande missione di avere accettato il disegno divino anche se fosse soltanto un uomo.

Così, anche le due lunette si pongono a simbolo del ciclo della vita e in maniera del tutto positiva rispetto al progetto che dall’alto era stato riservato all’uomo. Per questo motivo, si può dire che non solo la forma ma anche il significato pongono quest’opera al centro del movimento culturale del Rinascimento.

Umberto Saba

“Ed è il pensiero della Morte che, infine, aiuta a Vivere”

Miss Raincoat

Valtella in Love

Don Antonio Malacrida

Oggi vi spiegherò perché il personaggio più figo della saga dei Malacrida di Morbegno è il don Antonio. Quindi l’amore è tra me e lui 😀

Partiamo dalla sua nascita. Lui era figlio di Ascanio I (1680 – 1757) e Annamaria Peregalli. Ascanio è l’uomo che inizia lo scheletro dell’edificio del Palazzo ma, per via della numerosa prole, dovette “trà giù la cunta” – come si dice tra le nostre valli – ossia, abbandonare l’opera – che sappiamo fu portata egregiamente a termine dallo sforzo economico del figlio Giampietro, che la volle al passo con la moda settecentesca. Ascanio era sicuramente affascinante dentro (come l’Eroe Coronato nel Salone degli Stucchi) perché era una sorta di criminologo; tuttavia, il suo aspetto fisico lo ritraeva cicciottello e con il naso adunco. Fu sua moglie, bionda con gli occhi azzurri, a portare in dote la bellezza. La poveretta mise al mondo ben ventiquattro figli e morì nel 1731 mettendo al mondo Antonio, il più piccolo e il più bello. Da vedovo, Ascanio, che già era uomo prudente, diventò ansioso per la vita dei figli – dei quali solo pochi giunsero all’età adulta tutti generosamente miopi.

Il nostro bell’Antonio nasce il 27 maggio 1731 sotto il segno dei Gemelli (il fratello Giampietro era nato nel 1714!!!). Avrebbe tanto desiderato una carriera militare e non voleva finire come la sorella Francesca, diventata suora di clausura sotto il nome di Marianna Giuseppa due anni prima che lui nascesse. Eppure, suo padre, che con lui cresciuto senza mamma era ancora più apprensivo, aveva già pensato a una carriera ecclesiastica, che sarebbe sicuramente anche costata di meno per la famiglia. Così, dopo gli studi a Modena dove si laurea in Teologia e si appassiona anche al canto gregoriano, celebra la sua prima messa all’età di 25 anni, probabilmente presso la Gisèta di Morbegno (altro mio pezzo di cuore) – motivo per il quale, poi, il beneficio Mezzera di quella cappella passerà nelle mani dei Malacrida.

A questo punto, don Antonio pensa di poter levare le tende. Suo padre, però, impiega gli ultimi due anni della sua vita a convincerlo a restare a Morbegno. Fonda un canonicato soltanto per lui, in modo che abbia una buona rendita vitalizia, lo inserisce nei partecipanti attivi della fabbrica del San Giovanni di Morbegno (che terminerà nel 1780) e lo fa inserire come confessore delle monache di clausura al Convento della Presentazione (per la gioia delle suore, ohibò!).

Dovete immaginarlo così l’ Antonio: sano, alto, muscoloso, abile nelle conversazioni, un ottimo fantino e un esperto di botanica (il suo fiore preferito era il garofano). Non ci sembra strano capire perché, molto spesso, era chiamato a celebrare le messe solenni. Insomma, troppo bello per essere incline alla vita clericale.

Nel 1794 ottiene il giubilato per mantenere i privilegi concessi a Morbegno (ossia il denaro) pur risiedendo a Milano, in contrada Santa Prassede. Nella city vivrà più come un gentiluomo che come un prete e non si farà mancare nemmeno i festeggiamenti per l’incoronazione di Napoleone.

Torna a Morbegno solo nel 1805, prossimo alla morte, per farsi assistere dal nipote Ascanio II, che nominerà suo unico erede. Muore nel 1808 e i suoi funerali saranno i più sontuosi del secolo.

