Valtella in Love

L’incontro romantico tra il Lago Bianco e il Lago Nero

Saliamo al Passo di Gavia, a sud ovest dell famoso gruppo dell’Ortles, posto a 2611 metri a collegare la Provincia di Sondrio (Valfurva) e la Provincia di Brescia (Valcamonica). In quest’area sono posti il Lago Bianco, in Valtellina e, duecento metri più in basso, già oltre il valico, il Lago Nero. Le leggende narrano che in queste acque vivono ancora gli spiriti di due amanti con Saturno contro; qualcuno spergiura di avere sentito i loro sussurri d’amore…

In realtà, la tragica storia d’amore ha ben tre versioni

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Belviso era una bellissima ragazza orfana innamorata di un pastore della Valfurva. Suo zio, però, la vende come moglie a un altro uomo, giusto per ricavarne del denaro. Belviso e il suo amato, allora, scappano insieme, anche se lo zio avaro riesce ad acciuffarli al Gavia. Il pastore dice all’amata di scappare al di là del passo, in modo da poter affrontare lo zio da solo e farle recuperare terreno. Prima che il giovane venga ucciso, una forza arcana li trasforma entrambi nei due laghi che conosciamo, appunto uno di qua (Lago Bianco) e l’altro di là (Lago Nero) del Gavia.

Nerino e Bianchina erano due giovani innamorati invidiati da Pinotta, la figlia del Mago. Pinotta rodeva talmente tanto che chiese a suo padre di scatenare una bufera sul Gavia, dove i due fidanzati erano andati a fare una passeggiata, facendoli diventare di ghiaccio. L’unico che poteva invertire l’incantesimo era lo Spirito delle Acque, il quale non poté far nient’altro che sciogliere i loro cuori e farli diventare il Lago Nero e il Lago Bianco.

Lo Spirito dei Boschi, con due profondissimi occhi neri, nutriva una passione irrefrenabile e non corrisposta per la Fata dei Boschi. Preso dalla follia amorosa, la rapisce e lei si fa aiutare dalla Regina delle Nevi che, per farla rimanere pura, la trasforma nel Lago Bianco; per la disperazione, lo Spirito dei Boschi si trasforma nel Lago Nero.

A voi quale versione è piaciuta di più?

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Miss Raincoat

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Valtella in Love

Il Castello di Domofole

Siamo a Mello, su un poggio ben visibile dalla vallata sottostante dove si ergono ancora i resti di un castello di austere pietre grigie, il Castello di Domofole.

L’edificio è stato presumibilmente innalzato nel 1120 dalla famiglia Vicedomini, feudatari del Vescovo di Como in Bassa Valle (la loro “base” era Cosio Valtellino, gli altri castelli erano dei presidi). Fu distrutto e ricostruito durante gli scontri comaschi tra guelfi e ghibellini e definitivamente smantellato, così come tutti gli altri castelli della Valtellina, dai Grigioni.

Ciò che resta della fortificazione sono la sua possente e alta torre d’avvistamento, la cinta, un’idea di sotterranei e le chiese. La torre, sopraelevata dal terreno per motivi di sicurezza, è quadrangolare e suddivisa in più piani illuminati da finestre e provvisti di numerose feritoie. Le chiese sono entrambe dedicate a Santa Maddalena, una medievale e l’altra settecentesca. La più giovane non presenta nessuna particolarità, anzi, è molto rustica; i ruderi della più antica testimoniano una decorazione ad affresco nella calotta absidale.

Domofole” non ha ancora un’etimologia certa; forse, significa “domare le folle“, oppure è semplicemente un nome proprio o un appellativo.

Le principali leggende legate a Domofole ci raccontano di regine e principesse imprigionate dentro le sue spesse mura.

Nel 634, Gundeberga, figlia della regina Teodolinda ci fu rinchiusa dal marito perché infedele. Il marito Arioaldo era un duca che si era impadronito del trono uccidendo il predecessore che, tra l’altro, era il fratello di Gundeberga. Per motivi politico-religiosi, Gundeberga fu accusata di adulterio e rinchiusa in un castello (la storia, a dispetto della leggenda, parla di Lomello, in provincia di Pavia) e poi presto liberata. Arioaldo morì prima di Gundeberga, la quale ebbe un secondo matrimonio e, rimasta nuovamente vedova, si ritirò in monastero.

