“La Medicina” di Gustav Klimt

Gustav Klimt

“Ne ho abbastanza della censura. Adesso faccio da me. Desidero liberarmi da tutte queste stupidaggini che mi impediscono di lavorare”
430 x 300 cm
olio su tela
1901-07
(ricostruzione by Google)

L’Università di Vienna aveva commissionato a Gustav Klimt un ciclo pittorico che celebrasse e rappresentasse tranquillamente l’utilità delle facoltà insegnate nell’ateneo: la Filosofia, la Giurisprudenza e, appunto, la Medicina. Lui si mise anche d’impegno, con il suo solito essere schivo e poco autocritico. Fu la critica a distruggerlo: gli disse che sarebbe stato motivo d’imbarazzo per l’Università perché la sua opera era indecente e rasente alla pornografia.

I tre dipinti, detti appunto i Quadri delle Facoltà, non trovarono mai né pace né una collocazione stabile, nessuno li voleva perché erano macchiati di peccato, finché non arrivarono nel Castello di Immendorf, l’umile dimora di un collezionista. Nel 1945 scomparirono dall’esistenza durante un incendio appiccato dalle truppe tedesche in ritirata. Gli unici fotogrammi a colori che erano rimasti appartenevano alla Medicina, ricostruita tramite l’intelligenza artificiale da Google nel 2021.

Il dipinto non è rassicurante, è un’oscura profezia.

Siamo davanti a un ammasso di corpi nudi, disposti a grappolo (simbolo di Passione, del tormento esistenziale), i quali rappresentano gli stadi della vita: nasco, cresco, imparo cosa sono il godimento e la sofferenza, mi riproduco, invecchio, muoio. Queste figure, più che volare, fluttuano nel cielo. Il soggetto più centrale è la Morte, che cerca di avvolgere tutte le altre figure con un velo scuro. La donna a sinistra rende la composizione (e lo scorrere della vita) asimmetrica. Rappresenta la liberazione dal dolore, che con il suo braccio sembra imitare la Creazione di Adamo di Michelangelo. A differenza dell’uomo, una donna, con la sua spinta generatrice, è capace di abbandonarsi all’amore senza riserve (l’uomo è di spalle, perché si vergogna del fatto che la virilità non è nulla al confronto di questa forza-femmina). L’uomo rappresenta parimenti l’unione di opposti che, conciliandosi tramite il sesso, crea la vita (il bambino ai piedi, protetto dal velo trasparente, quello della vita, si oppone alla Morte). L’Amore è la vera medicina.

In primo piano c’è Igea, inespressiva e regina, l’impersonificazione femminile della Medicina. Volge le spalle all’umanità, lei è indifferente al dolore perché non lo conosce. Pensiamola un po’ come l’Oki. Veste di rosso, è fedele e casta come solo la Scienza può essere. La sposa romana, come lei, indossa il flammeum, questo velo rosso che la mostra vergine, pura e immune – con il quale Igea cerca di coprire maldestramente l’umanità come fa la Morte, sono avversari in questo. Igea disseta il serpente con la coppa della vita, per quanto la medicina cerchi di ristabilire la salute, non riesce a rendere irreversibile la morte. Si dice che solo alla morte non ci sia riparo e che, davanti al tempo dell’Universo,l’uomo non abbia che le dimensioni di un granello di sabbia. Per questo l’umanità brancola nella disperazione. Meno male che c’è la vagina, diceva Klimt!

In effetti, le donne che ci mette davanti sono nude e crude e una è addirittura in stato interessante (mi sono sempre chiesta perché, se è interessante, vada coperto). La malizia è negli occhi di chi guarda, di solito. A dire il vero, l’accusa che gli si muoveva era soprattutto l’essersi disallineato con il pensiero della committenza, di non parlare di Medicina in termini di prevenzione e cura. Gli dissero che il suo dipinto era scabroso e, allora, ci mise dentro tutta la sensualità che sapeva dipingere, contorta, ambigua e ammiccante.

Klimt.

L’uomo che vedeva la vita in oro, il colore che più rappresenta la caducità della vita. Vivitela adesso, al massimo; la ricchezza non te la puoi portare dietro. Ossia, come se la sessualità fosse un semplice ma esaustivo modo per ingannare il tempo che ci separa dalla notte eterna, il buio senza brillantini.