“Le Tre Grazie” di C. Ligari – 1761
Saloncello della Musica // Palazzo Malacrida (Morbegno)

Da “Uccelli di Rovo”

“L’uccello con la spina nel petto segue una legge immutabile; è spinto da non sa cosa a trafiggersi, e muore cantando. Nell’attimo stesso in cui la spina lo penetra, non ha consapevolezza della morte imminente; si limita a cantare e a cantare, finché non rimane più vita per emettere una sola altra nota. Ma noi, quando affondiamo le spine nel nostro petto, sappiamo. E lo facciamo ugualmente. Lo facciamo ugualmente”

Miss Raincoat

Josei Ukiyo

Josei Ukiyo sono io quando faccio finta di essere una scrittrice. ll mio pseudonimo è formato da due parole giapponesi che significano “giovane donna (josei)” e “mondo fluttuante (ukìyo)”. Scrivere, per me, non è mai stato solo un hobby. Lo è perché lo faccio aggggratisss, ma non lo è perché mi è necessario. Spesso, poi, mi affeziono dei personaggi che faccio nascere e crescere. Tengo anche un diario (segretissimo) dal 1998, grazie alla mia maestra di italiano (in fissa per Carducci). Ho un amante segreto che si chiama Kindle: il mio libro preferito è “Jane Eyre”; il mio autore preferito è Elias Canetti. Altre cose senza le quali non vivrei: musica, correre, i rossetti e gli aperitivi con gli amici.
Mi guadagno da vivere facendo la guida turistica in una provincia moooolto a nord della Lombardia. Mi piace molto viaggiare (le mie città preferite: Vienna, Copenaghen, Trieste e Parigi), anche se credo che il mio lavoro mi piaccia molto perché mi permette di raccontare i miei luoghi. Ovviamente, il mio mito lavorativo è Alberto Angela – anche se la mia vera icona sarà sempre Debbie Harry dei Blondie.

Ho deciso di raccogliere in questo post (che poi man mano aggiornerò) le mie favelle, che potrete leggere e scaricare tramite il link.

L’odore del Sole (2019) 75 pagine — le vicende si intrecciano attorno alla misteriosa sparizione della tela dell’Estasi di Santa Cecilia e alla fuga di una giovane donna da Varenna (LC) alla profumata e soleggiata Puglia. link: lodoredelsole

Come la Teodora di Manara (2020) 53 pagine — Un omicidio avvenuto nel Palazzo Malacrida di Morbegno (SO) non trova il colpevole come se fosse una partita a Cluedo. A ogni stanza il suo possibile assassino, celato dietro le illusioni ottiche dell’Arte del Settecento. Chi sarà il colpevole? [il racconto avrà anche un sequel]. link: comelaT

Jesus of Suburbia (2021) 17 pagine — L’incontro tra due sconosciuti alla stazione del treno di Sondrio potrebbe diventare salvifico nella risoluzione delle loro rispettive burrasche sentimentali. link: jesusofsub

[post in costante aggiornamento]

Josei Ukiyo

Andrea Lanzani a Morbegno

La committenza di don Giambattista Castelli di Sannazzaro

Per quanto riguarda l’Arte Religiosa, l’arciprete di Morbegno fu un mecenate equiparabile solo a Giampietro Malacrida e, non a caso, la Collegiata di Morbegno, da lui fortemente voluta, è considerata una pinacoteca del Settecento Valtellinese.

Proveniente da una delle più antiche e nobili famiglie morbegnesi (il Palazzo Castelli di Sannazzaro è sede del Municipio), prima di dedicarsi alla carriera ecclesiastica aveva conseguito una laurea in utroque iure (ossia in Legge) e viaggiato molto, specie in Austria. A Milano, era un canonico molto stimato, tant’è che aveva intrecciato numerose relazioni sociali sia nel mondo della cultura, sia nel mondo della politica. Rientra a Morbegno, la città natale, per rivestire la carica di arciprete e, appunto, sarà lui a dare impulso alla fabbrica del nuovo San Giovanni.

Vari dipinti che rivestono la chiesa provengono, infatti, dalla sua collezione privata; come per tanti nobili del suo tempo, amava comprarsi opere d’arte. Conosceva personalmente tutta la famiglia Ligari e il ciclo “maledetto” (dal furto del 1995) delle tele ovali “delle Sibille e dei Profeti” fu un suo capriccio che commissionò a Pietro. E fu lo stesso Castelli di Sannazzaro a chiedere allo stesso Pietro di accontentarsi di metà del compenso per la decorazione del presbiterio, in modo da lasciare una gloriosa opera di beneficenza sotto gli occhi di Dio. Ben diverso il temperamento del figlio Cesare, il quale lascerà la committenza al Palazzo Malacrida a metà perché non voleva essere pagato come un imbianchino.

