Valtella in Love

Il Giovannino e la Magada

Teglio, patria dei Pizzoccheri. Sì, ma non solo. Questo territorio comprende la località Nìgula (certo, quella che dà anche il nome alla birra artigianale Pintalpina) sovrastata dalla Valle della Magàda (ossia della Strega) – una selva intricata, ombrosa e resa sinistra anche da gole e ruscelli di montagna…

L’acqua, elemento mutevole e dalla superficie impalpabile ma luccicante, ha creato nell’immaginario collettivo alpino numerose leggende con protagoniste le magàde. Queste creature magiche prendono spunto dalle ninfe, dalle fate e anche dalle moire greche. Quindi, sono molto sensuali, pericolose e regolano dall’alto il destino degli uomini che incontrano, se ne innamorano in maniera ebbra, impazziscono e fanno una brutta fine. Insomma, sono il simbolo della felicità puttana, come ci canterebbe Tommaso Paradiso.

Come riconoscerle? Beh, sicuramente non le si incontra mai tanto lontane dall’acqua, il loro elemento. Hanno capelli molto lunghi, occhi chiari, carnagione chiarissima e statura poco elevata. Vestono di nero o di colori sgargianti. Spesso, hanno un piede deforme che le rende zoppe. Sono sempre intente a pettinarsi o a filare.


Giovannino era un adolescente orfano di padre e, ogni giorno, andava a pascolare le sue capre. Per passare il tempo mentre menava il gregge, suonava spesso il piffero.

Anche il trentuno dicembre di quell’anno sta cercando un prato per far mangiare le sue caprette, quand’ecco che ne trova uno insolitamente pieno di fiori, molto strano per quel periodo dell’anno. Non se ne cura e si mette a suonare il suo flauto come sempre. Improvvisamente, gli appaiono davanti tre bellissime fanciulle nude. Quella che a lui sembra più bella gli strappa addirittura il flauto dalle mani e si mette a suonare per lui una melodia celestiale. Le ragazze gli tengono compagnia fino al tramonto e gli danno appuntamento all’anno successivo.

Il ragazzo torna a casa e rimane turbato dall’accaduto, finché sua mamma non si accorge che ha qualcosa che non va. Una volta sentita la storia, la signora lo rassicura e gli dice che non è l’unico ad aver visto personaggi magici in zona. Però, lo mette in guardia perché ha sentito che esiste anche una strega brutta e vecchia che è stata beccata vicino a un torrente a divorare dei neonati che aveva rapito.

La mamma escogita un piano insieme a Giovannino per catturare la più bella delle tre fate. Il trucco sarà lanciarle un cappello che la creatura magica raccoglierà docile. Lui dovrà soltanto farsi seguire fino a casa per farselo restituire. In effetti, il trentuno dicembre dell’anno successivo, Giovannino riesce a portarsi la fata a casa tramite questo stratagemma.

La fata Magàda è tenuta in ostaggio per un altro anno, finché Giovannino le confessa il suo amore e la sposa. Lei si fa soltanto promettere che lui non la picchierà mai. Il loro matrimonio, tenuto insieme solo da questo patto e nient’altro, va avanti a gonfie vele. Intanto, nascono anche due gemelli.

Una sera, però, non trovando la moglie a casa per cena, Giovannino va su tutte le furie. Quando lei torna, benché si giustifichi di aver fatto tardi al lavatoio e del fatto che lei all’acqua non sa resistere, lui la percuote con un bastone. Lei era stata chiara su questo punto, allora scompare abbandonando lì anche i figlioletti.

Nonostante questo, inspiegabilmente, ogni sera l’uomo, quando torna a casa, la trova pulita e con la cena sui fornelli. Purtroppo, qualche giorno più tardi, giocando, i due gemellini fanno morire un agnellino. Il papà arrabbiato li sculaccia, così spariscono anche loro nelle stesse modalità della mamma.

Giovannino è disperato, così il trentuno dicembre si getta da un burrone nella stessa radura dove aveva incontrato la moglie e madre dei suoi figli.

Din don Capanon (Din Don Campanile)
Quatru Dunzeli sul Balcùn (Quattro donzelle sul balcone)
Una la taia (Una taglia)
Una la fila (Una fila)
Una la fà i capei de paia (Una fa i cappelli di paglia)
Una la ciama San Martin  (Una chiama San Martino)
Da purtach un pegurin (perché le porti un agnello)
Un pegurin con su la lana (un agnello coperto di lana)
La macana la fà la nana (La bambina fa la nanna)

Mi è venuta in mente questa filastrocca che mi cantava mia nonna materna, la nonna Alma (probabilmente l’aveva imparata da sua cognata che si era sposata a Grosio). Penso che sia un riferimento alla Festa di San Martino, in occasione del “capodanno del vino”, insomma, la festa della fine dell’anno agricolo per eccellenza. Le ragazze sul balcone a me ricordano molto le Parche, le oscure figure mitologiche che tessevano il destino dei mortali. Una filava il filo della vita, l’altra assegnava il destino e l’ultima, inesorabile, tagliava il suddetto filo al momento stabilito. In questo caso, c’è una quarta fanciulla che implora San Martino di portare un agnello che sia ben ricco di lana con il quale realizzare tantissimo filo e augurare una vita lunghissima a un’ignara bambina, come me, che doveva fare sonni tranquilli.

