Valtella in Love

Chi è la misteriosa donna ardennese di Salvatore Quasimodo?

Eccoci qui per un altro appuntamento romantico tra i borghi della Valtellina. Oggi ho scelto Ardenno, borgo della Bassa Valle, incuneato nella curva ad esse che aggira la Colmen (Culmine di Dazio) proprio sotto alla Val Masino. L’etimologia del toponimo è piuttosto ardua da decifrare. Il Guler, storico delle Tre Leghe, ci ha parlato delle estati infuocate, ardenti, che costringevano gli abitanti a trasferirsi nelle località più a monte – ma il Guler risulta un fantasioso esagerato, frattanto, quando descrive le origini dei nomi dei paesi valtellinesi. Io credo molto nella tradizione cattolica che lega Ardenno a San Lorenzo, martirizzato su una graticola ardente oppure in quella pagana delle popolazioni germaniche che la lega ad Arduena, ossia Diana – la dea delle Selve.

Salvatore Quasimodo, il poeta di poche parole e dal rapporto difficilissimo con le donne e l’amore, nel 1934 è a Sondrio. Non in villeggiatura come amava fare il suo collega Carducci a Madesimo, ma in castigo. Abitava a Milano, in realtà, dove lavorava come geometra presso il Genio Civile. La sua condotta non doveva essere tra le migliori, tant’è che il suo Capo, tra le cose avverso al suo essere un poeta, lo confina in Valtellina. Precisamente, il Quasimodo avrebbe dovuto lavorare negli uffici di Piazzale Lambertenghi, sul Mallero, dove oggi troviamo gli Uffici dell’Agenzia del Territorio, anche se spesso veniva richiamato per inconcludenza. Di fatto, se ne stava spesso e volentieri sul treno per Milano dove, nel tragitto, passava il tempo cercando di sedurre le maestrine, come le chiamava lui – le più giovani ed inesperte maestre delle scuole elementari. Immaginiamoci un trentacinquenne moro e affascinante che si presenta come poeta e comincia a parlare loro dei miti greci quasi senza pudore…

Quando viene pubblicata la raccolta “Ed è subito Sera”, sono già passati circa dieci anni dal suo soggiorno in Valtellina. In questa edizione del 1942 sono contenute ben due poesie che parlano di Ardenno, quindi il ricordo era ancora bello denso.

“La dolce collina”

Questa poesia è molto conosciuta perché è anche turisticamente utilizzata per pubblicizzare Ardenno. Durante una giornata di pioggia il poeta si trova ad Ardenno. Lui non chiama il borgo per nome (se escludiamo l’immagine degli alberi bruciati dai fulmini), ma lo descrive: c’è il fiume Adda che scorre, un gruppo di case scure e il profilo arrotondato della Colmen. Sta scrutando il cielo come farebbe chi consulta l’oroscopo e pensa al futuro con uno sguardo al passato. Il suo pensiero è rivolto a una donna vestita di verde e con un fiore di corallo tra i capelli che incontrava di nascosto tra le canne delle rive. L’immagine della collina simile alle forme sinuose femminili è ben comprensibile; invece, il fiore color corallo io penso che possa essere un pretesto per inserire la metafora del fiore dell’ibisco, simbolo di bellezza fugace. I fiori dell’ibisco, leggeri e delicati, durano solo un giorno, ma essendo tropicale, è anche molto seducente ed esotico. Per il Quasimodo, avere una storiella con la sua personale Diana, una “selvaggia” (in effetti, la Valtellina non gli piaceva affatto, l’aveva definita come un deserto di ghiaccio) lo aveva distolto dalla noia delle giornate sondriesi tutte uguali, a suo dire. Non penso che fosse una donna molto acculturata, dato che nella seconda poesia parla di “cupo dialetto” e penso che fosse poco più che adolescente. Sicuramente, non era una delle scafate donne d’élite che lui era solito frequentare.