L’uomo che amava le donne fino ad averne paura. Nel suo studio trafficavano parecchie donne della borghesia viennese, ma lui non si legò mai a nessuna e, soprattutto, si guardò bene dallo sposarsi. Preferiva, forse, i gatti.

Il corpo delle donne, fragile, è capace di contenere la forza della vita. E, per motivi primigeni, le donne diventano le giustiziere degli uomini, tramite l’amore, l’invenzione più languida e diabolica al Mondo. Un essere dis-umano che racchiude potenza, erotismo, dolcezza e maternità come può non terrorizzare?

Klimt, poco tempo dopo aver dipinto la Medicina, realizzò l’iconica Danae (cfr. sopra), metafora della sua visione della sessualità e della sensualità femminile.

Nella mitologia, Giove amò a tal punto Danae, da riuscire a trasformare la sua voglia di possederla in pioggia d’oro, qualcosa di talmente leggero da entrarle dentro in modo prezioso.

Con la Danae, Klimt rappresenta in particolare il momento dell’estasi durante l’autoerotismo, un orgasmo. L’uomo riesce a entrare nella donna tramite qualcosa di immateriale, un sogno, pioggia d’oro appunto. Se ti entra nella testa, ti è entrato anche nelle mutande.

Oggi le notizie sono due. Una: il Portogallo, fregandosene di essere in Unione Europea, dal 1 dicembre al 9 gennaio ha imposto a chiunque entra/esca il tampone molecolare (quindi il green pass, anche super sayan, non viene considerato sufficiente). Due: ho prenotato la terza dose di vaccino per appena dopo le Feste. Credo nella Scienza e le chiacchiere sull’argomento per me sono aria fritta.

Miss Raincoat

Blanche Knott, scrittrice attivista

Le donne si dividono in quattro categorie: le suore, le puttane, le stronze e le rompiballe. Le suore non la danno a nessuno. Le puttane la danno a tutti. Le stronze la danno a tutti tranne che a te. Le rompiballe la danno a te, solo a te, sempre a te

Valtella in Love

Giovanni e Amalia Venosta

Oggi ci portiamo in Alta Valle, precisamente a Mazzo di Valtellina (diventata famosa perché qualche anno fa vi si aggirava un orso turista) e a Tovo di Sant’Agata, entrambe terre dei Venosta, provenienti da Matsch in Tirolo.

Le fortificazioni dei Venosta dovevano proteggere l’accesso alla Valle tramite il Passo del Mortirolo. Ciò che ci rimane di questa rete strategica a sono la Torre di Pedenale, parte di un castello collocato tra i boschi sopra il borgo di Mazzo, e il Castello di Bellaguarda a Tovo. Le due strutture, entrambe del XII secolo, furono smantellate – così come gli altri edifici di difesa valtellinesi – a causa del famoso incendio voluto dai dominatori delle Tre Leghe a fine Quattrocento.

Torre di Pedenale (Mazzo)

La nostra storia ha teatro a Tovo, tra i castagneti a più di settecento metri di altitudine, dove nascono rigogliosi e profumati i ciclamini selvatici. Giovanni Venosta di Mazzo aveva promesso amore eterno ad Amalia, figlia del Signore di Tovo, che abitava sulla rocca a pianta triangolare che svetta sulla radura sfruttando le varie contropendenze del terreno, la Bellaguarda. Ci collochiamo cronologicamente nel 1635, durante la Campagna del Duca di Rohan.

Dopo il Sacro Macello del 1620, la Valtellina era inevitabilmente diventata uno scenario della Guerra dei Trent’Anni, nella quale i nobili cattolici valtellinesi si erano uniti alla causa della Spagna. Nella prima fase, le Tre Leghe simpatizzavano per la Francia che, nel 1635, vinse Valtellina; allora, nella seconda fase, cambiarono partito e sostennero la Spagna. Nel 1635 la Francia calò nuovamente in Valtellina l’esercito comandato da Rohan, con quartiere generale a Tirano, il quale non solo non era intenzionato a restituire il territorio, ma se ne serviva pure come ponte per attaccare la Spagna “italiana” (ossia il Ducato di Milano). Giovanni Venosta militava a fianco dei francesi; il padre di Amalia, invece, faceva parte del clan del Robustelli. I cruenti avvenimenti del Sacro Macello, infatti, erano stati fomentati dal grosottino Giacomo Robustelli (sposato con una Planta, famiglia a capo della fazione cattolica delle Tre Leghe) coadiuvato dal duca di Feria, governatore di Milano, il quale aveva attirato a sé vari nobili locali cattolici poco affini alla politica grigiona. Nonostante nel 1635 si fosse trasferito a Domaso, che a quei tempi faceva parte del Ducato di Milano in mano agli spagnoli, riusciva ancora ad esercitare pressione sul suo partito, tant’è che parecchi nobili che lo avevano sostenuto nel massacro dei protestanti valtellinesi, continuavano ad opporsi anche alla pace tra Tre Leghe e Spagna. La Guerra, purtroppo, andò avanti fino al 1639 e le Tre Leghe riuscirono nell’intento di ritornare a governare la Valtellina.Il padre di Amalia si oppose fermamente al matrimonio con Giovanni e non solo per questi giochi di scacchiera; soprattutto, perché Amalia era già stata promessa a qualcuno di più prestigioso, ossia al nipote del nuovo governatore spagnolo di Milano, il cardinale Albornoz. Tuttavia, il loro amore clandestino andò avanti infuocato, finché…

