Valtella in Love

Le Tre Grazie” nel Saloncello della Musica // Palazzo Malacrida

Siamo in una stanza con la tappezzeria cremisi, non molto luminosa e adornata da paesaggetti esotici, non a caso è dove i padroni di casa portavano le fanciulle ad ammirare la loro collezione di… affreschi di Cesare Ligari 🙂

Le “Tre Grazie” di Cesare Ligari adornano proprio la volta di questa stanza, un salottino attiguo al Salone delle Feste. Questo plafone è incorniciato dalle quadrature di Giuseppe Coduri, tripudi di frutta e fiori che alludono alla sensualità e ai giochi di seduzione.

In uno squarcio di cielo azzurro su di una nuvola sospinta da putti che soffiano con forza (sono quattro, come i punti cardinali), tre fanciulle mezze svestite si scambiano sguardi complici e pettegolezzi. Insieme a loro c’è Cupido che stringe una colomba in mano (è il simbolo di sua madre, Afrodite).

Questo fu il secondo medaglione che Cesare Ligari realizzò per questo Palazzo. Ne doveva realizzare altri tre, ma litigò pesantemente con Giampietro Malacrida per motivi di soldi e lasciò il cantiere. Nonostante questo, penso che si divertì molto con questi soggetti. Ricordiamo quanto il Ligari amasse i temi mitologici e, soprattutto, non religiosi – e che il Palazzo Malacrida brulica di tematiche filosofiche di stampo neoplatonico.

Cesare Ligari inserisce nella composizione due illusioni ottiche. La prima riguarda Cupido: se lo guardiamo negli occhi, il suo sguardo ci segue per tutta la stanza – non ti puoi nascondere dall’Amore, tanto le sue frecce ti beccano dovunque tu sia; la seconda riguarda Talia, la ragazza di spalle, che a seconda di dove la si guarda, è seduta o sdraiata oppure magra o in carne.

Le Tre Grazie rappresentano la gioia di vivere e, in questo caso, le qualità imprescindibili che dovrebbe avere una donna: il pudore, la bellezza e la voluttà (cioè qualcosa da toccare, ahahah). Quindi, il nostro Cupido scaglia la freccia solo verso le ragazze che sanno offrire, accettare e restituire. A chi? In questo caso ai maschi alfa dei Malacrida.

Inoltre, le tre ragazze stanno giocherellando con dei garofani, i fiori “degli dei” che rappresentano le emozioni forti. Agliaia, con quello rosso, sta dicendo di sì; Eufrosine, con quello giallo, sta dicendo di no – ma Talia, voltata, le rende un braccio e le ricorda di pensarci meglio, perché l’apparenza inganna.

Quindi, anche in questo dipinto subentra la tematica neoplatonica. Il sesso è la forza che fa andare avanti il mondo, è vero. Ma l’amore, per diventare Amore, ha bisogno di corpo e mente.

C. Ligari – 1761

Ugo Foscolo, Dedica alle Grazie

“Alle Grazie immortali / le tre di Citerea figlie gemelle / è sacro il tempio, e son d’Amor sorelle; / nate il dì che a’ mortali / beltà ingegno virtù concesse Giove / onde perpetue sempre e sempre nuove / le tre doti celesti / e più lodate e più modeste ognora / le Dee serbino al mondo. Entra ed adora”

Miss Raincoat

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Valtella in Love

Don Antonio Malacrida

Oggi vi spiegherò perché il personaggio più figo della saga dei Malacrida di Morbegno è il don Antonio. Quindi l’amore è tra me e lui 😀

Partiamo dalla sua nascita. Lui era figlio di Ascanio I (1680 – 1757) e Annamaria Peregalli. Ascanio è l’uomo che inizia lo scheletro dell’edificio del Palazzo ma, per via della numerosa prole, dovette “trà giù la cunta” – come si dice tra le nostre valli – ossia, abbandonare l’opera – che sappiamo fu portata egregiamente a termine dallo sforzo economico del figlio Giampietro, che la volle al passo con la moda settecentesca. Ascanio era sicuramente affascinante dentro (come l’Eroe Coronato nel Salone degli Stucchi) perché era una sorta di criminologo; tuttavia, il suo aspetto fisico lo ritraeva cicciottello e con il naso adunco. Fu sua moglie, bionda con gli occhi azzurri, a portare in dote la bellezza. La poveretta mise al mondo ben ventiquattro figli e morì nel 1731 mettendo al mondo Antonio, il più piccolo e il più bello. Da vedovo, Ascanio, che già era uomo prudente, diventò ansioso per la vita dei figli – dei quali solo pochi giunsero all’età adulta tutti generosamente miopi.

