Leonardo, gli ermellini e la Valtellina

Leonardo da Vinci nel Codice Atlantico (Foglio 214, 1483-1518)

“…Valtolina, valle circondata d’alti e terribili monti, fa vini potenti e assai, e fa tanto bestiame che da’ paesani è concluso nascervi più latte che vino. Questa è la valle dove passa Adda, la quale prima corre più che per quaranta miglia per Lamagna. Questo fiume fa pescio témere, il quale vive d’argento, del quale se ne truova assai per la rena. In testa alla Valtolina è le montagne di Bormi, terribili piene sempre di neve; qui nasce ermellini. A Bormi sono i Bagni”

Nel dicembre 1493 Biancamaria Sforza, nipote di Ludovico Sforza detto il Moro, stava raggiungendo Massimiliano Asburgo a Innsbruck dopo il matrimonio per procura con a seguito un corteo del quale faceva parte anche Leonardo Da Vinci, pittore di corte…

1488 – olio su tavola – 50*40 cm – Cracovia

Nel 1488 il Moro aveva ottenuto, finalmente, il titolo di Cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino dal Re di Napoli, grazie a una studiata rete di matrimoni con gli Aragona e per la posizione contro i Baroni in contrasto con la monarchia regnante. Il simbolo di questa congrega, ovviamente cattolicissima, era l’ermellino, metafora del “meglio morto che disonorato”, poiché l’ermellino, piuttosto che vedere la sua pelliccia macchiata di sangue, si lascia uccidere.

Ma chi sta coccolando il Moro?

Cecilia Gallerani. In greco antico la donnola viene chiamata “galé”, quindi è un nomignolo o abbreviazione del cognome della giovane amante di Ludovico. Cecilia indossa una collana di granati, simbolo di devozione e di fedeltà, ad un uomo dai capelli corvini, tiranno anche nella seduzione (anche se soffriva di asma).

In effetti, il Moro la salva da un destino infausto. Faceva parte di una nobile famiglia senese adottata da Milano ed era orfana di padre. Avrebbe dovuto o farsi suora o sposare un uomo vent’anni più vecchio di lei se il Moro, il quasi Duca, non l’avesse notata e non le avesse anche regalato un appartamento tutto per lei dove incontrarla senza preoccuparsi dei paparazzi.

Nel 1491 Ludovico si sposa con Beatrice D’Este, tra l’altro amica di Cecilia. Avrebbe preferito sposarsi con Isabella, la sorella-più-bella, ma Francesco Gonzaga aveva vinto il gioco delle coppie. Beatrice, inoltre, siccome anche molto giovane, lasciò passare dei mesi prima di onorare i suoi obblighi matrimoniali. Tant’è che il Moro sfogava le sue voglie altrove, con Cecilia, che rimase incinta. Cecilia venne allontanata dalla corte ma il Moro continuò ad occuparsi economicamente di lei, finché le non si sposerà con un conte. Il Moro divetò un marito modello? Forse solo un po’ più abile a non farsi sgamare… Beatrice partorirà vari eredi, ma morirà alla fine dell’ultima gravidanza, portata avanti in contemporanea con un’ennesima delle fedeli cagnoline del Duca.

Eppure, questo dipinto di Leonardo ha reso immortale una compagna illegittima, forse un amore vero in mezzo agli intrighi di corte. Tra le cose, l’animale nella composizione assomiglia più a un furetto che a un ermellino. Probabilmente, Leonardo prima di passare in Valtellina, così come non aveva mai sperimentato l’imponenza delle Alpi, non aveva nemmeno mai visto un ermellino da vicino. Parimenti, non sapeva che dalle nostre parti, è considerato un animaletto sfuggente, dispettoso e vendicativo. Di fatto, mi pare strano che un animale selvatico si sia prestato a stare fermo per essere dipinto… Leo avrà detto “Ohibò, bischero, fattelo garbare lo stesso!”

Miss Raincoat

883 “Il Grande Incubo”

La donna il sogno il grande incubo
Questa notte incontrerò
Mentre nel mondo tutti dormono
Forse anch’io mi sveglierò
Con la sveglia scarica ormai
E con mia madre che mi dice “Dai, come fai
Tutte le volte a non svegliarti mai”
E tutto questo finirà così, ma adesso sono qui
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Il Complesso di Sant’Antonio a Morbegno

Facciata e Protiro

Il primo nucleo della chiesa, inizialmente dedicata a Santa Marta, esisteva già circa nel 1370 ed era comunemente conosciuto con il nome di Santa Marta in Quadrobbio (ossia “quadrivio“).

