Il Complesso di Sant’Antonio a Morbegno

Chiesa di Sant’Antonio (Auditorium)

Nella scorsa puntata, abbiamo appreso che, con l’insediamento dei frati domenicani, la chiesa perse per strada la dedicazione a Santa Marta e, per motivi di diritto ecclesiastico, tenne per buono il co-dedicatario Sant’Antonio, considerato anche il protettore di tutti gli ordini monastici maschili.

Certo, oggi questo edificio, con la sua conformazione di sala d’ascolto e le schegge d’arte, non ci richiama l’opulenza con la quale era stato concepito. Badiamo che questa chiesa occupa 800 mq di superficie e, in origine, colava oro e nessun centimetro escludeva di essere ammirato. I nobili di Morbegno e limitrofi si erano messi in gara per essere il miglior committente del Sant’Antonio!

Solitamente, si dà la colpa a Napoleone che, con la sua confisca del 1798, firmò la diaspora delle opere d’arte che rivestivano e adornavano la chiesa (alcune le possiamo trovare nelle altre chiese di Morbegno, altre chissà dove sono finite…). La chiesa tornerà ad essere tale dal 1924 al 1977, poi diventerà un deposito e, solo nel 2008, rinascerà come Auditorium – per me, un ottimo uso, dato che i Domenicani erano molto attenti alla musica durante le funzioni.

Tuttavia, era già iniziato lo scempio nel 1663, quando si decise di coprire il Rinascimento con uno strato di Barocco. Ma non il Barocco artistico, quello più grossolano e pacchiano che possa esistere. Per spiegarlo agli atei, come quegli interventi di chirurgia estetica mal riusciti…

Il fatto che questa chiesa sia stata lasciata deperire per molti anni (anche il Damiani era indignato per questo motivo!!!) ha fatto riemergere, comunque, la Storia: le pareti del Sant’Antonio portano tre strati di affreschi (alcuni continuano addirittura sopra la copertura a crociera, in origine a capriate) – quello dell’antica Santa Marta, quello Rinascimentale e quello BaroccoTarocco. Per quanto riguarda la presa di coscienza, sappiamo che nel 1932 ci si rese conto dell’importanza del Protiro esterno e della Cappella di Santa Caterina; tra il 1961 e il 1964 si restaurò tutta l’ala sinistra e, a destra, la Cappella di San Martino – il resto è rimasto orfano fino al restauro degli anni Duemila.

Possiamo dire, in generale, che il Sant’Antonio è una chiesa tipicamente domenicana, pensata come un’ampia aula, senza impedimenti o distrazioni dall’altare centrale, dove si svolgevano le prediche e le spettacolari messe “di propaganda“. Le cappelle, infatti, sono laterali e la navata è unica. Da una parte, servivano per rinforzare gli insegnamenti dottrinali tramite Santi e Sante esemplari di martiri in nome della Fede, di Redenzione, di Umiltà ostentata e di Miracolosità – erano i thriller dell’epoca; dall’altra, essendo tutte finanziate da un committente diverso, erano un po’ come gli sponsor degli eventi odierni. L’Arte Rinascimentale di queste cappelle, cronologicamente collocabili alla fine del Quattrocento (a parte le due cappelle a destra del 1520 ca.) e geograficamente in ambito lombardo con alcuni influssi mitteleuropei.

A sinistra, dall’ingresso

Santa Caterina D’Alessandria (famiglia Vicedomini di Cosio e Morbegno) – Artisticamente è la più rinascimentale delle cappelle (artisti di ambito comasco), per i colori vivaci e per la ricerca di prospettiva. La Santa, oltre ad essere la più celebre tra le martiri romane, è patrona dei teologi;

Natività e Adorazione dei Magi (Frati Domenicani di Morbegno) – I soggetti sintetizzano i concetti di umiltà sia dei Re sia di Gesù;

San Pietro Martire (famiglia De Pesci di Ardenno) – Il Santo martire domenicano è il patrono del Convento; sulle pareti incontriamo la sua agiografia, soprattutto la sua missione tra le prostitute e il suo leggendario martirio, che lo fa diventare anche patrono degli emicranici (questa storia eccentrica la racconterò nel prossimo episodio!). Sul fronte della cappella troviamo una Crocifissione con Santi Domenicani. Il pittore di questa cappella è Fermo Stella, alunno del Ferrari (che abbiamo incontrato nel protiro, all’esterno). La volta con gli evangelisti, invece porta la firma di Marco D’Oggiono, alunno diretto di Leonardo Da Vinci.