Miss Raincoat

L’Orlando Furioso in Valtellina

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori/ le cortesie, l’audaci imprese io canto/ che furo al tempo che passaro i Mori/ d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto/ seguendo l’ire e i giovenil furori/d’Agramante lor re, che si diè vanto/ di vendicar la morte di Troiano/ sopra re Carlo imperator romano.

Proemio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto

Poco tempo fa, mi sono trovata a spiegare per quale motivo nella tradizione antica valtellinese si sono tramandati nomi inconsueti come Angelica, Doralice, Ruggiero, Orlando o Rinaldo, per esempio. Semplice, sono tutti nomi da ricondursi alla grande fortuna dell‘Orlando Furioso di Ludovico Ariosto qui tra le Alpi Retiche e le Prealpi Orobie.

Ne abbiamo una manciata di esempi nella scelta delle tematiche pittoriche al Palazzo Valenti di Talamona, al Castel Masegra di Sondrio e all’iconico Palazzo Besta di Teglio. Tutti e tre si ispirano all’edizione illustrata del poema, stampata a Venezia circa nel 1542 da Giolito De Ferrari.

Le motivazioni di questo grande affetto verso le vicende di Orlando & Friends sono principalmente tre: * la Valtellina era aperta agli influssi di corti raffinate come quelle dei Gonzaga e degli Estensi (infatti la prima pubblicazione ebbe luogo a Ferrara); * la storia appassionava, divertiva e svagava da un momento storico terribile (pensiamoci, le frequenti pesti e carestie erano mischiate anche con i primi sostanziali problemi con il dominio delle Tre Leghe); * l’armonia tra il filo narrativo amoroso e quello celebrativo.

L’Orlando Furioso riprende la tradizione del ciclo carolingio e bretone che già metteva in scena l’amore folle dell’eroe durante le guerre tra Saraceni e Cristiani. Anche in Valtellina, a Castionetto di Chiuro, esiste una Torre di Roncisvalle del XIV secolo e voluta come strumento di difesa da Stefano Quadrio. Forse, è vero che il suo nome viene da “rusciavai”, un termine dialettale per indicare un dosso particolarmente ripido, ma a noi ci piace pensare alla poesia. Orlando muore proprio a Roncisvalle, in una battaglia alla fine della quale i Cristiani hanno la peggio.

Palazzo Valenti

Un anonimo artista raffinato del XVI affresca sulla facciata dei testi che conosceva molto bene. Il canto messo in arte è il secondo.

Castel Masegra

Un anonimo artista del XVI affresca i primi 8 episodi in una stanza interna del piano nobile. Il probabile committente fu Castellino III Beccaria, leggendario discendente di Orlando; pare anche che l’Olifante echeggiasse nel torrente Mallero. Il canto messo in risalto è il quarto.

Palazzo Besta

Vincenzo De Barberis, uno dei collaboratori di Giulio Romano presso il Palazzo Te di Mantova, dipinge vari affreschi per la corte coltissima di Azzo e Agnese Besta. In particolare, lascia 24 scene molto teatrali sull’Orlando Furioso. La particolarità è che, in questa dimora, il poema non è trattato in chiave scanzonata bensì morale. Le scene, infatti, sono abbinate agli Adagia di Erasmo da Rotterdam. Sicuramente, è emblematico il peso del canto trentaquattro.

❤ Miss Raincoat

°* Letture consigliate dall’Unicorno °*

“Orlando Furioso” raccontato da Italo Calvino

“Orlando Furioso raccontato in affreschi in Valtellina: appunti per un viaggio” dell’Associazione Culturale Bradamante

“L’Orlando Furioso in Valtellina” di Giacomo Maria Prati

Teglio

Che fare per non rassegnarsi al fatto che l’estate ci sta salutando con la manina? Semplice, spostarsi là dove nasce la Valtellina, a Teglio, adagiato su una soleggiata terrazza retica a circa 900 metri d’altitudine e noto per aver dato i natali ai Pizzoccheri.

Ricetta dei Pizzoccheri (Accademia di Teglio)

(* per chiudere il discorso mangereccio, pare che il Grano Saraceno sia stato introdotto in Valtellina nel Seicento, al tempo del governo grigione di Giovanni Guler Von Weinech)

Cosa vedere a Teglio?