Il nostro bell’Antonio nasce il 27 maggio 1731 sotto il segno dei Gemelli (il fratello Giampietro era nato nel 1714!!!). Avrebbe tanto desiderato una carriera militare e non voleva finire come la sorella Francesca, diventata suora di clausura sotto il nome di Marianna Giuseppa due anni prima che lui nascesse. Eppure, suo padre, che con lui cresciuto senza mamma era ancora più apprensivo, aveva già pensato a una carriera ecclesiastica, che sarebbe sicuramente anche costata di meno per la famiglia. Così, dopo gli studi a Modena dove si laurea in Teologia e si appassiona anche al canto gregoriano, celebra la sua prima messa all’età di 25 anni, probabilmente presso la Gisèta di Morbegno (altro mio pezzo di cuore) – motivo per il quale, poi, il beneficio Mezzera di quella cappella passerà nelle mani dei Malacrida.

A questo punto, don Antonio pensa di poter levare le tende. Suo padre, però, impiega gli ultimi due anni della sua vita a convincerlo a restare a Morbegno. Fonda un canonicato soltanto per lui, in modo che abbia una buona rendita vitalizia, lo inserisce nei partecipanti attivi della fabbrica del San Giovanni di Morbegno (che terminerà nel 1780) e lo fa inserire come confessore delle monache di clausura al Convento della Presentazione (per la gioia delle suore, ohibò!).

Dovete immaginarlo così l’ Antonio: sano, alto, muscoloso, abile nelle conversazioni, un ottimo fantino e un esperto di botanica (il suo fiore preferito era il garofano). Non ci sembra strano capire perché, molto spesso, era chiamato a celebrare le messe solenni. Insomma, troppo bello per essere incline alla vita clericale.

Nel 1794 ottiene il giubilato per mantenere i privilegi concessi a Morbegno (ossia il denaro) pur risiedendo a Milano, in contrada Santa Prassede. Nella city vivrà più come un gentiluomo che come un prete e non si farà mancare nemmeno i festeggiamenti per l’incoronazione di Napoleone.

Torna a Morbegno solo nel 1805, prossimo alla morte, per farsi assistere dal nipote Ascanio II, che nominerà suo unico erede. Muore nel 1808 e i suoi funerali saranno i più sontuosi del secolo.

“Le Tre Grazie” di C. Ligari – 1761
Saloncello della Musica // Palazzo Malacrida (Morbegno)

Da “Uccelli di Rovo”

“L’uccello con la spina nel petto segue una legge immutabile; è spinto da non sa cosa a trafiggersi, e muore cantando. Nell’attimo stesso in cui la spina lo penetra, non ha consapevolezza della morte imminente; si limita a cantare e a cantare, finché non rimane più vita per emettere una sola altra nota. Ma noi, quando affondiamo le spine nel nostro petto, sappiamo. E lo facciamo ugualmente. Lo facciamo ugualmente”

Miss Raincoat

Andrea Lanzani a Morbegno

La committenza di don Giambattista Castelli di Sannazzaro

Per quanto riguarda l’Arte Religiosa, l’arciprete di Morbegno fu un mecenate equiparabile solo a Giampietro Malacrida e, non a caso, la Collegiata di Morbegno, da lui fortemente voluta, è considerata una pinacoteca del Settecento Valtellinese.

Proveniente da una delle più antiche e nobili famiglie morbegnesi (il Palazzo Castelli di Sannazzaro è sede del Municipio), prima di dedicarsi alla carriera ecclesiastica aveva conseguito una laurea in utroque iure (ossia in Legge) e viaggiato molto, specie in Austria. A Milano, era un canonico molto stimato, tant’è che aveva intrecciato numerose relazioni sociali sia nel mondo della cultura, sia nel mondo della politica. Rientra a Morbegno, la città natale, per rivestire la carica di arciprete e, appunto, sarà lui a dare impulso alla fabbrica del nuovo San Giovanni.

Vari dipinti che rivestono la chiesa provengono, infatti, dalla sua collezione privata; come per tanti nobili del suo tempo, amava comprarsi opere d’arte. Conosceva personalmente tutta la famiglia Ligari e il ciclo “maledetto” (dal furto del 1995) delle tele ovali “delle Sibille e dei Profeti” fu un suo capriccio che commissionò a Pietro. E fu lo stesso Castelli di Sannazzaro a chiedere allo stesso Pietro di accontentarsi di metà del compenso per la decorazione del presbiterio, in modo da lasciare una gloriosa opera di beneficenza sotto gli occhi di Dio. Ben diverso il temperamento del figlio Cesare, il quale lascerà la committenza al Palazzo Malacrida a metà perché non voleva essere pagato come un imbianchino.