San Vincenzo e Beato Andrea (famiglia Malaguccini di Morbegno) – Il Beato Andrea Griego da Peschiera, frate che morì qui nel 1485, fu un predicatore instancabile, beatificato a furor di popolo – le sue reliquie (inizialmente conservate in questa cappella; dopo la Confisca traslate neln San Giovanni, ossia nel reliquiario in cera) furono considerate miracolose durante la Peste. Nella fascia di medaglioni sull’arco, lui è il primo a destra. La cappella è dipinta con l’agiografia di San Vincenzo (da notare la resurrezione di un bambino) sulle pareti e con una Crocifissione insieme a San Domenico, San Pietro Martire e Santa Caterina da Siena sulla lunetta.

** su questo lato è stata murata e, poi, demolita una cappella di San Rocco che, originariamente, era addossata lateralmente a Santa Marta e chiudeva la Morbegno est (abbiamo, infatti, un’altra cappella di San Rocco a chiuderla a ovest).

A destra, dal palco

(Questo lato è davvero molto deteriorato e riporta i segni del tempo e dello scalpello tra uno strato e l’altro)

Le prime due cappelle sono state dipinte da Vincenzo De Barberis, il maestro di Cipriano Valorsa. La Cappella dedicata al “boss” Sant’Antonio abate (protettore degli animali) fu pagata dalla famiglia Guasco; la Cappella di San Martino, la più iconica di questa chiesa, fu commissionata dalla Comunità di Morbegno. Di fatto, la chiesa di San Martino fu il primo edificio sacro di Morbegno. Metaforicamente, la chiesa poggia su questa cappella, secondo me. Inoltre, sono una grande fan dello stile raffinato e vivace nelle cromie quasi fluo del Vincy De Barberis, bresciano.

Le ultime due cappelle (delle famiglie Castelli D’Argegno e Castelli di Sannazaro), oltre ad essere abbastanza irriconoscibili e lacunose, portano proprio quei pesanti tratti del restauro seicentesco. Erano dedicate all’altro “boss”, San Domenico, e a Santa Maddalena (vi era anche la reliquia di un suo omero, persa durante la Confisca). Ciò nonostante, è in queste cappelle che sono riemersi dei preziosi tasselli di affreschi che appartenevano alla chiesa di Santa Marta, come il San Tommaso che regge la chiesa e una pelliccia (che non è dell’Homo Salvadego, ma l’abito frugale di San Giovanni Battista).

La Cappella della Madonna del Rosario

Per me è un piccolo scrigno segreto e si trova dietro il vecchio altare/odierno palco – proseguendo a sinistra. Questa sorta di cappella radiale, fu affrescata nel Settecento – è un po’ indie in questo. Il committente fu la famiglia Parravicini, a quei tempi importantissima. Il pittore è Pietro Bianchi detto il Bustino. Lu, di Borgovico (Como), affrescò anche parte dell’Assunta e tutto il San Pietro, ma perse un po’ la gara tra i pittori perché il famoso Pietro Ligari aveva un potente fan club! Nel centro troviamo la Madonna in Gloria che consegna il Rosario a Santa Caterina da Siena e al nostro San Domenico (in coppia, sono i santi domenicani più importanti). Ai lati, sorrette dai Profeti, troviamo le scene di due battaglie, per mare e per terra, della Serenissima contro i Turchi. A noi interessa quella in mare, la famosa Battaglia di Lepanto (1571) dopo la vittoria della quale Pio V istituiì la festività del Santo Rosario, molto sentita anche nella Valle più pop, perché cade nel periodo della vendemmia delle castagne. Pio V, frate domenicano e al secolo Michele Ghislieri, fu ospite e inquisitore qui al Sant’Antonio – lo troviamo anche nei medaglioni dei frati domenicani di questa cappella. Nel sott’arco si legge qualcosa simile all’Ave Maria in latino, come una cover domenicana di questa preghiera.

Alla prossima (e ultima) puntata!

Miss Raincoat

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Il San Simone e Giuda a Valle di Colorina

Un paio di anni fa, durante una mostra di cimeli di caccia, ho scoperto che una chiesetta sconsacrata, sulla strada dalla frazione dove abito al centro municipale, possedesse anche un interno capace di stimolare la mia curiosità, poco risvegliata da quelle corna esposte così alla mercé di tutti. — Eh sì, detesto ambo i tradimenti e la caccia per procurarsi gingilli da esposizione, sia in senso stretto sia in senso figurato!