A questo punto, storia e leggenda si fondono. Sappiamo dell’esistenza storica della Battaglia di Mazzo del 3 luglio 1635. Il Rohan aveva ritirato le sue truppe a Tirano; a Mazzo, intanto, come beffa, il papà di Amalia aiuta a nascondere degli uomini dell’esercito spagnolo tra muri, giardini e campi. Durante il controattacco, Rohan, grazie all’astuzia di far crollare il ponte sul fiume Adda, riesce ad imprigionarli (tant’è che molti, per morire con più gloria, preferirono suicidarsi gettandosi in acqua): ne morirono a centinaia. Rohan si vede costretto ad assalire anche la rocca di Bellaguarda, dato che era stato sfidato. Amalia, che già aveva visto andarsene la madre in tenera età, muore di crepacuore poco dopo che il Rohan lascia il cadavere di suo padre riverso a terra nel sangue.

Rientrato a Tirano, Rohan dà la notizia della vittoria al suo esercito. Il capitano Giovanni Venosta, che non aveva partecipato attivamente alla battaglia di Mazzo, non può permettersi di festeggiare e chiede al comandante di potersi recare sul posto. Purtroppo, trova la sua amata Amalia già sepolta e decide, sui due piedi, che il suo cuore non sarà più di nessun’altra e, perciò, di ritirarsi in un convento.

I sentieri che portano al Castello di Bellaguarda sono solcati da un torrente di fama sinistra. Esso infatti, non si può vedere (o meglio, quando emerge porta solo sciagure), ma silenzioso e invisibile, ha scavato la roccia sottostante dando origine a numerose forre. Le piante fitte che mettono in ombra il poggio, inoltre, sembrano essere, tramite il vento, animate da lamenti simili a quelli di una donna che piange. Nella sua fuga disperata, Giovanni in sella al suo focoso destriero nero, perse la vita cadendo in un precipizio, rimanendo eterno nelle terre dell’uomo che gli negò la felicità.

Castello di Bellaguarda (Tovo)

Miss Raincoat

dal film “Tristano e Isotta”

“Oggi, al mercato, ho visto una coppia che si teneva per mano. Noi non potremo mai farlo. Mai per noi queste cose, mai un anello. Solo attimi rubati che fuggono troppo in fretta” Isotta

Valtella in Love

Chi è la misteriosa donna ardennese di Salvatore Quasimodo?

Eccoci qui per un altro appuntamento romantico tra i borghi della Valtellina. Oggi ho scelto Ardenno, borgo della Bassa Valle, incuneato nella curva ad esse che aggira la Colmen (Culmine di Dazio) proprio sotto alla Val Masino. L’etimologia del toponimo è piuttosto ardua da decifrare. Il Guler, storico delle Tre Leghe, ci ha parlato delle estati infuocate, ardenti, che costringevano gli abitanti a trasferirsi nelle località più a monte – ma il Guler risulta un fantasioso esagerato, frattanto, quando descrive le origini dei nomi dei paesi valtellinesi. Io credo molto nella tradizione cattolica che lega Ardenno a San Lorenzo, martirizzato su una graticola ardente oppure in quella pagana delle popolazioni germaniche che la lega ad Arduena, ossia Diana – la dea delle Selve.

