Morbegno La Sera è Viva 2022

Giovanni e Rosa : i colori di un amore

Solitamente, i ringraziamenti si fanno nelle battute finali, ma per per me è doveroso salutare una persona, un grande amico di questo piccolo tesoro di Morbegno, della Madonnetta: il Roby, l’architetto Roberto Paruscio che si è occupato dell’iniziativa di restauro di questo monumento. Ciao Roby!

Introdurrei questo racconto con una citazione presa dall’iscrizione non tanto distante da questa cappelletta votiva. Vicino al Cimitero leggiamo “se pietoso tu sei o passeggere, o dammi un soldo o dimmi un Miserere”. In tempi antichi, l’unica via che congiungeva Morbegno a Sondrio passava di qui, dalla Campagna, e, come un cartellone pubblicitario, salutava il viandante augurandogli buon viaggio, che sarebbe sicuramente andato meglio se avesse lasciato un’offerta o, se proprio non avesse spiccioli, avesse invocato l’aiuto dei morti.

La Madonnetta è il dipinto custodito nel cuore di questo tempietto e nasce proprio in questo clima mistico, tra il sacro e il profano. Narra la leggenda, che nei primi del Cinquecento il contadino Mario Petacco si fece dipingere sulla sua casa una Madonna in Trono in seguito al passaggio della Madonna in persona, riposatasi qui prima di salire a Tirano, dove sarebbe apparsa a un altro Mario, l’Omodei. Subitissimo, questo affresco avrebbe iniziato ad essere da anatema miracoloso contro le morti certe, per malattia o anche per condanna. Ovviamente, le grazie erano accompagnate da generosi ex voto, tant’è che la Confraternita dell’Assunta e la Parrocchia cominciarono a litigare sulla gestione degli incassi. Ci volle il Vescovo per sistemare la faccenda che decise per la Parrocchia. La Parrocchia, mettendosi una mano sul cuore, con parte dei proventi finanziò la costruzione del tempietto e la sua decorazione.

Proprio nel 1875 entra in gioco il nostro pittore Giovanni Gavazzeni. Si stava già facendo un buon nome, ma non era ancora propriamente in carriera. La Fabbriceria di Morbegno era rimasta davvero soddisfatta della “Deposizione” nel Gisoo de Meza Via verso la frazione orobica di Arzo e, perciò, gli commissionò anche la realizzazione della Madonnetta. Il Gavazzeni avrebbe dovuto creare una cerniera tra presente e passato. Nelle cupole ellittiche troviamo due Angeli con cartigli che ci indicano la Madonna del passato, all’interno, una Mater Divinae Gratiae, una Regina imperturbabile con un Bambino vestito da cavaliere, e una Madonna del suo presente, una Consolatrix Afflictorum, una madre tenera. Se nel Cinquecento la Madonna era vista come un monito al Giudizio, nell’Ottocento era una Speranza per il futuro.

Ma chi era Giovanni Gavazzeni? Nato a Talamona il 13 settembre 1841 (sotto il segno della vergine), fu un giovane di buona famiglia e bambino prodigio che frequentò l’Accademia Carrara di Bergamo, molto lontana dagli schiamazzi politici di Milano e ancorata all’imitazione dei Classici: in Gavazzeni troviamo molto Raffaello, provate a pensare alla “Madonna della Seggiola”. Giovanni ebbe anche una parentesi rivoluzionaria molto attiva, seguendo Garibaldi fino a Sondrio. Comunque, dopo l’anno sabbatico, finì gli studi con lodi e imbrodi e scelse di ritornare a Talamona. Era un uomo solitario, schivo, silenzioso e meticoloso. Era un uomo che amava la sua Terra e le sue montagne e che voleva proteggere la natura. Pensate che, nonostante il largo utilizzo dei moderni colori in tubetto, lui continuava a tenere segrete le ricette dei suoi colori “alla moda vecchia“.