Giambattista Castelli di Sannazzaro muore a Morbegno nel 1696. Il cantiere del San Giovanni, iniziato nel 1680, si protrarrà fino al 1780.

Andrea Lanzani (Milano, 1641 -1713)

Questa personalità artistica si fa portavoce della transizione dell’arte milanese dal Manierismo (sulla lezione di Leonardo) al Barocco. Ne deriva un’arte monumentale che, al contempo, provoca un’intensa partecipazione emotiva ed empatica.

Il Lanzani proveniva dall’Accademia Ambrosiana, fondata dal cardinale Federico Borromeo (cugino di San Carlo) per mettere la Cultura al servizio della Gloria di Dio. In parole povere, era la fucina dell’Arte della Controriforma che utilizzava l’immagine artistica come propaganda in antitesi alla Riforma: censurare il peccato e spettacolarizzare la santità per veicolare il messaggio che “se ti penti, sei ancora in tempo…”.

Don Castelli di Sannazzaro aveva in collezione vari pezzi dell’Accademia e, probabilmente, conosceva bene anche il Borromeo. Per la Cappella di San Giuseppe presso il San Giovanni, nonché la cappella di famiglia, sceglie e dona una tela del suo pittore preferito, Andrea Lanzani.

Nel 1674, il Lanzani si trasferirà da Milano a Roma dove entrerà in contatto con Carlo Maratta, un maestro che, a sua volta, aveva conciliato il Manierismo con il Barocco eludendo gli eccessi retorici: un’arte che va subito al dunque, severa e magniloquente. Il Lanzani porta questa innovazione a Milano. Si può dire che fu il modello per l’arte di due pittori valtellinesi del Primo Settecento, Pietro Ligari e Giacomo Parravicini detto il Gianolo.

“La Morte di San Giuseppe”

La tela che il Castelli di Sannazzaro regala alla cappella di famiglia, la Cappella di San Giuseppe, è firmata da Andrea Lanzani e datata 1679 sul manico del martello ai piedi del letto. In realtà, non la vide mai al suo posto perché la cappella sarà ultimata nel 1715. Lo stesso, lascerà un’altra opera del Lanzani alla Chiesa di Campovico, frazione retica di Morbegno (“Immacolata” del 1684).

Dai Vangeli Apocrifi, apprendiamo che San Giuseppe muore a 111 anni, sereno e circondato dall’amore. Era stato quell’uomo che, dal basso della sua umanità, aveva accettato il disegno divino e, perciò, gli fu concessa la grazia di una morte lieve.

Il Lanzani dipinge un Gesù che regge tra le sue mani la testa del padre putativo (“che si è comportato come tale”) e guarda verso l’alto, verso il Padre e glielo affida capovolgendo il ruolo genitoriale; gli Angelo che vanno incontro all’anima di San Giuseppe; Maria (la moglie) e Maria (la sorella) al capezzale. Il punto di fuga alto ci permette di cogliere bene tutta la scena, particolari compresi. Sparsi per terra ci sono i vari attrezzi dell’attività di falegname di Giuseppe.

L’opera esprime tensione e intensità nei volti che, con il loro dolore trattenuto, coinvolgono nel lutto lo spettatore. La composizione, comunque, sulla lezione del Maratta, non perde grazia poiché pulita e geometrica. Di fatto, anche con i colori luminosi già quasi proiettati nel Settecento, la scena è leggera e intima. La falcata di luce diagonale, molto meno violenta dello stile caravaggesco, illumina l’episodio di sacralità.

Anche a livello artistico c’è un transito: questa tela è antesignana di una Rivoluzione Artistica. La gioventù artistica lombarda era stufa della formalità di un’arte castigata e bigia; voleva il colore, la luce e l’aria. I motivi ricorrenti del Settecento italiano saranno, appunto, il colore vibrante, il volo e la prospettiva squarciata verso cieli infiniti.

Quelle di Morbegno, per il Lanzani, sono esempi della sua artistica giovanile. Pochi anni dopo si trasferirà a Vienna, da dove la sua carriera decollerà a livello europeo.

*il reliquiario in cera contiene le ossa
del Beato Andrea Grego da Peschiera

Miss Raincoat