Salvatore Quasimodo, il poeta di poche parole e dal rapporto difficilissimo con le donne e l’amore, nel 1934 è a Sondrio. Non in villeggiatura come amava fare il suo collega Carducci a Madesimo, ma in castigo. Abitava a Milano, in realtà, dove lavorava come geometra presso il Genio Civile. La sua condotta non doveva essere tra le migliori, tant’è che il suo Capo, tra le cose avverso al suo essere un poeta, lo confina in Valtellina. Precisamente, il Quasimodo avrebbe dovuto lavorare negli uffici di Piazzale Lambertenghi, sul Mallero, dove oggi troviamo gli Uffici dell’Agenzia del Territorio, anche se spesso veniva richiamato per inconcludenza. Di fatto, se ne stava spesso e volentieri sul treno per Milano dove, nel tragitto, passava il tempo cercando di sedurre le maestrine, come le chiamava lui – le più giovani ed inesperte maestre delle scuole elementari. Immaginiamoci un trentacinquenne moro e affascinante che si presenta come poeta e comincia a parlare loro dei miti greci quasi senza pudore…

Quando viene pubblicata la raccolta “Ed è subito Sera”, sono già passati circa dieci anni dal suo soggiorno in Valtellina. In questa edizione del 1942 sono contenute ben due poesie che parlano di Ardenno, quindi il ricordo era ancora bello denso.

“La dolce collina”

Questa poesia è molto conosciuta perché è anche turisticamente utilizzata per pubblicizzare Ardenno. Durante una giornata di pioggia il poeta si trova ad Ardenno. Lui non chiama il borgo per nome (se escludiamo l’immagine degli alberi bruciati dai fulmini), ma lo descrive: c’è il fiume Adda che scorre, un gruppo di case scure e il profilo arrotondato della Colmen. Sta scrutando il cielo come farebbe chi consulta l’oroscopo e pensa al futuro con uno sguardo al passato. Il suo pensiero è rivolto a una donna vestita di verde e con un fiore di corallo tra i capelli che incontrava di nascosto tra le canne delle rive. L’immagine della collina simile alle forme sinuose femminili è ben comprensibile; invece, il fiore color corallo io penso che possa essere un pretesto per inserire la metafora del fiore dell’ibisco, simbolo di bellezza fugace. I fiori dell’ibisco, leggeri e delicati, durano solo un giorno, ma essendo tropicale, è anche molto seducente ed esotico. Per il Quasimodo, avere una storiella con la sua personale Diana, una “selvaggia” (in effetti, la Valtellina non gli piaceva affatto, l’aveva definita come un deserto di ghiaccio) lo aveva distolto dalla noia delle giornate sondriesi tutte uguali, a suo dire. Non penso che fosse una donna molto acculturata, dato che nella seconda poesia parla di “cupo dialetto” e penso che fosse poco più che adolescente. Sicuramente, non era una delle scafate donne d’élite che lui era solito frequentare.

***

Lontani uccelli aperti nella sera
tremano sul fiume. E la pioggia insiste
e il sibilo dei pioppi illuminati
dal vento. Come ogni cosa remota
ritorni nella mente. Il verde lieve
della tua veste è qui fra le piante
arse dai fulmini dove s’innalza
la dolce collina d’Ardenno e s’ode
il nibbio sui ventagli di saggina.
Forse in quel volo a spirali serrate
s’affidava il mio deluso ritorno,
l’asprezza, la vinta pietà cristiana,
e questa pena nuda di dolore.
Hai un fiore di corallo sui capelli.
Ma il tuo viso è un’ombra che non muta;
(così fa morte). Dalle scure case
del tuo borgo ascolto l’Adda e la pioggia,
o forse un fremere di passi umani,
fra le tenere canne delle rive.
“Sera nella Valle del Masino”