Il Gavazzeni è stato un artista pop: raccolse consensi fin da subito. Infatti, invece di seguire la moda dell’arte di Milano, irriverente, irruenta e monumentale, decise di capire che cosa desiderasse il suo pubblico valtellinese. La nostra gente voleva un’arte sentimentale e semplice, più simile alle canzoni di Orietta Berti che a quelle di Luigi Tenco. Il Gavazzeni, poi, ci mette la sua firma. Crea una tavolozza di colori unica, fatta di colori molto profondi, freddi, ma al contempo molto vividi con i quali esprime la sua schiettezza un po’ burbera, ma al contempo emotiva.

La sua storia d’amore si svolge nell’Ottocento. Anche in Valtellina si respirava quel clima di pizzi, merletti e salotti. Ricordiamoci che il Gavazzeni frequentava un noto caffè letterario di Morbegno, il Folcher. Tuttavia, l’atmosfera alla Bridgerton qui era smorzata da un carattere più ruspante. Si pensi che, per far bella figura con i suoceri, il dono migliore da portare quando si chiedeva la mano di una fanciulla fosse un pollo.

Giovanni chiede la mano a una ragazza di Masino, Rosa Lucia Pirola. Lui aveva 34 anni e lei 23. Il papà è contento di queste nozze perché il genero ha una famiglia borghese rispettabile, è un pittore ma guadagna bene ed è anche generoso, perché qualche volta dipinge per beneficenza. Eppure, il matrimonio viene macchiato da un’onta: la coppia non riesce ad avere figli. Solo vent’anni dopo adotteranno i nipoti di Rosa rimasti orfani. Li accudiranno nell’amore e nell’agio, ma uno morirà ragazzo per un male improvviso e gli altri due nella Prima Guerra Mondiale. Erano tempi crudeli per le mancate maternità. Il collega e amico pittore Segantini, altro narratore delle Alpi, sebbene fosse libero dagli schemi della società, descrivendo il suo dipinto “Le Cattive Madri”, disse che amava tutte le donne purché avessero nelle viscere l’attitudine di madre.

Eppure, questo non divise Rosa e Giovanni. Ho sempre pensato che, per questo, il “problema” fosse originato da Giovanni… Sappiamo per certo che Rosa diventò la musa del pittore. I visi aristocratici delle Madonne sono smpre i suoi, che invecchiano insieme a lei, sempre amabile agli occhi di suo marito. Giovanni, se la composizione lo permette, si dipinge come un premuroso e protettivo San Giuseppe.

Nel nostro timpano, l’atmosfera è tinta di colori che virano verso l’oro e il rosa-aranciato. Questo colori ci danno l’idea di un clima dolce e sussurrato, quello del tramonto. Il tramonto qui è anche simbolo di una Madonna che sa che suo figlio morirà per colpa dei nostri peccati, ma ci ama ugualmente. Intrinsecamente, Giovanni, dopo due anni di tentativi, sta dicendo che la sua Rosa non è una cattiva donna anche se non è mamma. Magari era un orso quest’uomo, ma era più libero di mente di tanti uomini contemporanei!

Vorrei dire che questo dipinto parla di Amore Universale. Per il Gavazzeni, a differenza dell’iconografia codificata, l’amore non è rosso ma blu. Il blu è il più prezioso dei colori ed è il colore dell’intimità. Il manto blu di Maria, protegge la sua grazia interiore. Il Gavazzeni ci sta dicendo che il rosso, ciò che viene dal cuore, va dosato e centellinato e, soprattutto, sempre vissuto in silenzio per evitare i giudizi altrui. Oscar Wilde diede questa definizione al blu “la breve tenda che i prigionieri chiamano cielo”.

❤ Miss Raincoat

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Giovanni Gavazzeni & Rosa Pirola

Talamona, 1841 – 1907

Nel cuore del borgo di Talamona, in Casa Mazzoni, poco distante dalla chiesa parrocchiale, una casa silenziosa e celata dagli alberi, il pittore Giovanni Gavazzeni si era arrangiato la sua casa-studio.

Era un uomo taciturno, schivo, meticoloso – un orso buono. Aveva trascorso tutta la sua giovinezza all’Accademia Carrara di Bergamo, lontano anche dagli schiamazzi anti-austriaci (per quanto, al compimento del diciottesimo anno di età, lasciò per un breve tempo gli studi e marciò con Garibaldi su Sondrio).