La sua storia si interseca con le vicende degli Inquisitori Domenicani provenienti dal Convento di San Giovanni a Como (odierno edificio della stazione ferroviaria), già presenti in Valle per convincere con le buone o con le cattive gli eretici antipapali, ma definitivamente ospiti ben graditi dal 1328, anno in cui scappano dalle lotte tra guelfi e ghibellini a Como e si rifugiano, inizialmente, attorno al San Domenico a Regoledo di Cosio.

A fine Quattrocento, addirittura con l’approvazione degli Sforza, Morbegno decide di ampliare la Santa Marta (* Sant’Antonio, originariamente, era il secondo dedicatario; con l’ampliamento Santa Marta viene mandata in pensione…) e farla diventare il complesso conventuale che avrebbe ospitato i domenicani in una location più consona al loro prestigioso ruolo. Sulla carta, la Comunità di Morbegno si proclamava cattolicamente contenta di poter avere i frati inquisitori in loco, siccome l’eresia stava traviando anche il clero locale e c’era bisogno di una guida spirituale; sul rovescio della pagina, però, non dimentichiamo che ospitare la Sede Inquisitoria dell’intera Valtellina a Morbegno dava lustro alla cittadina! In poco tempo, inoltre, molti valtellinesi cominciarono a recarsi spesso in questa nuova chiesa per partecipare a quei riti tipicamente domenicani, spettacolari e con musica emozionantissima.

Ma ritorniamo all’Arte.

L’esterno della chiesa, realizzato nei primi anni del Cinquecento, si colloca nel Rinascimento Valtellinese (stessi anni dell’Assunta di Morbegno; architettura top del periodo: Il Santuario di Tirano), sebbene il coronamento a forma ondulata ci riporta subito al rifacimento simil-barocco del Seicento. Quindi, si potrebbe dire che ciò che rimane di veramente – ma superbamente – rinascimentale sia il protiro (la struttura di copertura del portale).

Quello che faccio sempre notare ai turisti è questo: in poco spazio, vengono conglobati molti elementi, difficili da cogliere con un solo sguardo distratto. Ecco a cosa servono le guideeh 🙂

Partiamo, insolitamente, dai particolari. Abbiamo quattro colonne snelle, rinforzate da fasce, le quali, rispettivamente portano il tatuaggio di importanti stemmi: lo stemma della famiglia morbegnese Ninguarda, ossia i committenti, lo stemma di Morbegno (chiave e spada, S. Pietro e Paolo – i patroni), la tau di S.Antonio e il cane dei Domenicani. Anche lesene del portale reggono un’Annunciazione sulla parte frontale (con Maria e Arcangelo Gabriele separati, soluzione molto pop-rinascimentale) e sui profili dei ritratti di San Domenico e San Vincenzo (forse il più cattivo degli inquisitori domenicani – non dimentichiamoci che pure in Valtellina qualche strega venne bruciata!). I capitelli delle colonne, infine, sono decorati con sole e teschio, per creare il ciclo infinito di vita e morte – per me, un grande indizio di Rinascimento: finito il lockdown medievale, si vedeva molta luce e molta speranza…

Il mio particolare preferito del protiro è la volta. Lo so, è un mero esercizio di stile dello scultore, però i cassettoni finti sembrano il matelassé di Coco Chanel anche se è stato realizzato con maestria di scalpello sul marmo di Musso.

Le opere di concetto sono quelle delle due lunette.

La lunetta scultorea è stata realizzata da Francesco Ventretta di Piuro (Valchiavenna), il quale realizza tutta la scultura del protiro circa nel 1517. L’artista era cognato di Tommaso Rodari, papà della parte rinascimentale del’Assunta di Morbegno e del Santuario di Tirano, nonché colui che porta il Rinascimento architettonico in Valle. La Pietà che ci lascia il Ventretta è molto drammatica, specie nel volto disperato di Maria e resa ancor più drammatica dal fatto che è stata posta sopra l’Annunciazione.

La lunetta pittorica è stata realizzata da Gaudenzio Ferrari, circa nel 1526 – negli anni in cui era impegnato sul cantiere dell’Assunta di Morbegno. Famoso per i Sacri Monti del Varallo e per la lezione leonardesca che impregna le sue opere, si stabilì a Morbegno dopo le sue seconde nozze con la nostra Maria Foppa, vedova Ninguarda. La sua Natività ha i suoi amabili colori tersi, soprattutto il blu molto ceruleo. Inoltre, un suo marchio di fabbrica sono gli angeli musicanti, tutti uno diverso dall’altro. Due di questi angeli tengono in braccio Gesù Bambino, poiché all’epoca le donne importanti facevano accudire i loro figli dalle balie. In maniera molto rivoluzionaria per l’epoca, Giuseppe si protende verso il centro della scena. In quegli anni, infatti, alla figura del padre putativo era stata riconosciuta la grande missione di avere accettato il disegno divino anche se fosse soltanto un uomo.