Giambattista Castelli di Sannazzaro muore a Morbegno nel 1696. Il cantiere del San Giovanni, iniziato nel 1680, si protrarrà fino al 1780.

Andrea Lanzani (Milano, 1641 -1713)

Questa personalità artistica si fa portavoce della transizione dell’arte milanese dal Manierismo (sulla lezione di Leonardo) al Barocco. Ne deriva un’arte monumentale che, al contempo, provoca un’intensa partecipazione emotiva ed empatica.

Il Lanzani proveniva dall’Accademia Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo (cugino di San Carlo) per mettere la Cultura al servizio della Gloria di Dio. In parole povere, era la fucina dell’Arte della Controriforma che utilizzava l’immagine artistica come propaganda in antitesi alla Riforma: censurare il peccato e spettacolarizzare la santità per veicolare il messaggio che “se ti penti, sei ancora in tempo…”.

Don Castelli di Sannazzaro aveva in collezione vari pezzi dell’Accademia e, probabilmente, conosceva bene anche il Borromeo. Per la Cappella di San Giuseppe presso il San Giovanni, nonché la cappella di famiglia, sceglie e dona una tela del suo pittore preferito, Andrea Lanzani.

Nel 1674, il Lanzani si trasferirà da Milano a Roma dove entrerà in contatto con Carlo Maratta, un maestro che, a sua volta, aveva conciliato il Manierismo con il Barocco eludendo gli eccessi retorici: un’arte che va subito al dunque, severa e magniloquente. Il Lanzani porta questa innovazione a Milano. Si può dire che fu il modello per l’arte di due pittori valtellinesi del Primo Settecento, Pietro Ligari e Giacomo Parravicini detto il Gianolo.

“La Morte di San Giuseppe”

La tela che il Castelli di Sannazzaro regala alla cappella di famiglia, la Cappella di San Giuseppe, è firmata da Andrea Lanzani e datata 1679 sul manico del martello ai piedi del letto. In realtà, non la vide mai al suo posto perché la cappella sarà ultimata nel 1715. Lo stesso, lascerà un’altra opera del Lanzani alla Chiesa di Campovico, frazione retica di Morbegno (“Immacolata” del 1684).

Dai Vangeli Apocrifi, apprendiamo che San Giuseppe muore a 111 anni, sereno e circondato dall’amore. Era stato quell’uomo che, dal basso della sua umanità, aveva accettato il disegno divino e, perciò, gli fu concessa la grazia di una morte lieve.

Il Lanzani dipinge un Gesù che regge tra le sue mani la testa del padre putativo (“che si è comportato come tale”) e guarda verso l’alto, verso il Padre e glielo affida capovolgendo il ruolo genitoriale; gli Angelo che vanno incontro all’anima di San Giuseppe; Maria (la moglie) e Maria (la sorella) al capezzale. Il punto di fuga alto ci permette di cogliere bene tutta la scena, particolari compresi. Sparsi per terra ci sono i vari attrezzi dell’attività di falegname di Giuseppe.

L’opera esprime tensione e intensità nei volti che, con il loro dolore trattenuto, coinvolgono nel lutto lo spettatore. La composizione, comunque, sulla lezione del Maratta, non perde grazia poiché pulita e geometrica. Di fatto, anche con i colori luminosi già quasi proiettati nel Settecento, la scena è leggera e intima. La falcata di luce diagonale, molto meno violenta dello stile caravaggesco, illumina l’episodio di sacralità.

Anche a livello artistico c’è un transito: questa tela è antesignana di una Rivoluzione Artistica. La gioventù artistica lombarda era stufa della formalità di un’arte castigata e bigia; voleva il colore, la luce e l’aria. I motivi ricorrenti del Settecento italiano saranno, appunto, il colore vibrante, il volo e la prospettiva squarciata verso cieli infiniti.

Quelle di Morbegno, per il Lanzani, sono esempi della sua artistica giovanile. Pochi anni dopo si trasferirà a Vienna, da dove la sua carriera decollerà a livello europeo.