Decise di tornare a casa sua, nel suo paesello orobico, lontano dal caos cittadino che detestava, e lì venne apprezzato dalla committenza ecclesiastica, nobile, borghese e perfino contadina. L’Accademia Carrara, lontana dal rettorato innovativo di Hayez a Brera , si ispirava al Settecento Veneziano e a Raffaello. Il Gavazzeni, anche se molto incuriosito dal tema romantico dell’incubo notturno, rimase sempre fedele al tema sacro inserito in paesaggi idilliaci o in interni dettagliatamente ottocenteschi. Quello che lui ricerca sono le emozioni semplici. Quello che lo ossessiona solo le cromie intense studiate scrupolosamente.

La critica, non trovandolo al passo con i tempi, lo snobba. Eccetto lui, sua maestà Vittore Grubicy De Dragon, il pittore-critico e mercante che aveva scoperto per esempio Segantini (amico del Gavazzeni e anche del Damiani). Lo incuriosirono, del Gavazzeni, i suoi sentimenti trasparenti così diversi dall’artificialità ampollosa dell’arte sacra tardo-ottocentesca. La definì un’arte delicatamente schietta, poiché l’artista aveva nel cuore un misticismo personalmente sentito.

Non sappiamo dove e quando cominciò l’intensa e tenera storia d’amore con Rosa Lucia Pirola di Masino (Ardenno), nata nel 1850 e figlia di Francesco, che concesse la mano della figlia al pittore di buonissima fama locale il 6 febbraio 1873 nella chiesa di San Pietro al Masino. Rosa seguirà il marito nella casa-studio di Talamona e lui la trasformerà nella sua Musa. Il desiderio inesaudito di diventare genitori, anche un’onta ai tempi, diventerà il tema nascosto e ricorrente della sua arte, anche se nel 1892 adottarono i figli del cognato, rimasti orfani (Carlino, Giovanni e Guido Pirola) – che fecero vivere nell’agio, viaggiare, studiare e amarono calorosamente.

Le sue Sacre Famiglie, come la Sacra Famiglia dei Fratelli Ciapponi in Via III Novembre a Morbegno, sono sempre pervase da un clima intimamente famigliare. Rosa, è sempre il volto di Maria, un volto dai lineamenti aristocratici; una Madonna rappresentata come madre timida e affettuosa. Il San Giuseppe, sempre anziano e sempre un autoritratto, si protende verso il Figlio ed è devoto e protettivo verso Maria.

L’amore per Rosa, nonostante tutto, non ha eguali nella vita affettiva del Gavazzeni. Forse, l’unica eccezione, potrebbe essere il legame d’amicizia quasi paterna con il poeta Guglielmo Felice Damiani (1875-1904). Insieme, furono pionieri della Storia dell’Arte della Bassa Valle.

Il Gavazzeni morì in casa sua a Talamona, a fine novembre, per una pleuropolmonite. Stava ultimando il Cristo Redentore per il Cimitero di Sondrio. Il caso vuole che, in carriera, per la Collegiata di Sondrio, aveva realizzato il Transito di San Giuseppe, dove Rosa, impersonificando Maria, gli bacia teneramente e disperatamente le mani; tre putti attorniano il capezzale (dei quali uno ci invita dentro la scena guardandoci fisso); Gesù, triste e composto, lo eleva al Cielo come suo padre putativo.

Il nostro pittore valtellinese riposa in pace nel Cimitero di Talamona. Sulla sua tomba, vicino al monumento di Egidio Guanella e la copia del Redentore, porta l’epitaffio <illustrò la fede con il pennello>.

Miss Raincoat

°*Letture consigliate dall’Unicorno°*

  • Giulio Spini, Renzo Fallati, Eugenio Salvini – “Giovanni Gavazzeni 1841- 1907”
  • Mario Vergottini, Simona Duca, Giampaolo Angelini – “Giovanni Gavazzeni . Pittore nella Valtellina di Fine Ottocento”
La “Madonnetta” – ossia il luogo dove ho conosciuto il Giovanni ❤

La Madonnetta di Pedemonte a Morbegno

La storia della Madonnetta di Morbegno inizia umile nel Cinquecento: era un affresco mariano su una casa privata, commissionato da un devoto contadino che rispondeva al nome di Romerio Petacco.