Così, anche le due lunette si pongono a simbolo del ciclo della vita e in maniera del tutto positiva rispetto al progetto che dall’alto era stato riservato all’uomo. Per questo motivo, si può dire che non solo la forma ma anche il significato pongono quest’opera al centro del movimento culturale del Rinascimento.

Umberto Saba

“Ed è il pensiero della Morte che, infine, aiuta a Vivere”

Miss Raincoat

Valtella in Love

Valtellina, terra di confine. Il mio valico preferito è il Giogo di Santa Maria (in romancio Pass da Umbrail), posto a 2500 metri d’altitudine tra Grigioni (sopra la località di Santa Maria in Val Monastero) e la Val Fraele, in Alta Valtellina, verso Bormio. Oggi è un passo quasi prettamente turistico, chiuso d’inverno, usato come un accesso secondario allo Stelvio, ma che rimane altamente panoramico. Un tempo, serviva come crocevia commerciale. Le bestie da tiro, appunto con i gioghi, affrontavano la durissima strada per trasportare sale, grano e vino.

Bianca Maria Sforza e Massimiliano d’Asburgo

Bianca Maria, ventenne, era figlia di Galeazzo, ucciso da avversari politici siccome, probabilmente, tanto simpatico non era. Nemmeno suo fratello, Ludovico detto il Moro, era da meno. Di fatto, dimenticandosi di avere particolari scrupoli, promise in sposa la nipote orfana a vari rampolli presenti sulla Penisola finché non ebbe la botta di fortuna per saldare l’alleanza con gli Asburgo d’Austria.

Fu un matrimonio prestigioso quanto infelice.

Massimiliano, al momento del fidanzamento, aveva trentaquattro anni ed era vedovo da una decina di anni. La prima moglie, da lui amatissima e mai dimenticata, era morta accidentalmente cadendo da cavallo durante una parata di caccia. Bianca Maria era molto più bella, bionda con la pelle diafana, però non giudiziosa come Maria di Borgogna, la buon’anima. Eppure, si decise a sposarla perché gli metteva in mano l’Italia Settentrionale, dominio degli Sforza di Milano.

Bianca Maria sposò Massimiliano a Milano, per procura, nel luglio 1493. Fu l’evento più fastoso della Lombardia sforzesca. Durante i primi giorni del rigidissimo dicembre dello stesso anno, da Milano partì il corteo nuziale che avrebbe accompagnato la moglie a casa del marito, ossia ad Innsbruck in Austria, passando da Como, Bellagio, Morbegno e Bormio. Il motivo per il quale si affrontò il viaggio al freddo è perché zio Ludovico si era preso un po’ di tempo in più per racimolare la dote, trasportata da ben ventiquattro mule. In realtà, questa non fu che una prima piccola rata dell’esosa somma del “prezzo dello sposo”. Il resto, fu chiesto ai sudditi tramite tasse. Chiaramente, anche la Valtellina faceva parte di questi contribuenti e, inoltre, fu proprio la Valtellina a dover pagare strade, insegne, ponti e tutto il necessario per una buona accoglienza del corteo. Gli sposi si incontrarono la prima volta sulla salita verso il Giogo di Santa Maria, dove Bianca Maria fu accompagnata da una folla di bormini festanti verso il suo destino.

Probabilmente, tra il seguito del corteo c’era anche Leonardo Da Vinci, al servizio del Moro, che descrisse i Bagni di Bormio con le terme antichissime, gli ermellini (e il loro selvaticume) e le montagne valtellinesi (terribili e sempre piene di neve). Il nostro paesaggio, probabilmente, lo lasciò attonito e quasi impaurito.

Bianca Maria visse lontana da casa in terra straniera e all’ombra della prima moglie. Massimiliano la escluse completamente dalla vita politica perché non la considerava all’altezza. Soffriva e, pian piano, il disagio si trasformò in malattia mentale. Preferì spostarsi qua e là per i castelli tirolesi piuttosto che stabilirsi a Innsbruck al fianco del marito, anche se era sempre sorvegliata da amici fidati di suo zio Ludovico. La sua insofferenza la portò a soffrire di anoressia nervosa. Infatti, non riuscì a mettere al mondo figli, sebbene adottò quelli di suo zio quando venne incarcerato dai francesi. Morì praticamente consumata il giorno di San Silvestro del 1510, aveva 38 anni.