***

Lontani uccelli aperti nella sera
tremano sul fiume. E la pioggia insiste
e il sibilo dei pioppi illuminati
dal vento. Come ogni cosa remota
ritorni nella mente. Il verde lieve
della tua veste è qui fra le piante
arse dai fulmini dove s’innalza
la dolce collina d’Ardenno e s’ode
il nibbio sui ventagli di saggina.
Forse in quel volo a spirali serrate
s’affidava il mio deluso ritorno,
l’asprezza, la vinta pietà cristiana,
e questa pena nuda di dolore.
Hai un fiore di corallo sui capelli.
Ma il tuo viso è un’ombra che non muta;
(così fa morte). Dalle scure case
del tuo borgo ascolto l’Adda e la pioggia,
o forse un fremere di passi umani,
fra le tenere canne delle rive.
“Sera nella Valle del Masino”

In questa poesia non c’è niente di simpatico verso il nostro territorio. Lo perdoniamo perché Quasimodo, uomo siciliano, era stato obbligato al clima pungente invernale delle nostre Alpi per punizione e, si sa, lui detestava il potere imposto. L’ambiente qui, non era mondano come Milano e, soprattutto la sera, quando tutto si spegneva, lui era obbligato a riflettere. Aveva una relazione tormentata con Marta (la scrittrice Sibilla Aleramo): si scrivevano e, in questo periodo, si vedono soltanto una volta in totale segreto in una stanza dell’Hotel della Posta a Sondrio. Un altro motivo che creava repulsione al luogo per Salvatore, inoltre, era il fatto che l’indimenticabile primo vero amore di Marta fosse il poeta morbegnese Guglielmo Felice Damiani, morto giovane anni prima, nel 1904. I sentimenti che lui prova incastrato tra le vette gelide erano la tristezza, il tedio, la nostalgia, il rimpianto e anche un po’ d’amore. Possiamo immaginare che ad Ardenno abbia trovato davvero un po’ di calore “ardente”, per dimenticare e per svagare la mente. Un’altra ipotesi che mi sono fatta, in relazione alla simbologia funebre di entrambe le poesie (ibisco, spirale, luna, corvi, etc..), è che la sua donna misteriosa di Ardenno morì durante “l’esilio valtellinese”, probabilmente di tubercolosi. Ho anche collocato geograficamente queste poesie in località Ponte del Baffo, la prima curva salendo verso la Val Masino, dove era sita l’Osteria del Baffo.

***

Nello spazio dei colli,
tutto inverno, il silenzio
del lume dei velieri:
fredda immagine eterna
navigante! E qui risorge.

Presto la rana cresce il verde:
è foglia; e l’insetto di spine
s’avventa sull’erbe dei canali.
I mulini tentano le ruote,
deserti, all’acqua che si piega.

Non udrò ancora fragore del mare
lungo i lidi dell’infanzia omerica
il libeccio sull’isole
funebre a luna meridiana,
e donne urlare ai morti cantando
dolcezze di giorni nuziali.

E tu come la terra
riappari a volte, e mi deludi
discorde. Basta così poco tempo
per morire da vivi.

Nella veste di colore infantile
inventi il passo d’una spirale
al timpano che imita la notte.
Ma il tuo volto dilegua in tonfi,
in cesure straziate.

Tornano già i prati alla valle; forte
il lamento del corvo. Che certa
presenza, cara, di vita! Avverto
la sera alle tempie, e l’allarme
è un canto di cupo dialetto.

Nulla rimane della mia giornata.
Mi sorprende immutabile la noia
misericorde a ogni gioia apparsa
e alle radici subito indurita.

Calma notte superiore
volontà di consensi,
mi forzerò in così stretta misura
d’ingenua sapienza,
in tutto il freddo pietoso
serrato dentro il mio corpo
.

Miss Raincoat

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Masino di Ardenno

Un borgo nel borgo

Condivido con voi la passeggiata pensata per un gruppo di turisti desiderosi di una passeggiata digestiva dopo la mangereccia sosta all’agriturismo Le Case dei Baff.

Il percorso di 1,2 km parte da Via dei Molini, passa per Via Duca d’Aosta e si conclude in Via Calchera Alta. Da Via Duca d’aosta si può raggiungere, con pochi passi la Centrale Idroelettrica del Masino. Quando fu costruita nel 1914 fu un grande evento. L’edificio è tipicamente di quel novecentesco”liberty” dal gusto anche eclettico, che troviamo spesso in Valle.

