“Bere una Coca con Te” di Frank O’hara

Frank O’hara, curatore del MOMA di New York e membro di spicco della New York School (arte contemporanea), può essere definito un artista urbano. Ci descrive Manhattan nel modo più ironico e genuino possibile. Le sue poesie sono dialoghi e non celebrazioni, per questo riescono a sconfinare dalla pagina. Il suo linguaggio è semplice, studiato, meditatamente sgrammaticato, anche se le sue immagini provengono dalla sua “canoscenza”. Ignaro del suo talento, componeva addirittura i suoi versi in stanze piene di gente e dimenticava le sue opere nel cassetto della scrivania.

Questa poesia mi piace perché riesco a farla mia. Parla di viaggi, di arte e di amore senza fronzoli smielati.

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Cosa ho capito io…

La Coca Cola, simbolo del Consumismo, la famosa bevanda analcolica ma frizzante, diventa protagonista della comparazione con la donna amata, una sorta di Beatrice moderna. Ossia il poeta preferisce il bere qualcosa di semplice, non Champagne, con lei piuttosto che viaggiare per mari, come Ulisse. Le località citate, oltre a essere delle località balneari europee, sono anche situate nei Paesi Baschi spagnoli e francesi, quindi indicano anche la sudata indipendenza dello stare da soli. Eppure, se non torni da nessuno, vagare per il Mondo può anche farti dare di stomaco. Un’analogia che ritorna più volte è il San Sebastiano, con la città iberica e l’arancione (l’iconografia del Santo lo vuole martirizzato su un arancio): chi non ha mai visto la persona che ama luccicare come se fosse sacra?

L’ambientazione del componimento è un pomeriggio passato ad una mostra di statue al MOMA. I sorrisi complici e il fatto che il curatore consideri l’Arte troppo statica rispetto all’amore per la donna, però, riportano alla mente ciò che è successo nell’appartamento di fronte al Museo nelle prime ore del mattino. Qualcosa che viene descritto con la metafora dell’albero che respira dagli occhiali.

Meravigliosi i giochi di parole tra “love for” e “lave for“, che si leggono ugualmente, ma la seconda sta a significare una completa immersione. È sublime, poi, l’ironia tra l’amore di Frank per la donna e l’amore della donna per lo yogurt (acidella?!); l’ho trovata anche una reminescenza catulliana.

Nel crescendo dello smarrimento di non trovare più l’appagamento nell’Arte che tutti i “secchioni” provano, viene citato il dipinto preferito del poeta, “Il Cavaliere Polacco” di Rembrandt. Questo quadro, comunque, non è esposto nel “suo” MOMA, ma alla Frick Collection (quando non è “in giro” per esposizioni temporanee). Tuttavia, Frank è contento che la donna non l’abbia mai visto, una sorta di virilità dinnanzi alla “verginità” intellettuale.

Anche il Futurismo, che indaga il movimento, è troppo fermo rispetto ai gesti della donna (più avanti nel testo, si snobba Marino Marini e le sue varie versioni di “Cavalli e Cavalieri”, sostenendo che, forse, era il cavaliere a non saper padroneggiare il cavallo). Addirittura, il poeta non riesce più a sbavare nemmeno per i maestri Leonardo e Michelangelo.

Meravigliosa la domanda retorica sugli Impressionisti. Il poeta si chiede a cosa sia servita tutta la diatriba se all’aperto, dove questo gruppo di pittori dipingeva, non avevano nessuno insieme o al “Levar del Sole” (è il quadro di Monet con il quale inizia la Corrente Impressionista), dacché lui al levar del sole era con la sua donna nella sua camera da letto.

Incredibilmente per un amante dell’Arte, la poesia conclude asserendo che gli artisti si sono fatti tutti quei ragionamenti assurdi, perché non si erano mai concessi d’innamorarsi. Innamorarsi impegna il cervello e ti fa diventare anche piacevolmente ignorante. Frank è messo a disagio da questa deficienza, eppure lo sta dicendo alla donna, appunto perché è pazzo di lei, in una moderna versione dell’amor cortese.

❤ Miss Raincoat

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