*Machine Gun Kelly*

I don’t do fake love / But I’ll take some from you tonight/ I know I’ve got to / But I might just miss the flight/ I can’t stay forever / Let’s play pretend / And treat this night like it’ll happen again / You’ll be my bloody Valentine tonight”

Miss Raincoat

Imbersago

Una Gita Fuori Porta

Dalla finestra davanti alla mia scrivania si vede l’Adamello con le cime innevate, sembrano così vicine ma si trovano già in un’altra provincia rispetto a me… Come l’estate, no? Fino l’altro ieri ci stavamo ancora lamentando del caldo e delle cimici cinesi e adesso risparmiamo le parole allacciando il piumino fin sotto al mento. A questo proposito mi è tornata in mente quella torrida mattina della scorsa alta stagione estiva, quando ho varcato i confini della Valtellina per le volte della Brianza lecchese. 

Imbersago è un paese non tanto grande in provincia di Lecco, sulle colline delle prealpi e bagnato dal fiume Adda (fa, appunto, parte del Parco Adda Nord)

Santuario della Madonna del Bosco

Il primo nucleo del luogo sacro (situato a 1 km dal centro comunale, strada in salita – dotato di numerosi parcheggi gratuiti) nasce nel 1632 e viene detto scurolo, ossia è una piccola cappella entro la quale, attraverso delle statuine, sono narrati i miracoli alla base del culto di questo tempietto.

Erano anni difficili, di guerra, di carestia e di peste, quando nei boschi sopra il borgo di Imbersago cominciarono a verificarsi dei fatti strani, alcuni paesani li chiamarono miracoli. Precisamente alla Sorgente del Lupo, nel 1616, in prossimità di tre grandi castagni, a tre pastorelli apparve la figura di una grande signora, incorniciata da una luce e da una musica celestiale; questo luogo, perciò, diventò presto famoso come Madonna del Riccio, poiché, per quanto fosse il 9 maggio, alla fine della visione uno dei bambini, Pietro, trovò un riccio pieno di castagne mature. Qualche anno dopo, in questa zona infestata dalla ferocia dei branchi, un lupo affamato riesce ad agguantare il neonato figlio di una famiglia di contadini. Solo le preghiere della madre alla Madonna del Riccio riuscirono a salvare il piccolo.

La chiesa vera e propria, invece, fu costruita durante la metà del Seicento sul progetto di Carlo Buzzi, che già era famoso e, quindi, richiedeva un compenso abbastanza notevole. Nel 1677 si arrivò a vedere le forme che anche oggi possiamo ammirare: una pianta ottagonale completamente arricchita da stucchi preziosi. Lo svettante campanile con la statua di Maria in bronzo sulla sommità, invece, è del 1888.

L’elemento di spicco del complesso è la scalinata che sale al santuario, alla quale sono stati concessi 300 giorni d’indulgenza, per ogni gradino percorso recitando il Rosario. In cima alla scalinata, nel 1962, è stata posta l’enorme statua bronzea di Papa Roncalli (Giovanni XXIII) – la quale misura 4 metri e pesa 30 quintali. Il pontefice era solito venire qui in pellegrinaggio, in quanto il suo paese natale, Sotto il Monte (BG), dista da Imbersago meno di 15 km. 

Traghetto di Leonardo – Ecomuseo Adda

Scendendo verso il centro comunale fino al fiume Adda (850 metri dal Municipio – dotato di parcheggi; traghettare costa poco meno di 1 € * 5 auto e 100 persone) , raggiungiamo il porticciolo con questa antica e originale imbarcazione attribuita a Leonardo da Vinci, in quanto studiò a lungo questo progetto durante il suo periodo milanese – questo è l’unico esemplare al mondo funzionante e collega Imbersago (LC) a Villa d’Adda (BG).  Anche il già citato papa Roncalli era solito utilizzare questo traghetto, tant’è che è ricordato su una lapide. Chi non volesse effettuare la traversata, comunque, può continuare la passeggiata sulla sponda lecchese, dialogando (ahahah) con la fauna locale: cigni, germani reali, folaghe e anche libellule aesna questi sono quelli che ho riconosciuto io!!!