In questa poesia non c’è niente di simpatico verso il nostro territorio. Lo perdoniamo perché Quasimodo, uomo siciliano, era stato obbligato al clima pungente invernale delle nostre Alpi per punizione e, si sa, lui detestava il potere imposto. L’ambiente qui, non era mondano come Milano e, soprattutto la sera, quando tutto si spegneva, lui era obbligato a riflettere. Aveva una relazione tormentata con Marta (la scrittrice Sibilla Aleramo): si scrivevano e, in questo periodo, si vedono soltanto una volta in totale segreto in una stanza dell’Hotel della Posta a Sondrio. Un altro motivo che creava repulsione al luogo per Salvatore, inoltre, era il fatto che l’indimenticabile primo vero amore di Marta fosse il poeta morbegnese Guglielmo Felice Damiani, morto giovane anni prima, nel 1904. I sentimenti che lui prova incastrato tra le vette gelide erano la tristezza, il tedio, la nostalgia, il rimpianto e anche un po’ d’amore. Possiamo immaginare che ad Ardenno abbia trovato davvero un po’ di calore “ardente”, per dimenticare e per svagare la mente. Un’altra ipotesi che mi sono fatta, in relazione alla simbologia funebre di entrambe le poesie (ibisco, spirale, luna, corvi, etc..), è che la sua donna misteriosa di Ardenno morì durante “l’esilio valtellinese”, probabilmente di tubercolosi. Ho anche collocato geograficamente queste poesie in località Ponte del Baffo, la prima curva salendo verso la Val Masino, dove era sita l’Osteria del Baffo.

***

Nello spazio dei colli,
tutto inverno, il silenzio
del lume dei velieri:
fredda immagine eterna
navigante! E qui risorge.

Presto la rana cresce il verde:
è foglia; e l’insetto di spine
s’avventa sull’erbe dei canali.
I mulini tentano le ruote,
deserti, all’acqua che si piega.

Non udrò ancora fragore del mare
lungo i lidi dell’infanzia omerica
il libeccio sull’isole
funebre a luna meridiana,
e donne urlare ai morti cantando
dolcezze di giorni nuziali.

E tu come la terra
riappari a volte, e mi deludi
discorde. Basta così poco tempo
per morire da vivi.

Nella veste di colore infantile
inventi il passo d’una spirale
al timpano che imita la notte.
Ma il tuo volto dilegua in tonfi,
in cesure straziate.

Tornano già i prati alla valle; forte
il lamento del corvo. Che certa
presenza, cara, di vita! Avverto
la sera alle tempie, e l’allarme
è un canto di cupo dialetto.

Nulla rimane della mia giornata.
Mi sorprende immutabile la noia
misericorde a ogni gioia apparsa
e alle radici subito indurita.

Calma notte superiore
volontà di consensi,
mi forzerò in così stretta misura
d’ingenua sapienza,
in tutto il freddo pietoso
serrato dentro il mio corpo
.

Miss Raincoat

“Ophelia” di John Everett Millais

Ormai l’avrete capito che i Preraffaelliti mi piacciono assai!!!

Sappiamo che gli artisti della Congregazione dei Preraffaelliti, tra le cose, attingevano dal repertorio degli scenari shakespeariani. Qui ci troviamo nel momento tragico dell’Amleto (ce lo ricordiamo tutti, è quello che parla con il teschio in mano!!!):  la sua fidanzata Ofelia si lascia annegare in un ruscello perché lui la respinge (in realtà si stava solo fingendo pazzo per vendicare la morte del padre).

La tela dalla strana forma smussata (perché studiata per stare dietro alla testiera di un baldacchino, con molta gioia…) fu realizzata in due fasi. Lo sfondo viene dipinto dal vero in campagna, nel Surrey più precisamente. Ogni pianta dipinta ha un valore simbolico: bisognerebbe essere degli esperti botanici per riconoscere tutte le specie, ma riusciamo sicuramente a distinguere il salice piangente (amore non ricambiato), l’ortica (dolore), le rose (gioventù), le margherite (innocenza), il papavero (morta) e, ovviamente, gli eloquenti non-ti-scordar-di-me. Il soggetto femminile, invece,  fu ritratto in studio: per riprodurre fedelmente l’annegamento, il pittore fece rimanere immersa la sua modella in una vasca fino a provocarle la bronchite e dovette anche pagare un indennizzo al padre della ragazza per le cure.

A proposito di questa modella, Lizzie Siddal, figura chiave dell’iconografia preraffaellita e futura moglie di Dante Gabriel Rossetti:ho appena archiviato il libro “Lizzie” di Eva Wanjek. Così come viene dipinta, la giovane donna dai fluenti capelli rossi sembrerebbe una vergine eterea, strana solo per la sua connotazione sensuale. Eppure, era una donna difficile, patologicamente depressa e assuefatta dal laudano (era un mix di oppio e alcool, utilizzato come antidolorifico ma evidentemente un narcotico). Fu la compagna di una vita del premier dei Preraffaelliti, abbiamo detto, eppure il loro matrimonio tardò ad arrivare: la Siddal era più povera, più malata e più fedele di lui. Inoltre, dopo le nozze, la fragilità di Lizzie le fa mettere al mondo una bambina morta, uno dei motivi per i quali si suicidò con una dose massiccia appunto di laudano. Nella sua tomba, Dante fece sotterrare tra anche il quaderno con le poesie erotiche che aveva scritto durante la loro longeva e travagliata relazione. Anni dopo, lo stesso Rossetti (che ormai era drogato/alcolizzato), fomentato anche dal suo agente impostore, volle riesumare la raccolta di poesie al fine di pubblicarle. La leggenda vuole che il cadavere di Lizzie fosse ancora bellissimo e che i suoi capelli rossi avessero continuato a crescere…