La leggenda vuole che il Petacco abbia desiderato questo dipinto per ricordare un’apparizione di Maria, che qui si è riposata prima di palesarsi anche a Tirano il 29 settembre 1504, lì  dove è sorto il celebre Santuario. Si tentò anche di trasferire l’affresco miracoloso nel Santuario dell’Assunta di Morbegno, però ritornava sempre al suo posto. La Madonna del Petacco (da poco restaurata grazie a un’iniziativa partita dall’arch. Paruscio e dal Gruppo Facebook “Sei di Morbegno Se”) è stata realizzata da un pittore itinerante ignoto in Stile Gotico (cfr. imponenza regale, colori accesi) con un accenno di Rinascimento nello ieratismo, nei dettagli scolpiti e nell’iconografia del bambino ritto e benedicente (Gesù indossa un copricapo tipico dei cavalieri, detto mazzocchio). Il dipinto è simile alla “Madonna con San Giuliano” già vista qui.

A partire dal Seicento, però, alla Madonna dipinta vengono attribuiti vari miracoli concernenti  guarigioni improvvise. Addirittura, un condannato a morte ebbe salva la vita grazie alla sua intercessione!

Quindi, molti accorrevano – anche da fuori Morbegno – per chiedere la grazia e, ex voto, lasciavano le loro offerte, qualche moneta nella bussola delle offerte. Ciò nonostante, la somma di denaro accumulato doveva essere consistente, se nel Settecento la Parrocchia e la Confraternita dei Disciplini (che aveva sede nel vicinissimo Santuario dell’Assunta) cominciarono a litigare. Chi doveva ritirare i contanti? Per anni le due parti bisticciarono e, infine, niente poco di meno che il Vescovo di Como, quasi a fine Ottocento, decise per la Parrocchia che – bisogna riconoscerlo – si sdebitò facendo costruire e decorare attorno all’affresco il tempietto che oggi possiamo ammirare.

Nel 1875, Giovanni Gavazzeni,  che abbiamo apprezzato anche qui,  è all’inizio della sua carriera e deve pensare a un’opera che unisca il passato al presente.  Nelle due volte ellittiche rappresenta due Angeli con Cartigli con gli epiteti che spiegano le due iconografie mariane: Mater Divinae Gratiae (interno) e Consolatrix Afflictorum (esterno). Nel timpano, invece,  dipinge una Madonna Eleusa, ossia l’antica versione della Madre di Dio e della Tenerezza, analoga e contraria alla Madonna del Petacco.

La scena, infatti appare dorata, tranquilla e dolce. Il colore che spicca è il blu del manto della Madonna, che la differenzia dal dipinto medievale (il blu è il simbolo del corpo terreno che cela l’anima divina della mulier gratia plena). Maria, come in tutti i dipinti, ha il volto della moglie del pittore; Gesù, d’altro canto, guarda verso il pittore, che voleva un figlio ma non l’ha potuto avere.

“Se pietoso tu sei o passegere o dammi un soldo o dimmi un Miserere” – dall’iscrizione nei pressi della Madonnetta e del Cimitero

❤ Miss Raincoat

“Sacra Famiglia” di Giovanni Gavazzeni

Un altro dei miei angoli preferiti a Morbegno

Considerando che la Bottega Ciapponi alla quale appartiene il dipinto nasce nel 1883 e che Giovanni Gavazzeni stava affrescando La Madonnetta di Morbegno nel 1875, il dipinto può essere collocato cronologicamente tra queste due date.

Giovanni Gavazzeni, pittore talamonese formatosi nell’ambito neoclassico dell’Accademia “Carrara” di Bergamo, era apprezzato in Valle perché il suo gusto elegante non era mai troppo monumentale. Io l’ho sempre amato per via della sua ricerca quasi scientifica sulle cromie ancora naturali, quando pressoché tutti gli artisti preferivano già la comodità dei colori in tubetto. Il suo blu “alpino” mi lascia sempre senza parole!!!