Nel 951, mentre Adelaide di Borgogna scappava attraverso le Alpi da un matrimonio imposto con Adalberto, figlio di Berengario, fu qui raggiunta e incarcerata dalla suocera Willa, che decise anche di concederle sempre meno cibo (altre fonti, invece, parlano di un castello a Lierna, in provincia di Lecco). Non lo voleva sposare perché si sospettava avesse avvelenato il suo primo marito, Lotario, che aveva sposato a sedici anni e con il quale era stata serena per tre. Fu salvata da don Martino di Bellagio che la diede in sposa a Ottone di Germania e diventò imperatrice. Adelaide era una donna colta e si impegnò tutta la vita in opere di carità. In realtà, don Martino la aiutò solo a fuggire e chiese aiuto e protezione a Ottone che, addirittura, se ne innamora e la sposa.

Miss Raincoat

Valtella in Love

Il Drago di Roccascissa

Circa attorno all’anno Mille, a Berbenno di Valtellina venne veramente costruito il Castello di Roccascissa (il nome è quello dello sperone roccioso), il quale costituiva il primo nucleo del sistema difensivo del borgo. Presso questo castello, fin dalle origini esisteva una cappella dedicata alla Madonna che costituisce il nucleo originario dell’odierna Chiesa dell’Assunta (del XII e poi ricostruita dopo il Sacro Macello, ossia 1620), molto particolare per la sua forma asimmetrica e composita ben visibile dalla pianura sottostante. La fortificazione venne completata nel Quattrocento con la Torre dei Capitanei e la Rocca di Mongiardino. Oggi, però non vi racconterò la Storia, ma la Leggenda…

Durante il Medioevo, il Castello di Roccascissa guardava di torvo una bella porzione di territorio, dalla Valmasino fino a Triangia e apparteneva alla famiglia dei De Capitanei (per capirci, quelli del Castel Masegra di Sondrio).

Raniero De Capitanei, dopo una vita passata in battaglia, decide di ritirarsi a vita privata in monastero e di regalare il castello a suo nipote Goffredo, il quale era ultimogenito e non avrebbe avuto un’eredità ricca di premi e cotillons. Il patto è che il nipote utilizzi il maniero per diffondere pace e concordia, concetti non molto chiari alla famiglia – e, soprattutto, a Goffredo che era particolarmente avido di potere.

Subito appresa la notizia della morte dello zio, Goffredo si affretta con il suo cavallo verso la Rocca di Berbenno, abbandonando anche la moglie, l’unica per la quale provava un sentimento umano. Inoltre, fece forgiare un drago di ferro battuto da porre in cima alla torre; questo, con la forza del suo odio, prese vita: chiunque si fosse avvicinato al castello senza convocazione, sarebbe morto incenerito.

Sua moglie, per fargli una sorpresa, lo va a trovare senza avvisarlo. Il drago, che accecato dal male, non poteva riconoscere le buone intenzioni, figuriamoci l’amore, la ammazza con una lingua di fuoco. Goffredo, in quel momento, sta dormendo. Appena si accorge di quanto è accaduto il suo cuore si sgretola insieme a tutto il castello che, appunto, prende il nome di Rocca-scissa.

Miss Raincoat

Il borgo di Berbenno con la Chiesa dell’Assunta

Gita al Castello di Miramare

Siamo in un quartiere di Trieste, quello più a picco sul Golfo, dove Massimiliano d’Asburgo costruì una dimora da condividere con la moglie Carlotta del Belgio, a metà Ottocento. Il nome “Miramare” significa guardare il mare ed è memore dei castelli spagnoli che piacevano molto a Massimiliano. Lo stile al quale si ispira è quello del Castello di Babelsberg a Potsdam in Germania.

Il parco marino di 22 ettari ospita piante di vari generi, alcune delle quali collezionate dallo stesso Massimiliano, appassionato di botanica, durante i suoi viaggi come ammiraglio della Marina Militare Austriaca.

Nella parte superiore si trova il Castelletto, una residenza più piccola che ospitò i regnanti durante la costruzione, ma che divenne una sorta di manicomio murato per la sventurata Carlotta. Infatti, pare che il Castello sia legato ad una maledizione: chi ne prende possesso non può goderne la bellezza dacché morirà lontano da casa (Massimiliano morì assassinato in Messico e Carlotta impazzì). Vengono ancora più i brividi se si pensa che la coppia entrò nel Castello a Natale 1860.