La prima tappa della nostro gita non può che essere Piazza S. Eufemia. L’esterno della Chiesa di Sant’Eufemia è medievale nella struttura (p.e. le lesene con il pinnacolo, l’ogiva del portale e la cordonatura delle colonne degli stipiti), rinascimentale nel protiro e nel rosone (attribuito ai Rodari, presenti anche a Ponte, Morbegno e Tirano, promotori del Rinascimento in Valle) e, soprattutto, nei motivi floreali simbolici (rose, fiori di loto, delfini, tutti alludenti alla Mater Dei). Le due costruzioni che si affacciano sul sagrato sono l’Oratorio dei Bianchi (con affreschi cinquecenteschi di Giovannino da Sondalo), ossia dei Battuti di S. Bernardino da Siena, dirimpetto e, a destra, l’Oratorio dei Neri, ossia del Suffragio dei Defunti/S. Luigi Gonzaga (in stile barocco).

Ci accingiamo, così, ad ammirare l’opulenza e lo studio luministico dell’interno della Collegiata (è una Cattedrale senza Vescovo, ossia). Consacrata nel 1117 e dipendente direttamente al priore di Milano fino al Cinquecento, fu una di quelle chiese dedicate a Santa Eufemia per copiare la basilica bizantina di Calcedonia, dove fu ratificata la duplice natura di Cristo; Teglio, protetta dal Castello, era un luogo ideale da dove avviare l’evangelizzazione di una Valle ancora pagana. L’altare maggiore è ovviamente dedicato alle Storie di Sant’Eufemia; nella navata sinistra troviamo una serie di dipinti del “periodo grigione” (metà Cinquecento) di Gian Giacomo Barbello, distribuiti nelle varie cappelle: San Giovanni Battista, San Sebastiano con teca del Cristo (è una particolare statua snodabile a seconda della posizione che gli si vuol fare assumere), Fonte Battesimale (‘500) e Sacro Cuore (Oratorio dei Bianchi); nella navata destra l’impianto è settecentesco: la prima cappella è dedicata a San Francesco Saverio (Oratorio dei Neri), la mediana a S.Antonio abate (con tela di Giovanni Pietro Romegialli) e l’ultima alla Madonna del Rosario – nella stessa navata compaiono dei lacerti di una precedenti dipintura cinquecentesca con iscrizioni gotiche e Santi (S. Antonio, S. Elena, S. Vincenzo e S.Caterina d’Alessandria).

Usciti dalla chiesa, percorriamo il Viale delle Rimembranze al lato del Parco e dell’Anfiteatro fino a raggiungere via Besta.

La visita del Palazzo Besta è d’obbligo (info), a pagamento e con visita guidata di un’oretta – 4€ intero.

Il palazzo rinascimentale è la testimonianza della volontà dei nobili di ricercare il bello in un’opera d’arte: ne è un valido esempio il loggiato interno affrescato non solo con i ritratti di famiglia, ma anche con le Scene dell’Eneide. Al piano nobile sono visitabili il Salone d’Onore (Scene dell’Orlando Furioso), la Sala da Pranzo e la Biblioteca con il soffitto a ombrello, la Saletta della Creazione (con un raro mappamondo affrescato di fine Quattrocento, con le Americhe – e una specie di enciclopedia illustrata di animali reali e fantastici) e varie Stüe rivestite in pino cembro e con cassettoni meravigliosamente disparati. L’ultimo piano, un tempo residenza della servitù, presenta ricostruzioni di affreschi riportati qui da altre dimore nobili valtellinesi, ma conserva anche l’alcova per l’amante, una stanza “a baule” interamente in legno e la piccionaia. Il palazzo nasconde anche vari segreti e stramberie del noblesse oblige: dalle camere separate per marito e moglie, insieme per convenienza e da soli nelle stanze private, alla sepoltura di un fido piccione). Al piano terra è stato allestito l’Antiquarium Tellinum, con le tre Stele di Caven (tra le quali la Grande Madre, dea della fertilità preistorica)

Se il pancino comincia a brontolare nella stessa via c’è il Ristorante Pizzeria “Al Castello”. Io ho pranzato nel giardino,che guarda verso il Palazzo Besta, comunque ben isolato da una siepe e tanti fiori. Con ca. 20€ ho gustato il Menù Degustazione (tagliere di affettati, sciatt, pizzoccheri, formaggi, gelato mantecato al Braulio, caffé + acqua e vino). 

Per smaltire la rusticità della cucina valtellinese, ripercorriamo Viale delle Rimebranze e prendiamo il sentiero tra i boschi verso la Torre de Li Beli Miri (infatti, la vista da qui e dalla cima della torre, che si può “scalare”, è meravigliosa) – il percorso è fattibile anche senza particolare amore per le passeggiate e dura 10 minuti se si va piano.

La conclusione della gita avviene, appunto, sul dosso del Castrum Tilii, il castello dal quale prende il nome la Val – Tellina. Del maniero, oggi restano la dominante torre e i ruderi della Chiesetta di Santo Stefano, al servizio delle milizie castellane.

collage

❤ Miss Raincoat