*il reliquiario in cera contiene le ossa
del Beato Andrea Grego da Peschiera

Miss Raincoat

Giovanni Gavazzeni & Rosa Pirola

Talamona, 1841 – 1907

Nel cuore del borgo di Talamona, in Casa Mazzoni, poco distante dalla chiesa parrocchiale, una casa silenziosa e celata dagli alberi, il pittore Giovanni Gavazzeni si era arrangiato la sua casa-studio.

Era un uomo taciturno, schivo, meticoloso – un orso buono. Aveva trascorso tutta la sua giovinezza all’Accademia Carrara di Bergamo, lontano anche dagli schiamazzi anti-austriaci (per quanto, al compimento del diciottesimo anno di età, lasciò per un breve tempo gli studi e marciò con Garibaldi su Sondrio).

Decise di tornare a casa sua, nel suo paesello orobico, lontano dal caos cittadino che detestava, e lì venne apprezzato dalla committenza ecclesiastica, nobile, borghese e perfino contadina. L’Accademia Carrara, lontana dal rettorato innovativo di Hayez a Brera , si ispirava al Settecento Veneziano e a Raffaello. Il Gavazzeni, anche se molto incuriosito dal tema romantico dell’incubo notturno, rimase sempre fedele al tema sacro inserito in paesaggi idilliaci o in interni dettagliatamente ottocenteschi. Quello che lui ricerca sono le emozioni semplici. Quello che lo ossessiona solo le cromie intense studiate scrupolosamente.

La critica, non trovandolo al passo con i tempi, lo snobba. Eccetto lui, sua maestà Vittore Grubicy De Dragon, il pittore-critico e mercante che aveva scoperto per esempio Segantini (amico del Gavazzeni e anche del Damiani). Lo incuriosirono, del Gavazzeni, i suoi sentimenti trasparenti così diversi dall’artificialità ampollosa dell’arte sacra tardo-ottocentesca. La definì un’arte delicatamente schietta, poiché l’artista aveva nel cuore un misticismo personalmente sentito.

Non sappiamo dove e quando cominciò l’intensa e tenera storia d’amore con Rosa Lucia Pirola di Masino (Ardenno), nata nel 1850 e figlia di Francesco, che concesse la mano della figlia al pittore di buonissima fama locale il 6 febbraio 1873 nella chiesa di San Pietro al Masino. Rosa seguirà il marito nella casa-studio di Talamona e lui la trasformerà nella sua Musa. Il desiderio inesaudito di diventare genitori, anche un’onta ai tempi, diventerà il tema nascosto e ricorrente della sua arte, anche se nel 1892 adottarono i figli del cognato, rimasti orfani (Carlino, Giovanni e Guido Pirola) – che fecero vivere nell’agio, viaggiare, studiare e amarono calorosamente.

Le sue Sacre Famiglie, come la Sacra Famiglia dei Fratelli Ciapponi in Via III Novembre a Morbegno, sono sempre pervase da un clima intimamente famigliare. Rosa, è sempre il volto di Maria, un volto dai lineamenti aristocratici; una Madonna rappresentata come madre timida e affettuosa. Il San Giuseppe, sempre anziano e sempre un autoritratto, si protende verso il Figlio ed è devoto e protettivo verso Maria.

L’amore per Rosa, nonostante tutto, non ha eguali nella vita affettiva del Gavazzeni. Forse, l’unica eccezione, potrebbe essere il legame d’amicizia quasi paterna con il poeta Guglielmo Felice Damiani (1875-1904). Insieme, furono pionieri della Storia dell’Arte della Bassa Valle.

Il Gavazzeni morì in casa sua a Talamona, a fine novembre, per una pleuropolmonite. Stava ultimando il Cristo Redentore per il Cimitero di Sondrio. Il caso vuole che, in carriera, per la Collegiata di Sondrio, aveva realizzato il Transito di San Giuseppe, dove Rosa, impersonificando Maria, gli bacia teneramente e disperatamente le mani; tre putti attorniano il capezzale (dei quali uno ci invita dentro la scena guardandoci fisso); Gesù, triste e composto, lo eleva al Cielo come suo padre putativo.

Il nostro pittore valtellinese riposa in pace nel Cimitero di Talamona. Sulla sua tomba, vicino al monumento di Egidio Guanella e la copia del Redentore, porta l’epitaffio <illustrò la fede con il pennello>.