Il dipinto si trova in Piazza Tre Novembre (già Trivio del Mercato) – avete capito bene, 3/11/1918 per ricordare con puntualità la firma dell’Armistizio della Grande Guerra. Io definisco questo affresco “Sacra Famiglia di Casa Ciapponi”: per via dell’ambientazione in un talamo, la stanza più intima di una casa, potrebbe essere stato un dono di nozze. Auguri e figli maschi!

Ma soffermiamoci a notare qualche particolare…
  • La Madonna porta in volto il ritratto della moglie Rosa Piròla di Ardenno; lei e Giovanni non hanno potuto avere figli, ai tempi un’onta oltre che dispiacere. Avevano adottato i nipoti orfani e morirono durante la Guerra della quale la piazza è memore. Il pittore, per contro, si ritrae sempre come un San Giuseppe.

  • L’atmosfera calma è data dai toni blu. Pochi accenti di rosso parlano di un amore vivo, da non sprecare.

  • In una tipica camera da letto ottocentesca, ci facciamo guardoni di un clima intimo e complice:  un matrimonio d’amore che l’artista aveva sperimentato.

  • La pesca che ha in mano Gesù è l’unico simbolo di immortalità nella composizione che sembra quella di una famiglia qualunque, con sentimenti umani e non divini.

❤ Miss Raincoat

 

Il “San Giuseppe” della Sirta (Forcola)

#festadelpapà

“Alzi la mano chi sa dove si trova la seconda cupola più grande della Diocesi di Como!” – “Io lo so! È la cupola della Chiesa della Sirta, quasi vicino a casa mia”

Nel perimetro che oggi è occupato dal Municipio, nel 1821, fu costruita una chiesa molto semplice con facciata a capanna, riconoscibile ancora oggi nella forma dell’alzato dell’edificio. Alla stessa, fu addossato il campanile che appartiene alla chiesa odierna. Questa premessa è utile per capire lo strano abbinamento degli elementi di questa piccola piazza.

Perché fu costruita una chiesa più grande? Beh, in realtà la bonifica ottocentesca delle rive dell’Adda aveva debellato la malaria e la popolazione era abbondantemente cresciuta di numero. In più, gli abitanti della Sirta non volevano essere additati come braccini. Infatti, per il nuovo progetto fu scelto l’illustre Clemente Valenti di Talamona, il quale escluse a priori un ampliamento della chiesa-municipio, poiché non c’era lo spazio necessario per realizzare un edificio esteticamente armonico. Allora, l’architetto propose tre disegni, dei quali fu scelto quello “a pianta quadrata, con cupola e decorzione in Stile Rinascimentale”. 

I lavori durarono circa 10 anni e furono caratterizzati da riprese e sospensioni, ovviamente per la mancanza di proventi necessari. Eppure, la chiesa era talmente desiderata che la popolazione si prestò anche al volontariato e alla beneficenza. Mentre le donne vendevano gli scarpii (pantofole rudimentali), gli uomini trasportavano a mano quei massi che possiamo scorgere ancora oggi nelle pareti laterali esterne.  Addirittura, la Parrocchia si appellò al Papa Leone XIII, che donò un cammeo d’oro da vendere per portare a termine l’opera. Intanto, dalla prospiciente Ardenno giungevano le malelingue: “Si dree a fà sù ‘na giésa o ‘n barek?” (trad.: “State costruendo una chiesa o un ovile?”). Comunque, nel 1888, la chiesa, rusticamente completa, fu benedetta: il primo rito che ospitò fu un matrimonio molto umile. Quando fu consacrata dal Vescovo nel 1893, però, rimaneva molto da fare e da pagare.