Che ne sarà di Rossetti? Il libro di poesie è stato pubblicato solo qualche anno fa e noi lo ricordiamo più nel suo essere stato uno straordinario pittore. Da uomo comune, invece,  morì solo, folle e disperatamente ancora innamorato di Lizzie. 

Il Racconto d’Inverno di William Shakespeare

“Narciso che arriva dove la Rondine ancora non osa/e resiste in bellezza ai venti di Marzo”

*Tate Gallery” di Londra, 1852

❤ Miss Raincoat

“L’isola dei Morti” di Arnold Böcklin

How happy is the blameless vestal’s lot! | The world forgetting, by the world forgot. | Eternal sunshine of the spotless mind! | Each pray’r accepted, and each wish resign’d.  Alexander Pope in “Eloisa to Abelard”

L’isola dei morti è una roccia scura, all’interno della quale è stato scavato  un mausoleo. L’iconografia dei cipressi, legati al lutto, e la loro cromia verde-scuro esprimono il silenzio religioso dell’ambientazione.

Su uno specchio di acqua livido e immobile, come un lago di lacrime, si fa avanti un’imbarcazione, un traghetto di anime di chiara evocazione dantesca. L’isola è anche un luogo che si può raggiungere solo dopo aver navigato per mari ed è, quindi,  una speranza augurale per i nostri defunti.

L’anima trasportata è vestita di bianco, leggera e  finalmente distaccata dalle sofferenze della vita terrena. Anche la bara è bianca: la persona è andata via troppo presto… Durante gli anni della stesura dell’opera Böcklin aveva perso la figlia Maria (i cipressi richiamano anche Firenze, dove lei è sepolta): eppure riesce a trasformare il suo pianto in un’opera corale.

L’opera, di per sé, è realistica: non è che un paesaggio. L’isola potrebbe ispirarsi parimenti al Castello di Ischia, a Pontikonissi vicino a Corfù o all’Isola di San Giorgio in Montenegro. L’artista, del resto, fu un viaggiatore irrequieto innamorato dell’Italia; abitò a Roma, a Lerici e a Fiesole (dove morì).

Il pittore svizzero realizza una serie di cinque varianti dello stesso soggetto tra il 1880 e il 1886 – seguito dall’Isola dei Vivi del 1888, cambiando solo luce, colori e dettagli (qui la terza versione, che è la mia preferita). Il primo (il cui titolo era, inizialmente, “Un luogo tranquillo”) fu realizzato per il ricco committente e mecenate Alexander Günther, gli altri per la contessa Marie Berna, rimasta colpita dal dipinto (il quarto venne distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale; Hitler ha posseduto il terzo). L’opera, l’esempio per eccellenza del Simbolismo, venne presa come spunto da pittori metafisici o surrealisti come Dalì o De Chirico.

Il significato dell’opera è difficile da spiegare. Per quanto sia vero che parli di morte, lo fa senza citarla e senza interpretarla. 

Davanti a quest’opera ci è permesso pregare  così come siamo capaci. E davanti a quest’opera ci si pone, con estrema sincerità, la domanda arcaica del “dove andremo a finire?”

Fa pensare a quei giorni di silenzio carico di dolore dopo che una persona muore, però evoca anche serenità, l’auto-convinzione che esiste qualcosa al di là del velo. Böcklin riesce a riempire una tela con il vuoto incolmabile che lascia una persona quando muore. 

**  E come non pensare a te?**

❤ Miss Raincoat

 

“Avvampante Giugno” di Sir Frederic Leighton

Flaming June dei BT

“Dreamy days in my room/by your side as we bloom/colors blend and face/in cheerished moments like these”

Questo dipinto, dedicato ad un giugno del tutto rovente, viene considerato il capolavoro di questo artista di Epoca Vittoriana.