La chiesa di Valle, consacrata fino al compimento dell’attiguo Santuario del Divin Prigioniero (costruito dopo la Prima Guerra Mondiale) è riportata sul resoconto della Visita Pastorale Ninguarda, perciò esisteva già nel Cinquecento come entità, benché la sua forma odierna è del 1795. La Comunità, difatti, voleva spostare l’edificio originario perché  troppo vicino al torrente Presio e pericolosamente lontano dal borgo. Per ragioni del tutto pecuniarie, però, a metà dell’abbattimento della vecchia struttura, si dovette procedere a ricostruirla lì dov’era. Cornuti e mazziati!

Come dedicazione, è “sorella” del San Giacomo a Selvetta, lungo la stessa mulattiera che portava verso Sondrio (anche Valle, originariamente, dipendeva dalla Matrice di Berbenno [fino al 1629], alla quale si attribuisce il progetto delle dodici chiese votate agli Apostoli); è curioso sapere che San Simone e Giuda, festeggiati il 28 ottobre, proteggono i disperati. Nel territorio di Colorina, comunque, era molto più vivo il culto della Madonna del Rosario, probabilmente per un forte legame con l’ambiente domenicano (legato al Sant’Antonio di Morbegno).

La facciata non è diversa rispetto ad altre chiese coeve riscontrabili lungo la pedemontana via verso Sondrio, delle quali citiamo la cinquecentesca SS. Giacomo e Filippo ad Albosaggia. Infatti, l’impostazione è molto tardo-rinascimentale nel timpano e nei due ordini di finestre (nel primo: tre, con la mediana a tutto sesto; nel secondo: una più grande, che riprende la forma delle laterali sottostanti). Originariamente, il timpano e parte della facciata erano sicuramente affrescati. Sempre all’esterno, sul lato verso la strada, troviamo una teca, aggiunta nel Novecento, con la statua di S. Antonio da Padova. Nella stessa ala troviamo la torre campanaria, rinascimentale anch’essa, ma con l’aggiunta seicentesca del cupolino ottagonale, quasi per fare concorrenza all’Assunta di Berbenno, dalla quale si era resa indipendente nel 1622.

L’interno, a giudicare dai lacerti di affreschi e di stucchi, doveva presentarsi molto colorato e decorato in uno stile sempre tardo-cinquecentesco (il cosiddetto Rinascimento Lombardo, qui presente grazie alla Scuola del De Barberis). L’aula con copertura a botte è asimmetrica e presenta, appunto, due cappelle solo sul lato sinistro: la prima a pianta rettangolare e la seconda, più prossima all’altare, a pianta semicircolare e con copertura a volta (sulla quale viene rappresentato una Gloria di Dio; alludente forse al fatto che, sotto, ci fosse la statua della Madonna ???).

Ambo le due pareti laterali presentano segni di dipinti che, a giudicare dagli “indizi” (come la mitra, il bastone pastorale ed un leggio), potrebbero riferirsi ai Quattro Dottori della Chiesa. Non potrebbe essere così improbabile, visto che, dal Medioevo, i quattro Padri edificatori della Chiesa Terrena, accompagnavano la figura “mediatrice” della Vergine con il Bambino nel catino absidale (qui è troppo deteriorato per capire che cosa rappresentasse, però); probabilmente, dati i periodi funesti, durante il Dominio Grigione di fede evangelica, gli affreschi del San Simone e Giuda volevano proporsi come forti anche “lontani” da Berbenno e autorevoli nel manifesto dogmatico cattolico.

Auguro un’altra buona vita alla piccola chiesetta, che sabato 16 settembre 2017, alle ore 20:00, diventerà ufficialmente l’Auditorium “Monsignor Lino Varischetti”!!!

❤ Miss Raincoat

Alcune precisazioni storiche: dal 1679 al 1886 vicecuria di Berbenno; con alle dipendenze: Corna che dal 1624 al 1651 è autonoma – Rodolo – S. Giacomo (Selvetta) -nel 1886 entra nella Parrocchia di Colorina. Sconsacrata con la costruzione del Santuario del Divin Prigioniero nel 1925.