Masino è una frazione di Ardenno, distante 2 km dal centro cittadino. Il nome di Ardenno (<ardente>) deriva o dalla presenza dei puiatt (carbonaie) o dal culto radicato di San Lorenzo (martirizzato sulla graticola). La pieve di Ardenno esisteva già dal Trecento e dipendeva dai vescovi di Como. Ricordiamo la Pace di Ardenno, del 1487, che vede una provvisoria pacificazione di Milano con le Tre Leghe. Sappiamo che, comunque i Grigioni si stabilirono in Valle nel 1512 e che, nel 1620 le tensioni apparentemente solo dovute allo ius reformandi sfociarono nel Sacro Macello e nelle Guerre di Valtellina (gli Spagnoli si stanziarono proprio in Via Calchera). Il periodo di guerre, carestia e peste creò un massiccio fenomeno migratorio degli ardennesi verso Roma che, comuque, una volta fatta fortuna, arricchirono il paese di origine tramite preziose opere romane.

Masino, ai piedi della Val Masino, viene lambito dall’omonimo torrente Masino. Il torrente è lungo 22 km e confluisce nel fiume Adda. Il suo nome deriva o da un nome di persona etrusco o significa “borgo con mulini”. Masino è anticamente la parte più rurale di Ardenno, del quale conserva vari edifici in pietra o con ballatoi in legno.
In questa zona, il fondovalle di curva a doppia esse per aggirare la Colmen, il Culmine di Dazio, il monte arrotondato di 913 metri che condiziona il paesaggio.

L’agriturismo predetto prende il nome dal Ponte del Baffo, sulla strada che sale verso la Costiera dei Cech. Il Baffo era il proprietario di un’osteria strategicamente posta su questo ponte, su una via importantissima per l’accesso in Bassa Valle. Fino alla bonifica ottocentesca, transitare per la Piana della Selvetta, una palude popolata di lupi, non era molto agevole; anche se questo percorso a mezzacosta era meno breve, sicuramente era più gettonato 🙂

Tutto il territorio di Ardenno è ricco di cincett. Il lemma viene dal dialetto e significa “inginocchiarsi”: sono cappelle votive che, dal XV secolo, furono edificate lungo i cammini quotidiani per pietà popolare. In questo percorso se ne incontrano due di diversa epoca.

La Chiesa di San Pietro e Paolo sorge in mezzo al borgo di Masino, fatto di poche case e mulini – sempre in allerta per le inondazioni del torrente. Fu costruita nel ‘500, durante gli anni del dominio grigione. Però, se si guarda di lato, si vede il prolungamento dell’abside, frutto di un ampliamento novecentesco (infatti, la facciata è recente). Nel 1993 fu innalzato anche il campanile dotato di tre campane provenienti dalla chiesa seicentesca di Scheneno, altroborgo retico di Ardenno, dedicata a a S. Rocco e a S. Sebastiano.

La via Calchera prende il nome dagli antichi forni per creare la calce. Prendendo la via Calchera Alta ci immettiamo in una fascia di terrazzamenti vitivinicoli (rigorosamente a secco) e orti; Se saliamo fino a 500 metri giungiamo alla cappella campestre di San Giovanni in Valmala.

Concludiamo vantandoci del fatto che la poesia di Salvatore Quasimodo del 1934 “La dolce collina” è dedicata a Masino (all’Adda e alla Colmen) e a una misteriosa ragazza di qui. Il premio nobel si trovava a Sondrio in punizione, mentre lavorava al Genio Civile – ma era sempre in giro a quanto pare!!!

Forse in quel volo a spirali serrate
s’affidava il mio deluso ritorno,
l’asprezza, la vinta pietà cristiana,
e questa pena nuda di dolore.
Hai un fiore di corallo sui capelli.
Ma il tuo viso è un’ombra che non muta;
(così fa morte). Dalle scure case
del tuo borgo ascolto l’Adda e la pioggia,
o forse un fremere di passi umani,
fra le tenere canne delle rive.

da “La dolce collina” di S. Quasimodo

❤ Miss Raincoat

Salvatore Quasimodo in gita a Morbegno?