Io ho raggiunto il sito con i mezzi pubblici da Trieste. Se si alloggia nella città è il modo più comodo così non bisogna spostare la macchina da un parcheggio a pagamento (unica pecca di Trieste, ma risolvibile parcheggiando al Molo IV per 10€ al giorno) ad un altro ulteriormente a pagamento. Il biglietto del pullman, infatti costa 1,25 € e vale un’ora; il parcheggio del sito costa 2,00 € all’ora – considerando che la permanenza dura più di un’ora. Il bus si prende dalla Stazione Centrale oppure da Piazza Oberdan e passa circa ogni 20 minuti; si scende al capolinea, cioè al porticciolo di Grignano. Da lì si prende una scaletta e si arriva alla parte superiore del parco. Una volta finito il percorso al Castello si può uscire sul lungo mare e, in 15 minuti, raggiungere la fermata bivio; oppure, ritornare indietro al porticciolo.

Percorso di visita: Serre – Castelletto – Casa Svizzera (bar) – Lago dei Cigni – Giardino all’Italiana – Molo con Sfinge – Castello – Belvedere – Scuderie

Alcune informazioni: parcheggio a pagamento, bar, wc, aperto tutti i giorni dalle 9 alle 19 – parco: gratis , castello: 12,00€

http://www.castello-miramare.it

❤ Miss Raincoat

 

«O Miramare, a le tue bianche torri
attedïate per lo ciel piovorno
fósche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.»

Giosuè Carducci

Il mio angolo preferito di Morbegno

Una guida non può non avere il suo posto del cuore in ogni luogo che racconta. A Morbegno, questo è il mio – io, convenzionalmente, lo chiamo il Draghetto di Morbegno.

Qui siamo in Via Carlo Cotta, tra la porta di San Rocco e il Ponte Vecchio, ma questo battente non salterebbe mai all’occhio se non si sapesse della sua esistenza.

Tuttavia, i palazzi del Sei/Sette-cento valtellinese sembrerebbero fin troppo seri senza la grazia dei ricami in ferro battuto dei terrazzini e dei portali – uno diverso dall’altro e tutti simbolici – che rendono caratteristiche le vie e le viuzze del centro storico di Morbegno.

Il ferro battuto è una grande scoperta tecnica dell’homo faber, ossia quella del poter modellare il metallo duro tramite un processo di riscaldamento, per secoli considerato una pratica magica. Afrodite, per quanto preferisse i muscoli di Ares, si era sposata Efesto, dio del fuoco e delle fucine.

Per quanto riguarda il suo utilizzo artistico, cioè non finalizzato alla manifattura di strumenti e armi, si può ipotizzare che sia stato diffuso dal Medioevo dai Conventi. Da queste scuole, si formarono i cosiddetti fabbri itineranti (si muovevano di città in città offrendo la manodopera al migliore offerente).  Un pezzo d’arte d’antan molto pregiato, del resto, fu la chiave di ferro battuto per aprire chiese e luoghi sacri. 

Il ferro veniva estratto dalle miniere e poi fuso nelle forge. Un paese valtellinese molto famoso per l’estrazione del ferro (nella Val Madre) e per le fucine (sul Torrente Madrasco), già attive nel Trecento, è Fusine, sulla sponda orobica, che deriva pure la sua toponomastica da questa preziosa attività.

Per quanto riguarda la scelta dell’immagine del drago, possiamo percorrere due strade interpretative: 1– simbolo del male e del peccato, che va esorcizzato 2– portafortuna posto a guardia di un tesoro o di una casa. Dipinto su un palazzo di questa stessa via, troviamo un altro drago, quello che San Giorgio sconfigge in nome della Santità. Inoltre, il drago è anche presente nel repertorio di numerosi stemmi nobiliari, per esempio quello dei Visconti.

Nel repertorio delle leggende valtellinesi c’è anche quella del basilisco, temibile piccolo drago volante che può uccidere con un solo sguardo. Il lembo di terra tra il Culmine di Dazio (sponda alpina retica, sopra Ardenno) e il Crap di Mezzodì (sponda alpina orobica, sopra Forcola) era chiamato, almeno fino all’Ottocento, Stretta di San Gregorio: nella località omonima, infatti, la strozzatura ad esse del fiume Adda costringeva chiunque si recasse verso la Media Valtellina a continuare il suo viaggio in traghetto, per raggiungere l’altra sponda della Valle e risalirla. Ecco, pare che – in aggiunta alla tortuosità della via – ogni tanto, i simpatici basilischi percorressero in volo le due cime che fungevano da “colonne d’Ercole“.

** Ringrazio il mio amato Draghetto per avermi casualmente fornito l’ulteriore riprova che … noi guide siamo anche piuttosto cagionevoli alla serendipità. Alla fine, la verità la troviamo sempre! (Quanto è bella la canzone di Noemi con il video unicornoso, piuttosto???) **

❤ Miss Raincoat