** 1895, Museo de Arte a Ponce (Porto Rico)

Il viso della naiade (ninfa delle acque dolci), ritratta mentre dorme, dovrebbe appartenere a Mary Lloyd, figlia di un latifondista in bancarotta e che evitò di apparire nuda nelle opere rese pubbliche. Tuttavia, la riproduzione quanto più naturale (specie del braccio piegato) richiese varie bozze, alcune anche di nudo.

Leighton s’ispirò alla sua statua preferita, “La Notte” di Michelangelo per le Tombe Medicee (di Giuliano de Medici). Qui, però la figura è svincolata dalla solennità tipica dei monumenti funebri.

La Notte è rappresentata come una personificazione femminile, semidistesa e nuda, come le altre statue della serie. Essa ebbe come modello, forse, le rappresentazioni antiche della Leda o di Arianna dormiente. Tra le varie letture iconologiche proposte, si è vista la statua come emblema dell’Aria o dell’Acqua, del temperamento melanconico e della fecondità della notte. Gli attributi sono sparsi attorno alla figura e non come di consueto impugnati. Essi sono la civetta (animale notturno), un mazzo di fiori che forse rappresentano papaveri (sia simbolo di fertilità che di sonnolenza in quanto oppiaceo), e la maschera, che può significare i sogni notturni o la morte, intesa come sonno del corpo in attesa della resurrezione. (Da Wikipedia)

Come in tutte le opere di quest’epoca, il realismo si esprime tramite le textures dei materiali: la trasparenza della stoffa, la perfezione del marmo e la luce del tramonto, scelta per le sue tonalità dorate e preziose.

La protagonista non sta dormendo, ma è pigra, non vuole svegliarsi. Tiene gli occhi chiusi anche se sa che la stiamo guardando. L’oleandro accanto a lei, un fiore nocivo, le ricorda, come un dono galante, che sognare troppo è pericoloso e che morte e sonno sono simili. Così, la tavolozza fluorescente, ci invita a vivere la frivolezza dell’Estate, quando ancora tutto può accadere!

❤ Miss Raincoat

“L’origine dell’Arpa” di Daniel Maclise

Daniel Maclise, ritrattista ottocentesco, benché lavorò e consacrò il suo operato a Londra, in realtà era nato a Cork, in Irlanda, ed era approdato nella capitale grazie ai suoi risparmi. Non fece fatica a fare successo poiché nei suoi temi storici riusciva a fondere intelletto ed immaginazione.

Questo dipinto ovale presenta i tipici colori del pittore, che definirei metallici, come se il supporto fosse una lamina e non un foglio. La composizione è del tutto occupata da una sirena (senza coda, è una bella donna nuda con la chioma fulva) che si sta trasformando in un’arpa; la  metamorfosi non è ancora giunta al termine, infatti le corde dello strumento sono le ciocche di capelli. Tuttavia, questa scena che sembra essere stata strappata da un moderno romanzo fantasy, è politicamente coinvolta nella sanguinosa questione della ricerca dell’identità nazionale irlandese.

L’Arpa, lo sappiamo anche grazie al conio dell’Euro-zona,  è il simbolo della Repubblica Irlandese, ricordandone la tradizione dei clan celtici. In ognuno di essi non mancavano degli arpisti che componevano melodie, i planxties, per il Capo o per sua figlia.

Lo sfondo dell’opera con un sole che sorge spazzando via la notte non ha un significato chiaro: non sappiamo se Maclise voglia esprimere la speranza di un futuro migliore o la rassegnazione alla morte, alla luce di Dio.

L’idea dell’iconografia della Sirena che allevia il suo dolore trasformandosi in Arpa, come allegoria dell’Irlanda viene da una poesia di Thomas Moore che, a sua volta, era stato ispirato da un disegno che l’amico Edward Hudson aveva realizzato in carcere. Questi era stato imprigionato poiché aveva fatto parte dei rivoltosi del 1798 e, per mesi, aveva dato voce alla Repubblica d’Irlanda fronteggiando la Monarchia inglese.

Si crede che quest’Arpa che ora sto rievocando per voi/ fu una Sirena dei tempi antichi che cantava in fondo del mare/ e che spesso, alla sera, riemergeva dalle acque sfavillanti/ per incontrare, sulla costa verdeggiante, un ragazzo che amava

❤ Miss Raincoat