Siamo nel Settembre 1935, le Leggi di Norimberga hanno appena privato gli Ebrei del diritto di cittadinanza, mentre un trentenne Salvatore Quasimodo (1901-1968), ancora senza Nobel, passeggia per le vie di Morbegno con l’aria pungente della Val Gerola che già sa un po’ d’inverno.

A Milano aveva appena intrapreso una passionale relazione con Sibilla Aleramo (1876-1960), una donna già vissuta, così come narra la sua autobiografia. Al Genio Civile, dove lavorava come geometra, però, dopo un insubordinato diverbio con un superiore, lo scrittore venne mandato in punizione a Sondrio. Come la prese? Definì la Valtellina una landa silenziosa, lugubre e immersa nel ghiaccio. (Esagerato, ma lo perdoniamo in relazione al fatto che sentiva malinconia per la sua Sicilia)

Eppure, si concedette una scorribanda a Morbegno per visitare il paese natale dell’amore giovanile di Sibilla, colui per il quale si fece coraggio e lasciò quel marito che aveva dovuto sposare per forza e, purtroppo, anche suo figlio. Quest’uomo catartico fu il poeta morbegnese Guglielmo Felice Damiani (1875-1904).

Il Quasimodo non si capacitava di come avesse potuto la sua Sibilla innamorarsi di uno sbarbatello di montagna, così diverso dai virili uomini del Sud.

L’idillica storia d’amore tra l’Aleramo e il Damiani terminerà in un battibaleno, comunque; lui verrà scaricato con una lettera dopo una notte d’amore. In seguito, la donna avrà una relazione con Giovanni Cena, amico del morbegnese, un marcantonio (fu lui a soprannominare Rina Faccio “Aleramo”, così come Carducci si era riferito al Piemonte, terra della donna), che fece addirittura cancellare le tracce del Damiani dall’autobiografia di Sibilla, che ben presto venne soprannominata “lavatoio sessuale della letteratura italiana“.

Salvatore Quasimodo fu uno dei tanti amanti scrittori dell’Aleramo. Era un uomo ombroso ma anche baldanzoso, lacerato nelle sue stesse contraddizioni tant’è che è geloso di un uomo già morto da tempo. Inoltre, anche se aveva questa tendenza alla possessione della sua preda, non era per nulla fedele. Per quanto schifasse la Valtellina, dedica una poesia “La Dolce Collina” ad Ardenno (e, probabilmente, ad una donzella lì sedotta).

“La Dolce Collina” – S. Quasimodo

Rina Faccio, tuttavia, non ebbe una vita felice. Dal Piemonte, il padre trasferì la famiglia nelle Marche dove aveva anche una seconda famiglia con una certa vedova. Sua madre si suicidò davanti a lei. Fu violentata e costretta ad un matrimonio riparatore a Milano. Il Damiani le ricordò la sua dignità di donna, anche se, quando abbandonò il tetto coniugale, dovette rinunciare ad essere madre. Tentò il suicidio e lo scrivere le servì come terapia per non lasciarsi morire.

Quando Guglielmo Felice s’innamorò di lei, era già in carriera e famoso addirittura fino a Napoli. Non a caso, il Carducci lo descrisse “uno stimabile collega“. Fuggì con Rina anche se fosse proverbialmente succube di sua madre e disse alla sua amata “ora sono tuo“. Quando tornò a Morbegno, con la piva nel sacco, non guarì mai più del suo mal d’amore. Inoltre, fu anche molto sfortunato: morì non ancora trentenne di setticemia a Napoli.

Non sappiamo se il Damiani fu il primo amore dell’Aleramo, eroina indiscussa del Femminismo, anzi, lei disse che il suo primo amore fu un gatto nero, ma sappiamo che, anche nella sua fragilità e sensibilità di poeta malinconico, è stato il grande uomo che ha liberato una donna dalla schiavitù di essere come la volevano gli altri.

“Vento a Tindari” – S. Quasimodo

“Una donna” – S. Aleramo 

“La Casa Paterna”- G.F. Damiani