La facciata del San Giuseppe è imponente, appunto nel nome del Neoclassico proposto dal Valenti (ma anche elegante, per esempio nella scelta delle lesene dal capitello corinzio). Quello che mi ha sempre colpito e impaurito è l’Occhio di Dio dipinto nel triangolo del timpano (non ha nulla a vedere con le logge massoniche, più che altro è il simbolo della Trinità e dell’onniscenza divina!). Da notare è anche la lunetta del portale dove Pietro Passerini, un pittore locale di Arzo (frazione orobica di Morbegno), ha lasciato una rappresentazione di “San Giuseppe con il Bambino”. Lo stesso artista aveva decorato l’interno della chiesa, ridipinta dopo che, nel 1928, il vescovo Adolfo Luigi Pagani l’aveva considerato disdicevole e volgare.

Ma fu proprio la cupola ad essere croce e delizia di quest’opera impegnativa. Inizialmente fu rivestita di tegole che, però, creavano infiltrazioni. Si pensò, quindi, alla semplice soluzione di un rivestimento tramite un tiburio ottagonale, ma ci fu chi gridò la iattura. Il problema fu inizialmente ovviato nel 1947 tramite delle lamine di zinco, che facevano sembrare la cupola d’oro, nonostante si fessurarono subito. Nel 1967, finalmente, la calotta venne foderata con il locale Serpentino della Valmalenco, disposto a squame concentriche. In ogni modo, all’interno, il gioco di luci delle vetrate e degli oculi dell’agognata cupola sono veramente scenici e ricercati!

I dipinti all’interno, dicevamo, sono invece firmati da Primo Busnelli, attivo anche a Castione Andevenno e a Berbenno in Valtellina, il quale proveniva da Meda (MB) e ne fu anche il Sindaco. Devoto e taciturno, pure lui aveva uno stile molto classico e maestoso, che ben si abbinava con la produzione del Valenti.

  • Controfacciata: Cacciata dei Mercanti dal Tempio (ritorno alla purezza antica)
  • Navata: vengono rappresentati dei Santi sui dei podi, come statue. La loro scelta spazia dai nomi dei parrocchiani a una più concreta invocazione di miracoli. Troviamo, difatti: S. Giuseppe e S. Gregorio (i dedicatari della Parrocchia), S. Giovanni Bosco e S. Luigi (protettori dei giovani), S. Agnese e S. Rita (protettrici di fidanzate e mogli), S. Abbondio e S. Espedito (l’ultimo lo riconosciamo per la scritta “cras” – in questo caso si potrebbero fare molte ipotesi, da una morte prematura a un miracolo urgente), S. Rocco e S. Antonio (protettori del mondo contadino), S. Anna e S. Teresina (protettrici di madri e orfani)
  • Cupola: sulle vele gli Arcangeli e sui pennacchi gli Evangelisti
  • Pareti del Presbiterio: Ultima Cena e Pentecoste – Cristo Re al centro
  • Coro:  Sacra Famiglia

Non dimentichiamo di buttare un’occhiata anche agli arredi: il paliotto dell’altare di Giovanni Gavazzeni con un “San Giuseppe”, il ciborio settecentesco e  coro/pulpito/leggio scolpiti circa ne 1910 da Giuseppe e Giovanni Libera (dei quali l’intaglio dell’“Ultima Cena” sul pulpito è molto ben riuscito).

Ho scelto proprio questa chiesa dedicata a S. Giuseppe  in onore del mio papà, che si chiede sempre come possa fare così tanto freddo in un così piccolo luogo. Ma a) il freddo lo sta mantenendo giovane b) dove c’è freddo c’è sempre tanto amore!

“Per entrare nel paese di Sirta, addossato allo sbocco della val Fabiòlo per cui devo salire, si supera il fiume su un grosso e vecchio ponte in legno. Un formicaio conico di case affollate sotto la chiesa ottocentesca che, sovrastandole col cupolone spropositato, non riesce a nascondere l’innocente vanagloria parrocchiale di chi l’ha voluta e pagata, al costo di non pochi sacrifici. Fede e appariscenza, mi viene da pensare, di questo abitato contadino radicatissimo anche nei suoi campanilismi, rannicchiato al di sotto di balze scure, vertiginose, incombenti, privo di sole da ottobre a marzo e non visitato dal chiaro di luna nei mesi caldi” dal Diario di Un Parroco di Montagna di Giulio Spini

❤ Miss Raincoat