Ora tenterò di spiegare il funzionamento dell’ingegneria leonardesca. Vi premetto che ho osservato il traghetto per 30 minuti con la brochure in mano per capirlo!!! Allora… Il traghetto è attaccato a un cavo d’acciaio che va da una sponda all’altra. Siccome il mezzo trae forza dalla corrente dell’acqua, non ha bisogno di un motore. Un solo manovratore agisce su un timone che serve per orientare l’imbarcazione e utilizza un bastone di ferro per dare la spinta iniziale al cavo che unisce le sponde. Quando il traghetto raggiunge la posizione obliqua, è solo la corrente che permette il suo movimento. Ditemi che avete capito! *A scanso di equivoci, vi metto anche il video*

Che strana giornata è stata quella!!! Il giorno dopo mi sarebbe scoppiato in mano l’universo (in senso positivo,eh) e io nemmeno lo sapevo… Per questo è diventata memorabile 🙂

❤ Miss Raincoat

La Torre Ligariana

Il mio Black Friday è stato bordeaux, perché finalmente l’ho trovato. Entra ed esci da un negozio all’altro e, alla fine, sorridente tra le altre grucce, il vestito che cercavo da tempo mi ha chiesto “Hey, Patty, c’è posto per me nel tuto guardaroba?!”. Ma certamente, bello di zia!!! (Infatti per far entrare lui ne ho regalati un paio a mia sorella e a mia nipote, tipo fioretto espiatorio)

Fatto sta che, quando la mia dose di shopping è entrata in circolo nel mio organismo, ho alzato lo sguardo e la Torre Ligariana, simbolo di Sondrio (che è il “mio” capoluogo) mi è sembrata più bella della Tour Eiffel che, del resto, è “soltanto” un ammasso di ferri (ok, scherzo!!! – Paris c’est toujours Paris).

La Torre Ligariana, considerata la torre civica di Sondrio, è, in realtà la torre campanaria della Collegiata di SS. Gervasio e Protasio (o scriveteli come più vi piace, pare sia giusto lo stesso!).

Il campanile originario della Collegiata, non essendo consono ad una chiesa così grande importante (era talmente poco stabile che vibrava al suono delle campane), venne smantellato e il progetto ricostruttivo venne affidato a Pietro Ligari.

La particolarità della storia della Torre è che essa rimase solo un disegno per anni, anche se i Sondriesi stessi la desideravano molto e, soprattutto, la chiesa ne era rimasta sprovvista. Quindi,l’opera fu anche al centro di numerose polemiche. 

  • Primo Progetto del 1733 (P. Ligari) – questo disegno, pienamente in linea con le idee dell’architetto, prevedeva che la torre poggiasse su poderoso basamento e, innalzandosi per 80 metri, culminasse con una cella campanaria, cupola in rame e sfera+croce. La Comunità chiese a Ligari un progetto meno dispendioso, anche se decise, comunque, di posare la prima pietra il 29 marzo 1740 in attesa delle modifiche al progetto.
  • Secondo Progetto del 1742 (P. Ligari) – L’architetto ridimensiona, in altezza e decorazioni, il suo progetto e, come si può leggere sulla fontana posta vicino alla torre, dopo 2 metri i lavori si fermarono, sempre per carenza di fondi e per difficoltà di esecuzione (per la costruzione la Comunità aveva stabilito l’impiego del Serizzo dei Céch, economico, ma abbastanza friabile, per esempio); medesimo iter per l’architetto ticinese Cometti (il Ligari era morto, nel frattempo) che provò a portare avanti un progetto simile a quello ligariano fino alla cella campanaria (oggi la Torre ha 8 campane: una del 1638, due del 1880 e le restanti del 1936). Negli stessi anni, Sondrio dovette far fronte anche al crollo dell’unico Ponte sul Mallero, dopo una rovinosa alluvione.
  • Terzo Progetto del 1763 (P. Solari) – l’architetto comasco, lo stesso di Palazzo Malacrida a Morbegno, ridusse l’altezza del progetto 50 metri e lo portò definitivamente al termine (la piccola cupola culminante con sfera e croce si elevano per ulteriori 9 metri). A questa fase partecipò anche il figlio di Pietro Ligari, Cesare che abbiamo conosciuto qui.

Nonostante sia degno di Rocambole, l’edificio porta la firma del più grande artista settecentesco valtellinese: Pietro Ligari (Ardenno, 1686 – Sondrio, 1752), che fu pittore, architetto, agronomo ed orologiaio. Il Ligari studiò a Roma e si formò su un gusto barocco che portò con sé a Milano e a Sondrio, dove decise di tornare nel 1727. Anche i suoi figli Cesare e Vittoria ereditarono l’estro artistico (sebbene l’Illuminismo di Cesare non fu accolto dal pubblico, nemmeno nella più aperta Como).

Voltolina, com’è detto, valle circundata d’alti e terribili monti, fa vini potenti ed assai, e fa tanto bestiame, che da paesani è concluso nascervi più latte che vino (Leonardo da VinciCodice Atlantico – Foglio 214, 1483-1518)

❤ Miss Raincoat (“vestita di nuovo come le brocche dei biancospini”)