Miss Raincoat

°*Letture consigliate dall’Unicorno°*

  • Giulio Spini, Renzo Fallati, Eugenio Salvini – “Giovanni Gavazzeni 1841- 1907”
  • Mario Vergottini, Simona Duca, Giampaolo Angelini – “Giovanni Gavazzeni . Pittore nella Valtellina di Fine Ottocento”
La “Madonnetta” – ossia il luogo dove ho conosciuto il Giovanni ❤

Fuori Cantina // Degusta Morbegno 2020

Dietro le Quinte

Quando ho saputo che per tre weekend avrei dovuto starmene insieme ai fantasmi dei Malacrida, mi trovavo in un bosco in loc. Bruciate, appena sopra a Selvetta – umile frazione di Colorina. Al telefono mi sono sentita dire “Ecco, brava siediti su un ceppo perché ho un compito da affidarti e non puoi dirmi di no!”.

Eccoci qui, le tre settimane sono finite. Assolutamente, penso che l’abbinata alla degustazione enogastronomica all’assaggio delle opere artistiche del Palazzo Malacrida sia stata totalmente esplosiva per tutti i cinque sensi. Edificante anche per me che ero lì a raccontare le storie delle donne dei Malacrida – di Doralice Greco e di Annamaria Peregalli (le due più apprezzate), di Cesare Ligari che a un certo momento ha lasciato il cantiere sbattendo le porte (apparentemente storte oppure finte), della Grazia che cambia peso a seconda del punto di osservazione, dei tradimenti di Giove, dell’Eroe senza una gamba, dei colori mozzafiato regalati a una sala d’onore che trasuda Illuminismo, di un gatto nero e, infine, di un’alcova con affaccio su Scimicà, quella zona di Morbegno che domina, senza respiro, i tetti del Centro Storico…

Quindi, in primis, bisogna ringraziare i turisti degustatori che hanno fatto in modo che questa (speriamo nuova) edizione covid free (perché su prenotazione, contingentata, mascherinata, al tavolo e con uscite ed entrate diversificate) delle storiche Cantine sia stata un successo. Chiaramente, senza di loro ci saremmo semplicemente bevuti una birretta tra di noi parlando del più e del meno – a gruppetti di sei, ovvio. Ma non sarebbe stata la stessa cosa, perché avrebbe fatto morire quell’idea di turismo slow che tanto fa bene alla nostra Bassa Valle. Ma non sarebbe stata la stessa cosa, perché a noi piace aprirvi le nostre porte e ci piace che diffondiate la vostra esperienza fuori dai confini del Forte di Fuentes, alle porte della Provincia. Siamo stati bravi a sognare, credere e a mettere in scena un turismo possibile anche in questi tempi virali. Perciò, siccome fa bene alla salute, gongoliamo due secondi, ma a mani giunte (e igienizzate) per augurare loro meglio e lasciarli con un arrivederci.

La Squadra del Malacrida, ossia quella del percorso Vini Bianchi a Palazzo (dei quali parleremo in un altro post) è stata messa su con le persone più ossessivo-compulsive trovate in giro nei peggiori vicoli di Morbegno. A parte gli scherzi, la riuscita del nostro piccolo tassello in questo evento non sarebbe filata così bene se io, i sommeliers dell’AIS Lombardia/Delegazione Sondrio (capitanati dalla delegata Elia Bolandrini, una donna dall’energia poliedrica ed eclettica) e i volontari della Pro Loco di Morbegno (con Bryan Pace che ci ha cronometrati, spronati e condotti alla meta come un allenatore durante una staffetta) non avessimo collaborato metodicamente cercando di non accoltellarci con i coltelli dello Chef Luca e, ovviamente, senza fumarci il rosmarino – abbiamo fatto branco in simpatia e buona lena, quindi. Un’esperienza lavorativa abbastanza faticosa, lo ammetto (talmente tanto che nemmeno un piatto di pizzoccheri riusciva a sfamarmi, altro che la Fiesta di quella pubblicità…), però anche indelebile, che ti fa dire “l’anno prossimo lo facciamo ancora, vero?”

❤ Miss Raincoat

Qui potete vederci tutti, ma proprio tutti, all’opera ❤